“La vita è come una favola: non importa quanto è lunga, ma quanto è ben raccontata.“ (Seneca)
Voleva stupire fino alla fine, Mr. Jones, e c’è riuscito. Nell’ora suprema, quando se ti sono concessi tempo e possibilità provi a fare bilanci di fronte all’ignoto, la rappresentazione somma è diventata per lui vita vissuta e due dischi splendidi hanno azzerato anni di mediocrità. Perché che altro poteva fare costui – e noi devoti – dopo che su Marte ci siamo stati, dopo che i dischi li abbiamo suonati al massimo del volume, dopo che abbiamo provato a essere eroi per un giorno?
Poteva giusto guardare indietro senza rabbia, soppesare grandezza ed edonismo, ragionare sul proprio talento e su quello altrui. Anche se di cincischiare con roba modesta aveva ogni diritto, che altro poteva cercare David Bowie? Il vero se stesso, magari, nascosto dentro le funamboliche mutazioni che lo hanno reso celebre e celebrato finché funzionavano e poi – pongo il mio limite a Let’s Dance – disegnavano una falena che sbatacchiava. Poi, mostrare quanto quel suo sé fosse (ingegno a parte) uguale al nostro: un mosaico di ciò che siamo stati, siamo e forse saremo.
Gli ultimi giorni bowiani mi sembrano una fantastica cartina di tornasole di quel magma pop d’avanguardia, cangiante e indefinibile, dal cui centro David ha regnato. Nella tristezza della dipartita, consola almeno un po’ immergersi in un misto di dura realtà ed emozioni che sono come stelle libere di cadere. E noi ad ascoltarle, quelle comete emozionali trattenute per la coda in forma di canzoni, ricordando che l’arte comincia sempre da qualcosa che già c’era e che viene mascherato, trasfigurato, reinventato affinché rinasca.
Dunque: nel 2013 il vendutissimo The Next Day piegava a nuove temperie lo spirito dandy europeista di una new wave che Bowie stesso contribuì a plasmare. Partendo dall’ineludibile (per chiunque: artefice incluso) trilogia berlinese concepita con Bian Eno, rammentava al mondo che il dopo punk tornato in auge era anche un rock multiforme che attende di esplodere ma non esplode davvero mai. Non contento, l’uomo spostava la resa dei conti al “giorno seguente”, ragionando sul concetto di crisi d’identità e autocitandosi nel tempo senza tempo in cui retromania è troppo spesso una comoda scappatoia. Questa la spina dorsale di quel disco che riassumeva anime artistiche in cui il (fu) Duca istillava un calore per lui inedito.
Le abbiamo capite dopo, le ragioni di quell’umanità: anche gli Dei moderni che immagini sempre giovani e belli invecchiano e infine muoiono. Prima però possono spedire un’ultima missiva, ed ecco che Black Star rimette in gioco un autore coraggioso, perfettamente assecondato da jazzisti “obbligati” a suonare benissimo un rock altro. Lo mette in chiaro subito, inaugurando un LP uscito in occasione del suo (ultimo) compleanno – il caso, qui, più beffato che beffardo… – con nove minuti stordenti che rimbalzano tra echi febbrili di Lodger e soul girato post-rock, tra melodiare struggente ed elettronica ombrosa.
Salvo poi piazzarci di fronte alle melanconiche ed elaborate rifrazioni Dollar Days e I Can’t Give Everything Away; fotografarci mentre inseguiamo l’oscura ballata Lazarus e osserviamo l’ansiogeno pop moderno Girl Loves Me insegnare un paio di cosette ai TV On The Radio; porgerci il vigore ritmico di Sue e la muscolosa eleganza di ‘Tis A Pity She Was A Whore. Nel frattempo ti scopri a riflettere su quanto sia sofferente e increspata d’amaro la voce. Provi a coglierne i sottintesi e, alla fine, ti arrendi a brividi che qui carezzano e là inquietano. Black Star è un memento mori sulla soglia dei saluti finali senza ombra di cinismo alcuno. Testamento migliore non poteva esserci. Bye bye, Starman.
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