Tortoise: camminando all’indietro

Dallo scorso gennaio è in circolazione un nuovo album dei Tortoise, The Catastrophist. Ha una copertina penosa e in tanti ne hanno detto bene. Saprete dunque che vi sono ospiti Georgia Hubley degli Yo La Tengo (su Yonder Blue, l’unica roba davvero degna) e Todd Rittmann, già negli U.S. Maple; che contiene una pessima cover della Rock On di David Essex; che il gruppo ha suonato dal vivo temi “liberi” cui ha successivamente dato forma. Va bene. Chiedi all’oste se il vino è buono. Se chiedete a me, mi sono annoiato e talvolta infastidito. Meno che con It’s All Around You e Beacons Of Ancestorship, suoi predecessori che tra 2004 e 2009 ammorbavano con vuoti formalismi, ma a questo punto non fa alcuna differenza nel declino inarrestabile di un ensemble comunque da annoverare tra i capisaldi dell’avanguardia dell’ultimo quarto di secolo.

Campioni del post-rock, i Tortoise non hanno saputo convertire istanze sommamente innovatrici in una classicità vitale o in evoluzioni credibili. Il modello consegnato ai posteri nei primi due fantastici album ha invece ceduto alla freddezza e alla maniera come fu per la fusion e il progressive. Non era scritto che dovesse andare per forza così, sennò a che era servito il punk che aveva incubato i ragazzi via l’indie americano anni ’80? Eppure…

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Eppure c’è stato un tempo in cui la Tartaruga allargò confini e canoni del rock rigettandone la tradizione più ortodossa, sintetizzando con mano abile – attenta a sfumature, sottintesi ed essenzialità – dub, jazz, krautrock, colonne sonore e minimalismo colto con un uso creativo della tecnologia e dello studio di registrazione. Scioltezza esecutiva e apertura mentale facevano il resto: qualità tipiche della scena musicale di Chicago, dove nei primi Novanta Doug McCombs (bassista degli Eleventh Dream Day) e John Herndon (ex Poster Children: batteria e vibrafono) si uniscono alla sezione ritmica dei disciolti Bastro (Bundy K. Brown più John McEntire, costui anche negli ottimi Sea & Cake) e al percussionista Dan Bitney dei Tar Babies, discreti emuli dei Minutemen.

Background composito e peculiare – niente chitarre, avrete constatato – che spiega l’avvenire più di quanto non faccia nel 1993 Mosquito, primo 7” che è acerbo assaggio della ricetta di cui sopra. Dopo il passaggio alla Thrill Jockey, ecco un altro 45 giri, Lonesome Sound: una rarità fino a oggi per i Tortoise il lato A, un brano cantato delle Freakwater, che come il retro slintiano sa di omaggio e saluto, siccome l’LP di debutto prenderà decisamente le distanze dal recente passato.

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Tortoise traccia infatti coordinate presto imitatissime in brani strumentali scolpiti su equilibrati intrecci melodico-ritmici (Spiderwebbed; Cornpone Brunch) e incastonati su groove meditativi (Magnet Pulls Through), solcati da tensioni (Onions Wrapped In Rubber guarda alla trance californiana) e astrazioni new-wave (i P.I.L. presiedono a Tin Cans & Twine; frequenti gli echi del Dub Syndicate), disposti ad aperture jazzate (Ry Cooder) e atmosfere cinematiche (On Noble, Flyrod). Una svolta epocale che pochi notano sul momento e che in un simbolico, beffardo gioco del destino vede la luce poco dopo il suicido di Kurt Cobain. Fortemente motivati a spiazzare, mentre iniziano a farsi chiacchierati i chicagoani stampano duemila copie di Rhythms, Resolutions And Clusters, remix dell’esordio in trip-hop glaciale ed elettronica scheletrica concepiti con Jim O’Rourke e Steve Albini.

Del ‘95 anche Gamera, sensazionale EP dove la title-track guida John Fahey su una distesa autobahn e il collage Cliff Dweller Society è la prova d’orchestra per il secondo 33 giri. Messo su nastro dopo che Brown è stato rimpiazzato dall’ex chitarrista degli Slint David Pajo, a inizio 1996 Millions Now Living Will Never Die affina incisività e umanesimo intellettuale in Djed, venti stordenti minuti di panorami che mescolano Steve Reich e Neu!, Tubular Bells e Metal Box, la filosofia delle etichette Mo’ Wax e On-U Sound. Lascia tuttora senza parole e idem lo struggente acquerello alla Portishead Along The Banks Of Rivers, la frenesia di intarsi The Taut And Tame, l’elegia dal cuore di cristallo Glass Museum, un’ombrosa A Survey e una sospesa Dear Grandma And Grandpa. Accolto unanimemente come il (secondo) capolavoro che è, genera anch’esso rifacimenti su 12” cui partecipano Oval e Luke Vibert.

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Godute le lodi e svagatasi in progetti paralleli, con il terzo “vero” LP la band lascia perplessi i sostenitori della prima ora e incassa l’applauso di chi – AD 1998 – ha appena “scoperto” il post-rock. Salomonicamente, annoto che su TNT pesano l’ora di durata, certi accenni d’accademia, David Pajo che entro breve darà forfait – e se fosse rimasto? –  alternandosi con il più tecnicistico Jeff Parker. D’altro canto, trovo ancora molto gusto per l’azzardo nel ribollente brano omonimo, nell’incalzare complesso di Swung From The Gutters, nei caraibi electro di The Equator, nel sussulto drum‘n’bass Jetty. Ridondanza e bella calligrafia si estenderanno presto come un male incurabile, ma prima i Tortoise scambiano dosi di genio con gli olandesi Ex in un tomo della collana In The Fishtank e consegnano uno Standards ancora sorprendente per umori aciduli, funk al silicio, obliquo surf jazz .

Un ultimo scossone, poiché le cover di The Brave And The Bold con a Bonnie “Prince” Billy saranno un fiasco rimarcato dal viceversa eccellente recupero di rarità del box A Lazarus Taxon. Potrebbero cavarsela, i Tortoise, (re)infondendo nella musica una passione che allontani l’autocompiacimento e la sindrome del bravo musicista. Oppure, approfondendo le contaminazioni con il jazz in modo non scontato, ispirandosi alle belle imprese del concittadino e sodale Rob Mazurek con Exploding Star Orchestra e São Paulo Underground. Macché. Dal 2001 è odissea nella noia, senza neppure la speranza che un giorno il monolito nero faccia la sua ricomparsa.

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La psichedelia sincretica di Jacco Gardner

Da sempre la psichedelia è un muta-forma che sfugge a etichette troppo rigide e ogni volta affascina, che si porga coloratissima e solare oppure cupa e caliginosa. Evidenza ulteriore il fatto che ogni generazione escogiti una sua concezione di abbandono dionisiaco sonoro: dal love-in al rave il passo è più breve di quanto si creda e la differenza tra Chemical Brothers e Grateful Dead è faccenda meramente formale. Genere modernissimo, la psichedelia, proprio per il perenne movimento col quale si appropria di altri linguaggi innestandoli sul tronco originario.

Il quale, escludendo per un momento dall’orizzonte il garagepunk e semplificando brutalmente, differisce da una sponda all’altra degli oceani. Con le dovute eccezioni: blues-rock chitarristico dilatato e dilaniato da jam modali in California, più disposto a goticismi e contaminazioni elettroniche sulla costa est americana, inzuppato in un pop sognante ma stridente e incline a svolazzi nel Regno Unito. Ed è giustappunto in panorami da favola deviata – alla Lewis Carroll, per intenderci – che si aggira Jacco Gardner.

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Olandese classe 1988, polistrumentista per educazione familiare, Jacco appartiene alla propria epoca per la disinvoltura con cui mescola tutto lo scibile rock a disposizione. Si definisce neo-psych/baroque pop e potremmo finirla qui, aggiungendo che per lui tutto è cominciato dal Syd Barrett che ne ha formato il modo di scrivere, cantare e arrangiare. Però: ridurlo a epigono del Diamante Pazzo è, oltre che ingiusto, un errore di prospettiva. Un volersi fermare alla superficie come negli anni ’80 accadde con Paul Roland, geniale menestrello psico-gotico britannico che pubblicò un lavoro (quasi) omonimo dell’esordio su LP di Gardner, Cabinet Of Curiosities. Allo stesso modo in cui il DNA di Roland tratteneva le impronte di Mr. Barrett ma pure quelle di Marc Bolan e di H.P. Lovecraft (lo scrittore, non il gruppo), il nostro giovanotto esibisce trame folk quel tot più lineari e un senso per il groove filmico prossimo agli Stereolab. In lui cogli i Sixties e l’inizio del decennio seguente, la lezione del krautrock e dei nostri Umiliani e Piccioni.

Gardner dispone insomma di vastissime suggestioni da cui pescare, le quali non varrebbero tuttavia nulla se non vi fosse dalla sua parte l’abilità a maneggiarle e riassumerle in una forma canzone equilibrata. Troppi negli “anni zero” puntano a stupire con sonorità mirabolanti e crossover arditi, nondimeno pochi conservano le energie necessarie a scrivere brani di peso. E ricordiamoci che un nonnulla separa pastiche da pasticcio. Queste le premesse che nel 2013 consegnavano Cabinet Of Curiosities e un visionario folk-pop indice di un talento assai promettente. Lo scorso anno, il gioiellino Hypnophobia si spingeva ben oltre, recapitando un manipolo di missive acide ancor più persuasive e sovente addirittura esaltanti. Rivelatore il titolo, siccome l’ipnofobia è la paura di addormentarsi e cedere a un sonno che nasconde la parte di noi che fatichiamo a controllare e conoscere.

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Da meandri nascosti della mente, come ombre che giocano a rimpiattino con la percezione giungono infatti sfoglie emotive preziose di un gusto melodico ancor più ricco e di atmosfere in adeguato bilico tra sogno e realtà. Ciò che parrebbe una contraddizione in termini è, invece, la forza di ipotesi minimaliste dei Left Banke (Face To Face, Grey Lanes), di sortilegi elettroacustici (le trasparenze Make Me See e Brightly; una Outside Forever che sposa Love e July), di giostre stupefatte (il Brian Wilson in estasi lisergica di All Over; l’innodica, marziale ed elegante Find Yourself). E poi: Before The Dawn sono otto fenomenali minuti in cui gli Stereolab si reincarnano nelle ESG, Hypnophobia sgrana magnetismi sensuali però inquieti, la circolare Another You vede i Broadcast alle prese con la colonna sonora di un horror di serie b. Tanto più brand new quanto è (falsamente) retro, Jacco Gardner è qui per stupirci a lungo. Scommettiamo?

Thyme Perfumed Gardens-1: Druids of Stonehenge

Nella scala “Dave Hassinger vs. Electric Prunes”, il rapporto tra i Druids Of Stonehenge e il produttore/manager/aguzzino Jerry Goldstein entrerebbe nella Top Ten, se qualcuno più dei soliti intenditori si ricordasse di loro. Un peccato, perché Creation è LP che merita ben più delle lodi di cultori e studiosi terminali. I nostro rsgazzi non furono eroi nemmeno per un quarto di minuto. Eppure, il loro stile sanguigno, minaccioso e ben articolato non suonava fuori tempo massimo nel ’68 dell’acid rock imperante, né oggi pare una curiosità d’epoca. Anzi: un senso di classicità promana da un lavoro che col senno di poi ha l’aspetto del (chissà quanto volontario) ponte tra sottogeneri. E come non voler bene alla melanconia nervosa e tuttavia raffinata che attraversa Forgot To Begot e la dylaniana It’s All Over Now Baby Blue? Sapevano il fatto loro quegli adolescenti – diciassette anni in media – incontratisi a New York nel 1965.

Ispirati dalla blasfema trinità Them/Rolling Stones/Pretty Things, Dave Budge (voce), Carl Hauser e Billy Tracy (chitarre), Tim Workman (basso) e Steve Tindall (batteria) si fanno chiamare Druids e guadagnano rapidi una certa fama cittadina. In autunno varcano la soglia del Nola, uno studio di Manhattan solitamente utilizzato dalle grandi orchestre, e davanti a un paio di microfoni Neumann U47 registrano crude versioni di brani blues ed errebì. Recuperate a metà novanta con altre due posteriori di un anno su un EP della Sundazed, raccontano una ghenga intenta a strapazzare il canone British Invasion. Avanti veloce al Sessantotto. Improbabile che nel frattempo i ragazzi siano andati a letto presto: eccoli sulla costa opposta con Elliot Randall al posto di Tracy, la ragione sociale che (non) li renderà famosi e un contratto con la Uni, affiliata al colosso Universal/MCA. Hai detto niente. Inoltre, si sono fatti il mazzo nei club affidandosi al succitato Goldstein, navigato marpione che ha scritto per loro un paio di pezzi destinandoli a un singolo che nel giugno ’67 passa inosservato.

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Sia A Garden Where Nothing Grows (psych-soul, se vi pare) che Painted Woman (gli Stones amari invece che cinici) saranno recuperate di lì a un anno sull’album. La psichedelia si è infiltrata nel piglio da Animals inviperiti del quintetto, cresciuto in statura autoriale ed esecutiva al punto che le escursioni strumentali viaggiano su solidi binari, possono talvolta dilatarsi senza sbrodolate, rafforzando e sottolineando la destrezza con la quale si cammina sul filo tra ruvido rhyhm’n’blues e peculiare garage.

Sono davvero punk controcorrente, i Druids Of Stonehenge: nel post-Sgt. Pepper’s in cui prevalgono raffinatezze di studio e ghiribizzi, Budge sprizza una raucedine tra Mick Jagger ed Eric Burdon, le sei corde mescolano jangle-folk e rock‘n’roll, la sezione ritmica è flessibile il giusto e picchia dove serve. Nelle riletture di I Put A Spell On You (Screamin’ Jay Hawkins) e Signed D.C. (Love) sistemate al centro delle due facciate sta il senso del disco, ovvero giungere a una psichedelia garagistica dai colori mai diluiti perché si tiene stretta l’essenzialità delle dodici battute. A tutto vantaggio di autografi scintilanti come la popedelica con nerbo Forgot To Begot e la secca Speed, come un’adeguatamente cupa e chiesastica Six Feet Down e una Pale Dream dal serrato groove chitarristico.

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Stenti a credere a session travagliate divise tra Hollywood e la Grande Mela; a una formazione in rivolta contro Goldstein, reo di aver intascato il sontuoso anticipo contrattuale (350.000 dollari…) a copertura del ruolo di produttore (aveva però inciso Creation in economia: almeno artisticamente, fu un bene); a un risultato che disgusta i Nostri per l’assenza della furia sprigionata sul palco. Punk, dicevo. Nell’estremo tentativo di sfondare, ospiti in televisione al “Joe Franklin Show” gli viene imposta God Bless The Child.

Loro, che amano Billie Holiday, senza batter ciglio la stonicchiano e inframezzano con una rutilante Paint It Black. Mi piace ricordarli così. L’LP sarà un flop commerciale e si saluteranno nel 1969 per riunirsi occasionalmente. Dopo decenni di copie originali a prezzi da capogiro e pessime edizioni pirata, nel 2011 Creation è stato ristampato in CD e vinile dalla Sundazed usando i master originali. Fate un regalo ai Druidi e a voi stessi. Non vi deluderà.

Le mini sinfonie estatiche degli A.R. Kane

La gente si aspettava che suonassimo reggae, e in cambio si beccava il feedback.”

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L’ascolto a posteriori di 69 è un’esperienza in tutti i sensi stupefacente. Semplici, in fondo, le ragioni: la storia dell’arte è attraversata da Geni in eccessivo anticipo sui tempi, di visionari che non si limitano (si fa per dire, eh!) a cogliere lo spirito dei tempi e a tradurlo in canzoni. Alcuni vedono già il futuro e, spesso nell’indifferenza, scrivono regole che poi diverranno un patrimonio comune. Nel caso degli A.R. Kane riconosci un misto delle due cose, con un successo planetario sotto mentite spoglie a confondere ulteriormente le carte.

Per capire bisogna fare un passo indietro al crepuscolo degli anni ’80: l’ortodossia rock stava cadendo sotto i colpi del crossover spinto; “contaminazione” era la parola d’ordine pronta a riverberarsi fino ai giorni nostri. In quelli, di giorni, cadevano invece muri veri e metaforici, mentre il mondo come lo conoscevamo perdeva le certezze su cui si era basato dal dopoguerra in poi. Il pop, felicemente, gli andava dietro: presto il 1991 avrebbe fatto piazza pulita dei manichei e la musica sarebbe cambiata. Per sempre. Per fortuna.

A Londra, in un 1986 dominato da bellimbusti da classifica e da un indie-rock chitarristico dedito alla riscoperta – e, in certi casi, alla rielaborazione – dei favolosi sixties, si incontrano Alex Ayuli e Rudi Tambala. Il loro primo 45 giri guadagna per lo più spallucce e la definizione di “Jesus & Mary Chain di colore”. Cosa che in parte sono, benché più attenti alla componente ritmica (felice retaggio della negritudine…) e più “psichedelicamente” espansi rispetto ai fratelli Reid. Chiarisce in parte lo spirito e l’attitudine della coppia il passaggio dalla One Little Indian alla 4AD per l’EP Lollita, giocato su atmosfere oniriche asperse di feedback e prodotto guarda caso da Robin Guthrie dei Cocteau Twins. Ancora non lo chiamano shoegaze, però in anticipo ci siamo.

A quel punto, il capo dell’etichetta Ivo Watts-Russell li persuade a far comunella con Martyn e Steven Young dei Colourbox, l’asso della consolle Chris “C.J.” Mackintosh e il DJ Dave Dorrell. In testa hanno l’idea meravigliosa di un brano prodotto basandosi solo su campionamenti e breakbeat. Dell’epocale Pump Up The Volume si smerciano milioni di copie, portando l’avanguardia in classifica e incidendo sulle sorti della musica popolare.

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Siccome il progetto M/A/R/R/S non va oltre, dei piccati A.R. Kane approdano alla Rough Trade per un esordio che nel 1988 non tradisce le attese createsi nel frattempo. Gran parte dell’atemporalità fascinosa di 69, oltre che nel preconizzare con disinvoltura alcuni momenti chiave degli anni Novanta non rubricabili soltanto alla voce “post-rock”, sta in sonorità sospese e oceaniche.

Come dei My Bloody Valentine che trattengono le distorsioni sullo sfondo e lavorano con il ritmo, A.R. Kane porgono melodie eteree e un canto che, lambendo il Tim Buckley più trasparente, si inerpica tra volute di uno psych-funk siderale. Musica di sfere celesti, sì, ma inequivocabilmente fisica. Una tessitura di groove liquidi e di slarghi dub sciolti in patine rumoriste ma pur sempre pop.

Miracolo a sé stante, 69 rimarrà ineguagliato anche da parte dei suoi stessi artefici: l’anno dopo, i sarà ancora stimolante benché dispersivo, laddove tra ’92 e ’94 Americana e New Clear Child avranno poco da dire; al contrario imperdibile la doppia raccolta Complete Singles Collection ‎uscita su One Little Indian nel 2012. Benissimo così, siccome qui respiriamo eternità raccolta in un’estasi sensuale e insieme spirituale, in collage sonori che si arrestano un attimo prima di smarrire forma e trasporto emotivo. Anche in questo, una fulgida lezione di stile.

 

Come e perché Turrefazioni

Già sento le domande: “Chi te lo fa fare?” Eh… “Come, un altro blog che parla di musica?” Beh, sì… “Ma non avevi detto che mai e poi mai…?” Chi, io? Il fatto è che tre anni dopo aver smesso di scrivere per una nota e un tempo gloriosa rivista musicale italiana, ho ceduto. Più che la tentazione del solipsismo, però, è stata la necessità di scrivere per liberarmi di qualche peso a farmi infine capitolare. E poi perché qualche mio Maestro ha suggerito che “si può”.

Allora: ciao, sono Giancarlo Turra. Ho scritto per un po’ su “Extra” e su quella rivista là. E ho collaborato a un volume per la Giunti con tre dei suddetti Maestri, persone stupende che sono soprattutto Amici con cui ho condiviso e seguito a condividere bei momenti. Ma veniamo al sodo: su queste pagine virtuali leggerete un po’ di cose vecchie remixate e/o rimasterizzate per l’occasione e altre che saranno nuove del tutto. Mi muoverò come meglio mi aggrada, attraverso il tempo e lo spazio sonoro, seguendo l’istinto però pure il cervello.

Sempre con il desiderio di intrattenervi, forse incuriosirvi, magari farvi pure incazzare. Perché no? L’importante è che non vi annoiate. Mai. Sappiate che nel frattempo, in quei trentasei mesi, mi sono rasato quei pochi peli rimastimi sulla lingua. Soprattutto, che la passione per la musica è intatta come il giorno in cui un grigio autunno si colorò d’arcobaleni aciduli sulle note di Strawberry Fields Forever. Benvenuti.