Nap Eyes: uccidi l’indie snob

Avete presente il detto secondo il quale hai ragione quando fai incazzare tutti? Per lo più è vero. Allo stesso modo, se chiunque dice bene di una band, un sospetto mi serpeggia in mente. La bestia indie-snob che tanto ho sudato per scacciare torna a farmi visita portando diffidenza e spallucce. Spesso ha ragione, lo ammetto. A volte, invece, il guitar sound delle nuove generazioni dimostra magia, attributi e idee. Ritrovo l’approccio fintamente rozzo e realmente sozzo, ma soprattutto canzoni notturne e fascinose che seducono con contaminata purezza. Irresistibili per indolenza nevrotica eppure sognante e un romanticismo un po’ cinico e un po’ passionale che appartiene ai dischi che non prendono mai polvere, a quelli che sulla costina hanno scritto Feelies, Yo La Tengo, TV Personalities, Swell Maps, Modern Lovers, Pavement…

Allora perché non nominare il Gruppo dei Gruppi e farla finita? Perché sappiamo che il gioco delle somiglianze sa essere crudele e ingiusto come pochi altri. Ma sappiamo anche che un elenco di “figli” eccellenti dei Velvet Underground richiederebbe pagine su pagine. Di fatto, il loro filo scuro è indenne al tempo e conduce regolarmente al rock che per davvero conta. Guarda caso, quel filo sbuca fuori subito a proposito dei canadesi Nap Eyes, che nel primo scorcio di 2016 hanno pubblicato Thought Rock Fish Scale, secondo album capace di incassare gli elogi di “Stereogum” e “Pitchfork” come di “Mojo” e “Uncut”. Dicevi, scusa? Calma: di entusiasmarsi v’è donde. E se il solito hipster tira fuori segaiole descrizioni per darsi un tono, fregatevene: versategli il cocktail sulla barba e fiondatevi senza esitare su una musica tra le più eccitanti in circolazione.

Nap-Eyes[1]

Roba che smuove cuore e cervello mentre mi leva la sedia da sotto il culo. Sul pavimento, ragiono su come ancora possano dire qualcosa un pugno di accordi minimali e ipnotici, il canto che chiacchiera tra scazzo e autoanalisi, le tessiture di luci e ombre. Dopo l’ennesimo ascolto, ci arrivo: il segreto è accettare che da sempre il pop migliore sia, in mani abili, un riciclo creativo. I Nap Eyes poggiano dunque la loro estetica su un immaginario fidato, tuttavia lo innervano di spiccata personalità e di significati attuali: la decadenza di Venus In Furs e Candy Says è sostituita da profonde riflessioni su disillusione e incomunicabilità, laddove il linguaggio sonoro comprime il percorso velvetiano in un calderone possibile solo col senno del poi.

Feedback rugginoso e stoffa compositiva sono presi dalla “Banana” per temprare gli accenni di bassa fedeltà alla White Light/White Heat; lo sfondo folk metropolitano profuma del terzo LP di Lou e soci e tra le pieghe scorgi l’essenziale fisicità di VU. Cotanto genio ha alle spalle una storia semplice che parte da Halifax, Nuova Scozia, dove quattrocentomila anime affrontano il freddo dell’Atlantico. Nigel Chapman – che nei Nap Eyes scrive testi belli e arguti, canta e imbraccia la chitarra ritmica – nel 2011 si stanca di suonare folk in solitudine e raduna pochi amici (Josh Salter al basso, il batterista Seamus Dalton, la sei corde abile e misurata di Brad Loughead) coi quali dare altra forma alle sue visioni. Nel 2014 un LP di debutto vede la luce su un minuscolo marchio di Montreal, però nessuno si accorge di quelle duecento copie e Chapman bussa alla You’ve Changed, altra etichetta locale dai mezzi un tot più ampi.

Con l’appoggio della benemerita americana Paradise Of Bachelors, si riedita tutto organizzando un tour continentale. Da lì è bastato poco affinché Whine Of The Mystic lasciasse di stucco e spingesse a pensare che i quattro potessero fare persino meglio. Così è stato. Incisa in diretta nella casa al mare dei Chapman, la mezz’ora abbondante di Thought Rock Fish Scale tratteggia un lucido, melanconico stupore avvolto in melodie che non abbandonano più. Oltre la compattezza e la solidità, convincono l’ulteriore maturità della penna, un’esecuzione ruvida però mai abborracciata, certi echi della Flying Nun (toh: la madre di Nigel è neozelandese…).

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Composizioni una più bella dell’altra racchiudono un mondo poetico e con pacatezza riflettono su quanto c’è al di fuori finché, con cadenza d’altri tempi, divengono qualcosa di necessario. Mixer è un Lou Reed così giovane e soul da suscitare commossi brividi e Dont’ Be Right sparge vividi aromi di Young Marble Giants; per una Stargazer che riveste Some Kinda Love con toni country-folk ecco la mutevole e umorale Click Clack; ai chiaroscuri urbani di Alaskan Shake e Lion In Chains risponde una Roll It di contagiosa isteria che fa carta straccia degli Strokes. Affettuosamente ritroso, Chapman affida le ultime parole del disco all’adorabile, sbilenca innodia di Trust: “Voglio che vi fidiate di me.” Invito raccolto, ragazzo. Scommetto che non ci tradirai.

 

 

5 pensieri riguardo “Nap Eyes: uccidi l’indie snob”

  1. Veramente poco da aggiungere, anzi praticamente nulla se non confermare trattarsi di uno dei lavori più eccitanti di questa prima metà d’anno, canzoni che crescono con gli ascolti, con la conclusiva “Trust” che è, sì, davvero un gioiellino. Bello bello bello.

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