Da qualche mese avverto una benefica febbre indirizzata verso l’emisfero sotto di noi. L’ago della bussola indica la Nuova Zelanda, luogo tra gli ultimi autentici Eden rimasti su questo derelitto pianeta e dove dal 1981 opera un’etichetta che molto ha dato al rock più arguto e coraggioso. I più avvertiti avranno inteso che è della Flying Nun che sto per tessere (sinteticamente) le lodi, il destro offerto dal ritorno di uno dei suoi nomi storici, i Chills, e dalla pubblicazione risalente allo scorso giugno di “In Love With These Times: My Life With Flying Nun Records”, tomo di memorie del fondatore Roger Shepherd. Pubblica Harper Collins ed è improbabilissima la traduzione in italiano, nondimeno i fan se lo saranno letto in un fiato e l’avranno riposto accanto a vinili nel frattempo oggetto dell’ennesimo rispolvero.
Il fatto è che a gente così vuoi bene e ai loro dischi anche di più, perché incarnano un ideale “indie” senza pose o menate artistoidi di cui senti la mancanza. Perché appartengono all’epoca in cui registrare e stampare musica costava fatica e dentro c’erano il cuore e l’anima degli artefici. Perché, infine, questi dischi sono belli e spesso bellissimi. E, tra tante altre cose, attestano anche gli effetti positivi del decentramento. Infilando perle su un’immaginaria collana mi sovvengono Bristol e la Sarah, Glasgow e la Postcard, la Dischord e Washington DC. Nel mezzo, fiera e riservata, brilla la Flying Nun.

Trecento dollari neozelandesi: tanto bastò al giovane commesso di un negozio (indovinate un po’ di cosa…) per creare a Christchurch un marchio utile per fotografare il nuovo che avanzava. Roger Shepherd osservava uno stile del passato colorato con i pennelli del presente, che non era revival ma nemmeno nuova onda e mostrava le proprie radici mentre guardava avanti: “La spinta me la diedero le canzoni: queste erano la cosa importante che volevo documentare. Non c’era un intento commerciale, desideravo coronare il sogno di appartenere a ciò che stava accadendo. Il punk ci aveva trasmesso l’idea che tutti potessimo formare una band e imparare strada facendo.” Spirito genuinamente do it yourself quello che dunque animava la comunità locale, artefice di linguaggi che l’osservazione distaccata delle mode – giunte in ritardo da Stati Uniti e Inghilterra per la distanza e rivisitate con sensibilità – ha collocato in una nicchia a sé.
Per questo suonano tuttora freschi Chills, Clean, Bailter Space e via elencando. Come per Radio Free Europe, l’effetto di Tally Ho! (il 7” di esordio dei Clean, registrato con un budget ridicolo e planato nei Top 20 nazionali) funse da traino a uno stuolo di band ingegnose spesso imparentate tra loro: “Stavamo comunicando tra amici. Ci si aiutava a vicenda senza competizione e per questo è durata a lungo.” Una storia bella che ha per protagonista un amante della lettura e della musica che si fa in quattro non per modo di dire; che inizia a gestire l’oggetto del proprio amore nelle ore libere del lavoro e lo cresce, riverito dall’underground mondiale.

La sede nell’appartamento passa a un ufficio sempre meno fatiscente e la scuderia aumenta in numero e popolarità. Lo stress presenta il conto, sotto forma di problemi con l’alcool e una depressione che Sheperd manda al tappeto con lo stesso vigore con cui l’amico Chris Knox, ubriaco, spediva KO un membro degli adorati Fall. Diventava importante il “Dunedin sound”, sul quale tuttavia Roger puntualizza: “A Christchurch i 13th Floor Elevators erano molto noti, ma in pochi possedevano i dischi e dovevi andare a casa di amici per sentirli. Dunedin era diversa, tutti sembravano i Velvet perché con il successo di Lou Reed trovavi solo i loro LP. Il ‘Dunedin sound’ in realtà non è mai esistito: c’erano diversi stili e le uniche cose in comune erano la provenienza e vaste collezioni di dischi assemblate con tempo e fatica.” Non ha davvero mai smesso di essere sfuggente e surreale quel jangle-pop percorso da smanie e storture, una seduzione di incensi e ombre dove Arthur Lee collabora con Reed e Cale dopo il ’77.
Ma non solo: un catalogo ampio che i neofiti sono invitati a scandagliare attentamente, oltre alla lista che segue estraggo le contorsioni new-wave dei Gordons e l’acidulo folk urbano degli Able Tasmans. Almeno. La formula conserverà il livello qualitativo nei ’90, scansando i cliché e aprendosi a rumorismo, elettronica, post-rock. Il nuovo secolo vedrà invece la fusione con la Mushroom e l’acquisto da parte del gruppo Warner. Cinquanta e rotti anni, moglie e due figlie, Sheperd non molla: ricompra la sua creatura e si adatta, spostando la sede a Auckland e facendosi aiutare a dirigerla. Soprattutto, seguita a sfornare materiale interessante – vi regalo tre nomi: Zen Mantra, avoid!avoid, Ghost Wave – fedele alla filosofia che lo muove sin dagli inizi: nessuno diventerà ricco ma si ascolteranno gran dischi. Hai visto giusto, Roger.
DIECI LEZIONI PER INIZIARE A VOLARE
Bailter Space – Tanker (1988) Sorto dalle ceneri dei Gordons, il power-trio guidato da Alister Parker si appropriò della lezione dei Sonic Youth con un’attenzione per la forma e la scrittura cui Moore e soci sarebbero approdati di lì a poco. Devastanti dal vivo per il piglio e i volumi, in studio privilegiavano stratificate ipnosi nell’orbita dei Loop. A dir poco fenomenale, qui, l’agitato mantra Grader Spader.
Bats – Daddy’s Highway (1986) Formati dall’ex bassista dei Clean nell’82 e tuttora attivi e in splendida forma, i Bats inanellavano tre pregevoli mini prima di questo LP, che li imita tratteggiando un favoloso folk-rock su fondali di nevrotica elettricità di stampo new wave. Lo struggente incantesimo North By North libera la memoria dei Josef K. nelle pieghe di Fables Of The Reconstruction e il resto non vale certo di meno.
Chills – Kaleidoscope World (1990) Martin Phillips sarebbe un Re del Pop se le calamità patite dai Chills non ne avessero impedito l’ascesa. Nulla da stupirsi alla luce della penna che chiude il cerchio tra ’60 e ’80 negli EP qui recuperati (apici il sublime abbraccio tra Byrds e Joy Division di Pink Frost e i pastelli di Rolling Moon) e nell’album dell’87 Brave Words. Con un surplus di raffinatezza anche in Submarine Bells, edito da Slash nel 1990.
Clean – Compilation (1986) Capostipiti della scena, i Clean di David Kilgour fondono il primo post-punk con una fedeltà spirituale ai Sessanta. Ne risulta anche qui un obliquo folk-rock misto new wave, che tra echi krauti e rumorismo piazza Roger McGuinn negli Swell Maps inventando Pavement e Sebadoh. In questa panoramica aperta dall’epocale Tally Ho c’è di che innamorarsi in eterno, credetemi.
Dead C – Eusa Kills (1989) Non solo acquerelli: This Kind Of Punishment e soprattutto Dead C sono stati influenti sul rock e sul folk prefissati free, legando in chiave post-apocalittica recitativi, tribalismo e feedback nel granitico Harsh ‘70s Reality (Siltbreeze, 1992). I due antesignani su Flying Nun – questo il secondo – sono al pari riusciti e posseggono un filo di potabilità in più.

Jean Paul Sartre Experience – Love Songs (1986) Sono miniature in un crepuscolo di mezzi toni, le canzoni dei Jean-Paul Sartre Experience, poi divenuti JPSE quando gli eredi dello scrittore faranno causa. Incarnazione terrena e altrettanto meditativa dei Felt, ricamavano minimali trame chitarristiche che in seguito abbracceranno la distorsione, laddove qui prevale il loro lato migliore, onirico e deliziosamente visionario.
Sneaky Feelings – Positively George Steet (1999) Che Dunedin sia stata fondata da immigrati in gran parte scozzesi lo provano alla loro maniera Mike Bannister e un pugno di saggi in bello stile Postcard. Dalle sei corde asciutte alla calligrafia vivace ma velata di tiepida malinconia, tutto è dosato con gusto in… cartoline da sistemare accanto a Orange Juice e Aztec Camera.
Straitjacket Fits – Hail (1988) Con l’EP Life In One Chord dell’87 Shayne Carter e Andrew Brough cominciavano a distillare caramello noise-pop corretto con robuste dosi di shoegaze. Ricetta che il primo lavoro sulla lunga distanza conduceva alla perfezione, laddove il successivo Melt smarrirà un po’ di esuberanza mentre i ragazzi diventavano un culto in America. In questi solchi, comunque, sognante rima sempre con dissonante.
Tall Dwarfs – Weeville (1990) Moderno uomo rinascimentale, Chris Knox: grafico, produttore, regista e guida dei punk The Enemy che sconvolsero Roger Sheperd. Spetta ai Tall Dwarfs in coppia con Alec Bathgate (e alla dolce Not Given Lightly, sul solistico Seizure del ’90) raccontare un genio dada-pop che neppure un ictus del 2009 ha fermato. Follia eletta a metodo in questo debutto e nei successori Fork Songs e Hello Cruel World.
Verlaines – Bird-Dog (1987) Leader assoluto dei Verlaines, Graeme Downes frequentava il conservatorio quando fu istigato da Dylan e dai Ramones a misurarsi con il pop. Approfittando dell’estrazione colta, la trilogia che pone lo sfavillante Bird-Dog tra gli aurei Hallelujah All The Way Home e Some Disenchanted Evening delizia con un personale e ricercato (folk) rock d’autore che all’accademia preferisce i lamenti del popolo al pub.