M. Ward, l’amico fidato

Tutti abbiamo un amico del cuore. Il solo al quale confessiamo i segreti più reconditi, quello che nel momento del bisogno è pronto ad aiutare senza chiedere indietro nulla e l’unico che veramente ascolta. Volendo cercarne l’equivalente sonoro dell’ultimo quindicennio, Matthew Stephen Ward mi sembra perfetto per il ruolo. Lineamenti paciosi il giusto e occhio attento con un filo di mistero, ha l’aspetto del medico un po’ bizzarro che ispira cieca fiducia; oppure, dell’introverso dolce e stralunato che dice sempre la cosa giusta al momento giusto. Del resto, si tratta pur sempre di un laureato in letteratura che, prima di intraprendere la carriera artistica a tempo pieno, insegnava ai bambini dislessici.

Qualcosa dovrà pur significare, non credete? Infatti, uno dei segreti del quaranta-e-qualcosa di San Luis Obispo sta in una leggerezza che è invece spontaneità profonda, uno scrigno intimo che trattiene e rilascia emozioni. Dote rara e tipica di chi ama ciò che fa e per questo vi infonde l’anima. Perché vanno benissimo la decostruzione e il post-post moderno, ma quando al tramonto tratteggi il bilancio della giornata desideri almeno un abbraccio e che sia sincero, grazie.

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Reso grazie a Jason Lytle e Howe Gelb per aver tenuto a battesimo i primi passi di Matthew, continuo a godermi la stagionatura da vino pregiato di un songwriter che puoi spiegare anche solo evidenziando la bellezza genuina della sua musica. Accanto alle collaborazioni illustri e al divertissement She & Him in compagnia di Zooey Deschanel, da Transistor Radio il californiano non sbaglia un colpo e quattro anni or sono ha recapitato Wasteland Companion, dove il gustoso frullato di Buddy Holly ed Elvis Costello, di Beach Boys e Beatles, di Elliot Smith e Big Star raggiungeva la maturità.

E mentre gli appassionati discutono senza mettersi d’accordo su quale tra i suoi LP sia più riuscito (sempre un buon segno, fidatevi) e dopo aver supervisionato il nuovo disco di Mavis Staples, dalla mecca “alternativa” di Portland il signor Emme spedisce un’altra lezione di stile. Medesima la mano, abilissima nel mescolare il passato e trasfigurarlo in un tessuto multicolore di rimandi familiari giammai risaputi, la scrittura si sistema mezzo gradino sotto al predecessore. Ciò premesso, il retrogusto melanconico in punta di piedi di More Rain bada al sodo e conquista all’istante.

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Afferma il diretto interessato che l’ispirazione gli arriva per lo più dalla older music, chiudendo il cerchio quando racconta di come le canzoni creino problemi e tuttavia contengano anche le soluzioni (ve lo dicevo che è un dolce stralunato…). Anche su questo equilibrio un po’ surreale poggiano l’incontro tra T.Rex e Replacements – Neko Case ai cori: ospiti altrove anche Joey Spampinato e k.d. lang – di Time Won’t Wait, il brio di una trascinante Girl From Conejo Valley amalgama dei DNA di Jeff Lynne e Tom Petty, la Pirate Dial in cui Sir McCartney si accompagna agli Eels e scopre di poter ancora luccicare. E’ pop gustoso privo di fronzoli che, ossequiato Brian Wilson nel rifacimento di You’re So Good To Me, si racconta ricco di power in una Temptation cui Peter Buck presta la sua inconfondibile sei corde.

Salvo gettarsi a capofitto dentro memorie anni Cinquanta come potrebbe intenderle un Jonathan Richman invecchiato con grazia (I’m Listening, Little Baby), accomodarsi disinvolto tra delicatezze roots al contempo distese e umbratili (Slow Driving Man, Phenomenon) e slanciati episodi dal taglio classico (la tromba alla Forever Changes di Confession). Ascolto dopo ascolto, anche questa ennesima coperta sonora colma di tepore mi ricorda che Matthew Ward è un talento come ne nascono sempre meno. Tanto basta per volergli un sacco bene. Altri cento dischi così, dear friend.

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Thyme Perfumed Gardens-5: J.K. & Co.

Pochi altri “concept” suonano lievi e aggraziati come Suddenly One Summer. Sarà perché il tema è suggerito e non esposto in maniera esplicita, così che l’ascoltatore interpreta come crede mezz’ora di psichedelia orchestrale; sarà perché l’esito non soccombe alle ambizioni e latitano orpelli o sbrodolate; sarà perché, grazie alle suesposte ragioni, puoi godere della musica a prescindere da qualsiasi sovrastruttura. Ciò premesso, sbalordisco ogni volta al pensiero che l’autore di questa meraviglia avesse all’epoca quindici anni! Jay Kaye, classe 1953, per qualche fuggentissimo attimo è stato un Mozart popedelico non per modo di dire. Aveva del resto le sette note nel sangue: la madre, Mary Kaye, era la chitarrista a capo dell’omonimo lounge trio alla quale la Fender dedicò il primo modello di Stratocaster custom. Il nonno, Johnny Ukulele, era l’erede di un principe hawaiano virtuoso dell’omonimo strumento che, tra i tanti, insegnò a Howard Hughes.

Sembra la trama di un film dei fratelli Coen, vero? Bene, sappiate allora che Jay ha rischiato di essere partorito su un palco: a Mary le acque si rompevano a metà dell’ultimo brano in un locale di St. Louis e svelto il marito la portava all’ospedale. Per un anno una tata culla il Nostro nei camerini d’America visitati dal Mary Kaye Trio, dopo di che la famiglia si stabilisce a Las Vegas per una serie stabile di ingaggi. La vita di Jay svolta quando i genitori tornano da una serata con Brian Epstein e i Beatles recando in dono il 45 giri di I Saw Her Standing There. Folgorato, il poco più che decenne approfondisce con Rolling Stones e Merseybeat, impara a suonare in casa e capeggia tali Loved Ones che non vanno oltre qualche festa scolastica.

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Intanto la cultura giovanile sta cambiando alla svelta e alla svelta cambia il mondo. Accompagnata mamma a Vancouver, Jay incontra il navigato produttore Robin Spurgin, lo visita in studio e gli suona un paio di pezzi. Robin va fuori di testa nel realizzare che il ragazzino in tasca non serba un mazzo di figurine del baseball ma splendide canzoni. Per tre mesi lavorano alacremente assieme all’arrangiatore Robert Buckley, altro teenager talentuoso. Questione di affinità elettive e visione comune se si capiscono al volo e, reclutata una formazione cittadina – i Mother Tucker’s Yellow Duck – a dar man forte, ne cavano un “wall of sound” multicolore che narra la vita di un uomo vista attraverso una goccia di LSD. Terminate le registrazioni, Jay e Robin riattraversano il confine in direzione Los Angeles, dove i Kaye si sono frattanto trasferiti. Portano i nastri a una Capitol che gradisce ma vuole imporre pesanti modifiche.

Orgogliosi, oppongono un secco “no” e quasi per caso bussano alla White Whale, l’etichetta dei Turles. Qui hanno il palato fino, però sono parimenti furbacchioni e coglionazzi: pubblicano l‘LP con un battage enorme e dispendioso, salvo scegliere come singolo i trenta secondi di effetti dell’introduzione Break Of Dawn. Pensando di attirare l’attenzione con il 45 giri più breve della storia, affossano invece tutto perché nessuna stazione lo trasmette. Da non credersi. Suddenly One Summer avrebbe potuto essere un successo, eppure scommetto che qualcuno lo ha custodito con affetto e devozione, magari dei fuoriclasse come Michael Quercio o Scott Miller.

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Potete unirvi alla congrega di fedeli procurandovi la ristampa BeatRocket del 2001 ricavata dai master originali. Basterà un ascolto per innamorarsi di una gemma che (inclusi due bozzetti rumoristico-astratti necessari a rendere il “senso” del progetto) scorre iridescente come una cometa. Nella sua stupefatta coda scorgerete dei Procol Harum minimali sotto oppiacei (Fly) oppure barocchi con misura (Land Of Sensations & Delights), ipotetiche collaborazioni tra Brian Wilson e Burt Bacharach (una Little Children giustappunto fanciullesca) e l’eccelso scintillìo melodico su groove felpato di Christine. Ancora: Crystal Ball colloca al proscenio sei corde serrate e convulse, Nobody è melanconia folk aspersa di acido, l’esuberante O.D. pare prelevata dal coevo Notorious Byrds Brothers.

Dove The Times guarda ai Byrds più pop, George Harrison avrebbe potuto vantare l’inquieto orientaleggiare di Magical Fingers Of Minerva. Infine, Dead tesse una tela dolente di intrecci elettroacustici e sospensioni che tutto riassumono, sistemando in coda un accenno dell’inizio che dici invito a ripartire e sottolineatura della circolarità dell’esistenza. La magia non avrà comunque seguito: Kaye mette su un trio col cugino e un amico, ma essendo tutti minorenni non possono esibirsi nei club. Svaniti slancio e fiducia, si chiude. Pur seguitando a suonare blues e rock, il wonder boy non combinerà più nulla di rilevante. Da un trentennio risiede a Maiorca e quale amara ironia che per lui l’estate non finisca davvero mai.

Il genio e l'(a)normalità dei Polyrock

Osservata dall’esterno, quella bestia strana e in via di estinzione chiamata giornalismo musicale può apparire soggetta a periodici attacchi di instabilità. Alcuni lo chiamano “revisionismo” e, quando non è un paravento per chi ama distinguersi sparandole grosse, rappresenta comunque un atteggiamento più costruttivo dello spargere guano dal proprio orticello su ciò che non piace o che non si capisce. Per quanto mi riguarda, chi scrive di musica – di cinema, di letteratura, di arte – dovrebbe essere un appassionato di professione; un indagatore curioso e privo di preconcetti, pronto a mettere in gioco sé e la propria visione delle cose. Mai e poi mai un ultrà e/o un narcisista terminale.

Ma sto divagando. Rientro in carreggiata annotando l’ovvio, cioè come la mole di ristampe scatenata dall’avvento del CD – ricordate? il supporto dal suono perfetto che avrebbe affossato il vinile: le matte risate… – abbia causato una ridefinizione della storia del rock, mutando la classicistica visione che ne avevamo a favore di un flusso “in divenire”. L’avremmo altrimenti considerata mai influente gente come Josef K, Pylon o Polyrock? Ecco, appunto.

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Faccenda da “Chi l’ha visto”, questi ultimi, finché nel 2007 la statunitense Wounded Bird non ne stampava per la prima volta in digitale i due 33 giri. Senza peraltro smuovere alcunché, siccome l’indifferenza fu una sgradita costante per questa formazione newyorchese sin da esordi in cui fioccavano paragoni stilisticamente poco plausibili coi Talking Heads. Tutti a guardare Philip Glass che fungeva da pigmalione, produttore e membro aggiunto à la Eno, adombrando così il suo ruolo di basilare influenza stilistica, evidente nell’ipnosi di tastiere che collidono con chitarre angolari su una solida ritmica motorika. Pagine dal manuale post-punk con appiccicate sopra melodie circolari che sono flessuose, polifoniche benedizioni dell’abbraccio tra rock e contemporanea. Uno stile conservatosi splendidamente nel tempo grazie alla sua classe e alla nicchia accademica che lo generò, le quali però hanno pure impedito una più diffusa popolarità ai suoi artefici.

Anonimo il look, al pari dei Feelies che sono sì un referente corretto, la fortuna dei Polyrock fu esigua e l’esistenza priva di aneddoti. Basta il sodo a renderli meritevoli, ché in un alveo di apparente monocromia ancora si celano fascinosi segreti e cangianti sfaccettature. Corre l’anno 1978 quando il cantante/chitarrista Billy Robertson scioglie i Model Citizen e dal Queens chiama il fratello Tommy (elettronica, violino, chitarra) e il bassista Curt Cosentino, estendendo poi la line-up con la cantante Catherine Oblasney, Lenny Aaron alle tastiere e Joseph Yannece dietro la batteria. Memore di Billy dall’epoca della sua prima formazione, Philip Glass si reca a un loro concerto ed è impressionato al punto da convincere la RCA a ingaggiarli.

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Frutto immediato del sodalizio è lo splendido Polyrock, LP dove i gioiosi ritmi pazzi per nevrotiche piste da ballo di Romantic Me e No Love Lost camminano a braccetto con la spumeggiante frenesia di Green For Go e This Song. Dove Go West è uno ska mutante e Your Dragging Feet incastra la psichedelia sul krautrock inventandosi gli Stereolab, dove #7 profuma di Neu! e Sound Alarm già destruttura in chiave “post”, dove Shut Your Face inscena un vigoroso avant-garage e Body Me ipotizza incontri tra Million & Mercer e i primi Kraftwerk. La critica più attenta applaude, il pubblico non fa una piega. L’etichetta acconsente a una replica con (vane) speranze di compromesso: nel 1981 Changing Hearts torna sul luogo del delitto con la superba trasfigurazione della beatlesiana Rain, un pizzico di rilassatezza in più e qualche assaggio di introversione albionica.

Commercialmente, scava un altro buco nell’acqua: abbandonato da Glass e da Tommy Robertson, il gruppo è messo alla porta. Dodici mesi più tardi, il mini-LP Above The Fruited Plain esce per la piccola PVC e non mi risulta disponibile su CD. Nonostante ciò, meritano la ricerca questi venticinque minuti che arrotondano spigoli, spargono aromi orientali e offrono una Working On My Love che oggi sarebbe una perfetta indie hit ma figurarsi se al tempo… Logica conseguenza il rompete le righe e l’inizio del culto, rafforzato nell’86 dal nastro ROIR No Love Lost con i demo di un terzo album perduto e scampoli dal vivo. Preparatevi a stupirvi.

Pop Field (Music) forever

Prima della globalizzazione potevo dirmi all’incirca sicuro di un retaggio sonoro al quale, inconsapevolmente o meno, le band erano solite rifarsi. Ancora oggi sono certo dell’esistenza di quella trama, che è più sottile della contrapposizione tra “sostanza rock” e “apparenza pop” in cui tanti indulgono. Aspetti che mi pare sbrigativo considerare come opposti, così che preferisco studiarli nelle zone grigie dove bisticciano e fanno pace, finché i reciproci confini trascolorano in un terreno comune che spesso è meraviglia. Sì, perché si dice che in Inghilterra prevalga la canzone come comunicatore sociale e in America vinca la concretezza di chi ha distillato il rock’n’roll. Verissimo. Però le cose stanno anche così, quindi c’è di che riflettere.

Giusto per fare qualche esempio: i Beatles si nutrivano a Stax e Motown, a Buddy Holly e Chuck Berry, a Little Richard e folk e cabaret, che amalgamarono in qualcosa di unico ed esemplare; David Byrne, Tom Verlaine e Ric Ocasek devono tantissimo al robodandy Bryan Ferry; i giovani R.E.M. intrecciavano Gang Of Four e Byrds… Esiste insomma una memoria di stili che altri linguaggi utilizzano a mo’ di piattaforma per nascere e svilupparsi in una catena di mutamenti e scambi transoceanici. Oggi, allorché il passato è a portata di un click e lo puoi sovrapporre come ti garba, la faccenda è ancor più complessa. Nel caos e nella dispersione, tuttavia, trovi ancora della grazia che smantella i cliché. Basta sapere dove andare a cercarla.

field music

Provate magari a fare un salto in quel di Sunderland, dove dietro la sigla Field Music i fratelli David e Peter Brewis trafficano con strutture di matrice progressive e melodie mai scontate. Per la scena albionica sono autentiche mosche bianche: ironici ma schivi, sono venuti su a rock classico e indie, a jazz e classica e blues trasversali, digeriti e riformulati con spirito critico e autenticamente creativo nella provincia che a Swindon mantenne in incubazione gli XTC, loro riferimento principale per le evidenti affinità. Alla maniera di Partridge & Moulding, infatti, anche i loro orizzonti sono vasti e policromi.

Privi di pacchianerie o esibizionismi, tracciano un “complesso minimalismo” che – tra mille altre sfaccettature – inanella omaggi a Skylarking, libera Kinks e Zombies nei meandri della new-wave, sparge inchiostri di Steely Dan sul diario di Paddy McAloon. Una giostra vorticosa che conosce la prima perfezione in Tones Of Town, LP che nel 2007 seguiva un promettente esordio omonimo. Troppo “avanti” per il mondo indie volubile e modaiolo, i Brewis rischiavano subito di saltare in aria. Ripensandosi come “azienda” alla P.I.L. e grazie a una salutare pausa, ripartivano nel 2010 con Measure, corposa e brillante mescolanza di acustico ed elettrico; nel volgere di un biennio, Plumb rimarcava quanto il duo fosse un preciso riassunto estetico e attitudinale dell’epoca in cui viviamo.

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Un compendio che fortunatamente possiede solo pregi e la voglia di stupire con naturalezza uno tra i più rilevanti. Chiusa la parentesi Music For Drifters (colonna sonora di un documentario uscita in poche copie per il “Record Store Day” dello scorso anno), Commontime abbraccia dunque il cocktail tra anima bianca e nera che – Simon Reynolds docet – presiede al migliore pop britannico. Aperto da una The Noisy Days Are Over appiccicosa e fantastica fusione a caldo tra Hot Chip, Talking Heads e fiati elegantemente nervosi, regala nel prosieguo congetture su degli Scritti Politti mai decaduti in macchietta (Disappointed); spalanca universi paralleli dove Prince condensa Purple Rain, Around The World In A Day e Parade in un unico album (How Should I Know If You’ve Changed?) e collabora con i Roxy Music (It’s A Good Thing); spedisce spavalde ed effervescenti cartoline agli Sparks (Indeed It Is).

Se in Same Name scorgi dei Gang Of Four pacificati, That’s Close Enough For Now libera una citazione situazionista di Neil Young e But Not For You trattiene l’eco dei Cars. Spetta infine a saggi di classe sopraffina completare il mosaico: l’elegia capolavoro The Morning Is Waiting è Brian Wilson che rinsavisce aiutato dai Left Banke e magistrali sono sia i ceselli di They Want You To Remember che il gioco di tensione e quiete in Trouble At The Lights. “La cosa più difficile è trovare il modo di realizzare ciò che ci gira in testa.”, mi rivelò anni or sono in un’intervista David Brewis. Tranquilli, cari pop brothers: missione compiuta anche stavolta. Con il vostro disco più bello. Scrosciano gli applausi.

Thyme Perfumed Gardens-4: Dr. Strangely Strange

Si fossero formati negli anni zero in Finlandia o in un angolo della provincia americana, i Dr. Strangely Strange sarebbero finiti immediatamente sulla copertina di “The Wire” e li avremmo annoverati tra i nomi di punta del fenomeno weird folk. A suo tempo, però, questa accolita di sperimentatori figli di un’irripetibile libertà che scriveva regole nuove passò inosservata. Tuttora resta un argomento per chi ama curiosare tra le pieghe dei ‘60 e difficilmente le cose cambieranno, per quanto scommetterei che ai diretti interessati ciò importi poco. Di certo non se ne curavano Tim Booth (voce, chitarra) e Ivan Pawle (nativo del Suffolk: basso, plettri assortiti) quando nel 1967 si incontrarono al dublinese Trinity College, stabilendosi poi in una comune di Sandymount gestita da Anne Christmas conosciuta come “The Orphanage”.

Nella retrograda isola il luogo funge da asilo per la locale bohème ed è pertanto il terreno di coltura perfetto per il duo, che – tratto il nome dai fumetti Marvel, onorando il “dottore delle arti magiche” Stephen Strange – si fa trio con il tastierista Brian Trench e approda a una trasognata mistura di tradizione, psichedelia e orientalismi. All’inizio del ’68 aprono una data cittadina dell’Incredible String Band (il loro referente stilistico diretto, in una versione quel tanto più terrigna e influenzata dalla musica popolare della loro terra) e un entusiasta Robin Williamson convince Joe Boyd a recarsi a Dublino per saggiarne il talento.

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Palato finissimo, a costui basta un concerto estivo per accogliere la formazione nella scuderia Witchseason, senonché Trench preferisce conseguire la laurea. Booth e Pawle non si perdono d’animo e rammentano che il fidanzato di Annie, il pittore Tim Goulding, ha studiato pianoforte, girovagato per la Scandinavia e conosce il jazz e i poeti Beat. Si ambienta subito e, con fiati e harmonium, imprime il tocco finale ad atmosfere favolistiche e a inafferrabili acusticherie cui contribuiscono anche l’ugola e le percussioni dell’ultima arrivata, Caroline Greville. A gennaio dell’anno seguente si stipano nella Renault 4 di Goulding, destinazione Londra. Lì approntano i cinquanta minuti di Kip Of The Serenes sotto l’occhio esperto di Boyd, che registra in diretta rinunciando alla batteria.

Pagina autorevole del folk anglo-celtico, l’album marchiato Island sparge nell’aria di metà ’69 la delicata innodia di Strangely Strange But Oddly Normal e Frosty Mornings, infiltra il jazz e la bossanova nel medioevo per Dark-haired Lady e ondeggia tra classicismo ed ebrezza in Dr. Dim And Dr. Strange. Altrove si misura con le accordature aperte (Strings In The Earth And Air) e un senso d’estasi acida (On The West Cork Hack), porgendo ballate al contempo eteree e bizzarre come A Tale Of Two Orphanages e Donnybrook Fair. In quell’annata memorabile sono tuttavia pochi a goderne, e inefficaci si rivelano la presenza di Strangely Strange… in una compilation economica e un frugale tour promozionale britannico.

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Mentre la Greville getta la spugna, Boyd dirotta la formazione alla Vertigo. Con l’amico Gary Moore alla chitarra e Dave Mattacks dei Fairport Convention a tamburi e piatti, nel 1970 Heavy Petting “normalizza” un poco lo stile sterzando verso il (blues) rock e attenuando la svagatezza. Buono l’esito in genere, addirittura ottimo nell’accorata dilatazione Sign Of My Mind, nel piano honky-tonk che punteggia la fairpoartiana Ballad Of The Wasps, negli esuberanti cambi di marcia di Summer Breeze e Mary Malone Of Moscow, nel folk-blues progressivo Give My Love An Apple. La nuova veste richiede un batterista fisso e con Neil Hopwood i Dottori battono il circuito dei college e incidono un trentatré giri rimasto inedito fino al 2007, allorché la Hux stampa Halcyon Days.

Siamo agli sgoccioli: Boyd torna negli Stati Uniti; Goulding entra in un monastero buddista, poi sposa Anne e si dedica alla pittura. Gli altri ingaggiano Gay e Terry Woods dagli Steeleye Span ma non funziona. Ufficializzato lo scioglimento nella primavera del ’71, i ragazzi non scadranno nel patetico, ritrovandosi dal vivo all’incirca ogni decennio e addirittura pubblicando a fine Novanta il discreto Alternative Medicine. La rituale adunata del luglio 2009 li coglieva al “Witchseason Weekender” organizzato dal mentore Boyd intenti a suonare gratis nel foyer del londinese Barbican Center. Ditemi voi come si può non voler bene a questi mai domi fricchettoni…