The many sides of Terry Allen

Gli Stati Uniti sono una terra di estremi dove c’è posto per chiunque. In barba a certi aspetti retrivi e ultraconservatori, vi ha trovato una nicchia anche Terry Allen, figura tra le più stravaganti e inclassificabili di ciò che per comodità definiamo “Americana”. Eccentrico e arguto songwriter di confine in senso sia metaforico che letterale, Terry ha segnato la scuola texana con uno stile nel quale confluiscono (auto)ironia, cinismo e l’abilità a scoprire i dettagli surreali nascosti nella provincia. I suoni e le parole del suo country, coì unico e opposto alle banalità di Nashville da essere stato definito progressista, hanno infatti più a che vedere con lo “spirito” del rock.

Lo stesso per un senso dell’umorismo talvolta vicino a Randy Newman e per certe similitudini con David Byrne, l’eclettismo e la volontà di colmare il divario tra cultura “alta” e “bassa” soprattutto. Del resto si tratta di uno nel cui curriculum figurano opere di pittura e scultura custodite in svariate gallerie mondiali e che si è misurato con istallazioni multimediali, teatro, visual art. Un piacere dunque apprendere che la Paradise Of Bachelors (Nap Eyes, Gun Outfit, Promised Land Sound: vi basta?) ha ristampato il suo LP d’esordio Juarez in un’edizione che finalmente recupera le litografie originali e che il prossimo ottobre si replicherà con il Capolavoro Lubbock (On Everything). Ripresomi dal gioioso KO, vi racconto due o tre cose che so di lui.

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Terry nasce in Kansas nel maggio del 1943, da una pianista di night club e un ex giocatore di baseball professionista che presto si trasferiscono a Lubbock (Texas) a organizzare incontri di boxe e serate danzanti separate per neri e bianchi. Nei weekend il fanciullo ascolta B.B. King, Jimmy Reed e il country, impratichendosi con la chitarra e lo strumento di mamma finché il rock’n’roll e la prima automobile non suggeriscono desideri di fuga. Da una piattezza così odiata che finirà per amare, Terry saluta gli ex compagni di liceo Butch Hancock, Jimmie Dale Gilmore e Joe Ely (!) per Los Angeles. Milita in tali Black Ball Blues Quartet aprendo concerti di Leaves e Love e nel ‘66 si laurea. In piena controcultura insegna arte a Fresno e Berkley (proseguirà fino al ‘79), stringe amicizia con Lowell George e firma un contratto da solista che si perde nel nulla.

Da pittore e scultore quale in primis è, ricostruisce la tradizione con un approccio compositivo per immagini: quanto l’idea sia felice lo spiega nel 1975 Juarez, mille pezzi di vinile corredati da disegni che narrano una vicenda di sbandati al confine tra Messico e Stati Uniti precorrendo Quentin Tarantino e forse pensando a Cormac McCarthy e Jim Thompson. E’ un progetto cui l’autore è molto legato – ci tornerà su in teatro e con un radiodramma – e sai lo scoramento quando, conclusa l’esposizione, una parte delle opere va persa tra incendi e alluvioni. Dai brani, composti tra ’67 e ’75 e registrati con un budget quasi inesistente affidandosi a voce, piano e corde acustiche, estraggo la caratura di There Oughta Be A Law Against Sunny Southern California e Cantina Carlotta, di Cortez Sail e Border Palace.

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Rimpatriato nella cittadina d’adozione, Terry fonda l’etichetta Fate per risparmiarsi ulteriori grane con lo showbiz. Poi si prende un lustro per Lubbock (On Everything), indimenticabile galleria di “ritratti sonori” carichi di umana universalità. Quattro facciate fragrantemente alt-country che sparigliano le carte ed espandono la tavolozza con l’esperto produttore Lloyd Maines, bravo ad amalgamare elettriche e violini, fisarmoniche e ritmi. Da par suo, Terry tratteggia favolose cartoline tex-mex (Rendezvous USA, My Amigo) e palpitanti cuori della prateria (The Girl Who Danced Oklahoma, Lubbock Woman, Amarillo Highway), porge valzer e ballate (The Great Joe Bob, The Wolfman Of Del Rio) e immagina crocevia tra Harvest e Little Criminals (Flatland Farmer, I Just Left Myself).

Se non intona un’ode alla moglie o sbeffeggia gli artistoidi, tocca il cielo con The Beautiful Waitress e la caracollante New Delhi Freight Train, già nel repertorio dei Little Feat. Impossibile superarsi e il saggio nemmeno ci prova: nel 1980 Smokin’ The Dummy svolta verso il rock anche in conseguenza dei palchi calcati con la fedelissima Panhandle Mystery Band. Da ricordare almeno The Heart Of California, accorata dedica a un Lowell da poco scomparso, l’honky-tonk Texas Tears, una The Lubbock Tornado palestra per Steve Earle, la malinconica Red Bird.

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Tre anni ancora e Bloodlines divide con un piglio quel tot più sperimentale derivante dagli impegni teatrali con cui l’uomo frattanto si è misurato. A me piace parecchio questo disco che bistratta la religione e irrobustisce There Oughta Be A Law…, che veste di mariachi Cantina Carlotta e dispensa classe a piene mani, più che altrove nella celtica Ourland, nel gospel bianco Oh Hally Lou, in Gimme A Ride To Heaven, Boy, esilarante storia di un Gesù ladro d’auto. Conclusa una fase, ci si concede discograficamente con parsimonia. Nei secondi Ottanta Allen intona Cocktail Desperado nel film “True Stories” dell’amico Byrne; in Pedal Steal assembla dialoghi e scampoli musicali per uno spettacolo della Margaret Jenkins Dance Company, cui regala anche il più disteso Rollback; per la colonna sonora del documentario “Amerasia”, in anticipo sui Dengue Fever registra in Cambogia e Tailandia con strumentisti locali.

Accordatosi con la Sugar Hill per rieditare il catalogo Fate, le affida nel ’96 un brillante Human Remains e nel ’99 il sanamente blasfemo Salivation, mentre nel 2005 The Silent Majority metterà ordine tra varie stramberie. Dopo aver benedetto Ryan Bingham con un cameo in Mescalito, alla soglia dei suoi settanta Terry ha guardato a Juarez col senno del poi nel minimale Bottom Of The World.  E poi, nel 2020, un altro disco bellissimo fa i conti con il retaggio – letterario e non – del Grande Paese: si intitola Just Like Moby Dick e ha tutto l’aspetto del riassunto di carriera. A me pare il suo disco più bello dall’ode a Lubbock, per cui siate saggi e mettetevi in casa anche questo ennesimo saggio di talento, poesia e apertura mentale. Doti di un artista unico, che sul giradischi alterna Trout Mask Replica a Blonde On Blonde e nelle interviste cita Flannery O’Connor e Antonin Artaud. Che vive sereno circondato da quadri e sculture con la consorte conosciuta alle medie. Un po’ umanista moderno, un po’ gentleman del Sud e tanto, tantissimo Genio.

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Non solo folk. Il camaleontico, geniale Ryley Walker

Certo che ne leggi di stramberie da che, “grazie” a Internet, il livello medio del giornalismo musicale di questo paese è in picchiata. Perché sai che voglia ha la più parte di quelli che scrivono di verificare le fonti e ascoltare un disco più di tre volte quando in tasca non gli viene un euro. Di conseguenza, oltre a un italiano sovente da bastonate, in rete e purtroppo spesso pure sulla carta stampata ti imbatti in giudizi un po’ così. Del tipo che, perplesso, ti chiedi con quali orecchie sia stata mai ascoltata la musica che ne è oggetto. Vengo al punto. Per capire come è stato recepito il nuovo LP di Ryley Walker ho buttato l’occhio anche su alcuni noti siti: uno regala perle come “netto imborghesimento del suono” e “scenografia generale piuttosto scialba” riferita al “punto di vista strettamente emotivo”.

Tutto ciò da parte di chi dimentica un intero trentatré giri e considera Primrose Green l’esordio di Walker. Però. Che Onda. E che Rock, questi figli di Piero Scaruffi che avanzano! Taglio corto sullo squallore per risparmiare spazio utile a ben altro. A riferire magari che il mio apparato uditivo avverte forte e chiaro un progresso in questo nativo dell’Illinois, cresciuto nell’alveo punk-rock di Chicago e decollato da classicista folk per recapitare un moderno classico. Lo scorso anno Primrose Green si imponeva infatti tra i lavori più intensi del decennio col suo crocevia tra Tim Buckley e John Martyn, tra Van Morrison e Nick Drake.

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Un prodigio del quale – sorpresa! – Ryley pare non essere altrettanto entusiasta. Forse spinto dalla voglia di andare oltre, lo ritiene oggi una dimensione non “sua” e starà mica bluffando o giocando al ribasso con le attese? Nossignore: Golden Sings That Have Been Sung conferma un Talento con le idee chiare, un artista sincero cui non piace farsi incasellare e che asseconda i moti dell’umore e le pieghe del vissuto. Uno che, come cento altri, attinge dal passato però sa come incrociare tra loro epoche e stili. Così, le sue nuove composizioni partono dall’arcobaleno ’67-’72 per inoltrarsi nei Novanta, che furono sì gli anni del grunge, del crossover e dell’indie divenuto fenomeno “di massa”, ma anche l’era del post e del cantautorato depresso.

Ho scritto di inizi chicagoani e un campanello starà suonando nelle vostre teste. Sotto a quel tintinnio lasciate scorrere The Halfwit In Me, incantevole e autoironico folk che, in scia al Jim O’Rourke meno zigzagante, dispiega in apertura la metamorfosi. Non troppo lontano scorgo i sorrisi di Bill Fay e Roy Harper. Applaudo e nel frattempo immagino un songwriter giovane e tuttavia maturissimo che consuma Astral Week ed Eureka, Solid Air e Ocean Beach con la medesima passione; mi dico certo che tenga in gran conto i propri santini, pur non facendosene soffocare. Prova ne è qui un programma dove la stupefatta catatonia da “generazione X” tipica di Mark Kozelek è mescolata in un colpo di genio autoriale con l’acidulo folk-jazz che sappiamo.

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Apprendo che l’idea di partenza era di strutturare l’album in quattro lunghe suite e strada facendo ci si è viceversa orientati su brani un po’ più brevi. Si sente: intessuto su cadenze pacate, dilatazioni strumentali e arrangiamenti elaborati, l’insieme rimane in ogni caso capace di “respirare” poiché privo di manierismi e orpelli. Della focalizzazione su sostanza ed emotività ringraziamo anche il poliedrico Leroy Bach, coproduttore che aiuta a gestire con sapienza ed equilibrio un abbraccio fra ritmi, corde e pianoforte culminante nella chiusura Age Old Tale, tappeto post-folk-rock sistemato sulle curve della davisiana All Blues.

Meraviglia cui il resto paga pegno solo perché la cogli intenta a volare in un empireo stratosferico: sono molto più di semplici ancelle la sinuosa Funny Thing She Said e una I Will Ask You Twice all’insegna della stringatezza acustica, le The Great And Undecided e The Roundabout giocate alla pari con Jonathan Wilson, la psichedelia per nulla revivalista di Sullen Mind e le impennate di A Choir Apart. Una stella era già nata e ora splende più che mai. Il suo nome è Ryley Walker.

Thyme Perfumed Gardens-7: H.P. Lovecraft

Per essere un narratore sommamente visionario, Howard Phillips Lovecraft non ha lasciato grandi tracce nell’immaginario rock “che conta”: escluso il metal estremo e gli Iron Maiden, lo citano i Metallica in Ride The Lightning e Master Of Puppets e i debuttanti Black Sabbath. Altro di rilevante non rammento, con la splendida eccezione di una sixties band di Chicago dedita a un ombroso acid sound. Furono praticamente i soli degni di nota a trafficare con la psichedelia nella windy city, gli H.P. Lovecraft, e il loro breve volo merita la (ri)scoperta: se non ne sapete alcunché e non volete svenarvi per i vinili originali, ve la cavate con una modica spesa. Ringraziate la Rev-Ola che nel 2009 pubblicava sul CD Dreams In The Witch House l’intera loro discografia, bissando un’analoga operazione di quattro anni antecedente con suoni più puliti e libretto arricchito. Vi lascerà di stucco.

Una spiegazione di tale meravigliosa peculiarità è rinvenibile in retroterra eterogenei benissimo integrati, sin da quella metà del decennio favoloso in cui il folkettaro George Edwards fa comunella con Dave Michaels, tastierista di studi classici e voce stesa su quattro ottave. Dopo un paio di false partenze, George approfitta dell’amicizia con i produttori George Badonsky e Bill Traut per porre su nastro, in un pomeriggio invernale e la band locale Roving Kind a dare man forte, un’eterea seppur incisiva Anyway That You Want Me dei Troggs. Nel ‘66 ne ricavano un 45 per la Philips (sul retro il maldestro scippo a Dylan It’s All Over For You) attribuito agli H.P. Lovecraft, dietro suggerimento di un Badonsky fan sfegatato dello scrittore di Providence.

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Manca ancora una band, però, che è allestita dopo svariate audizioni con la chitarra di Tony Cavallari, il pirotecnico batterista Dave Tezga e Tom Skidmore al basso, presto rimpiazzato dall’ex Shadows Of Knight Gerry McGeorge. Il quintetto lavora alacremente infilando nuove composizioni tra ciò che Edwards ripesca dal proprio passato, così che è solida assai la scaletta dell’esordio omonimo inciso in estate, tra reinvenzioni dei Byrds (il post-beat The Drifter) e dei Jefferson Airplane (l’innodica Let’s Get Together, una vibrante Wayfaring Stranger). A cancellare possibili effetti fotocopia concorrono poi le tastiere immaginifiche e il tocco “colto” di Dave: se la conclusiva Gloria Patria è una scheggia gregoriana e The Time Machine un vaudeville buffo e basta, That’s How Much I Love You Baby seduce in pigro jazz bluesato e la mesta I’ve Been Wrong Before e una serrata Country Boy & Bleeker Street omaggiano rispettivamente Randy Newman e Fred Neil – di cui si riprende con estro anche That’s The Bag I’m In – in scia ai Jefferson.

L’immortalità è assicurata da The White Ship, sei minuti e mezzo di tenebroso bolero tra il barocco e l’arabeggiante che vede la luce anche su singolo in versione accorciata. Non smuove granché commercialmente ma entusiasma Bill Graham, che invita i ragazzi sulla West Coast per un tour culminante a San Francisco. Tanto è il clamore suscitato che gli H.P. Lovecraft finiscono per stabilirsi a San Rafael ed esibirsi regolarmente al Fillmore e al Winterland.

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Nella primavera ‘68 calano su Los Angeles per una settimana filata al Whisky A Go-Go, ciò nonostante salutano un McGeorge ai ferri corti con Edwards. Lo sostituisce Jeffrey Boylan, vecchia conoscenza con cui proseguono una massacrante attività concertistica che mina la salute e gli equilibri. All’etichetta che insiste per un secondo LP, reagiscono facendo quadrato: in studio improvvisano e approfittano dell’interesse per l’innovazione tecnologica del supervisore Chris Huston, poi rifiniscono i pezzi – ancor più personali compositivamente e dalle strutture complesse e dilatate – nelle pause di registrazione. Di concitazione e stanchezza è però del tutto immune lo splendido II, che a settembre li consegna alla Storia con folk-rock trasfigurato (Blue Jack Of Diamonds, High Flying Bird) e innodiche tensioni ascendenti (Spin, Spin, Spin: Terry Callier l’autore; di recente l’hanno ripresa i Motorpsycho), ipotesi di Tim Buckley terreno e astrattamente marziale (Keeper Of The Keys) e sortilegi cristallini (Mobius Trip).

Altrove si preconizzano i Pavlov’s Dog (It’s About Time), ci si lancia in brividi cinematici (At The Mountains Of Madness) e si tratteggiano incubi profumati d’oriente (Electrollentando). Non vi sarà seguito – dimenticabile la rimpatriata nei ’70 a nome Lovecraft con Edwards, Michaels, Tegza più carneadi – e va benissimo così. La Philips capisce che la diaspora è in corso e, nonostante le recensioni positive, smette di promuovere il disco. Tutto si dissolve magicamente all’apice di un’arte oscura e fascinosa che più di altre ha retto lo scorrere del tempo. Con buona (?) pace di qualsiasi caos strisciante

Il mio nome è Costa, Gal Costa

Non costituisce regola infallibile che una squadra esclusivamente composta da campioni porti a casa il risultato. L’allinearsi di talenti porta felici risultati se qualcuno tira le fila e ci mette il quid che fa la differenza. Questi sono i presupposti del secondo trentatré giri della cantante brasiliana Gal Costa, originariamente pubblicato nel 1969 e riedito in digitale nel 2008 dalla Dusty Groove. Nel semiomonimo Gal non troverete però cartoline turistiche. Al loro posto, una manciata di brani scritti da Caetano Veloso e Gilberto Gil, gli arrangiamenti orchestrali di un Rogério Duprat che aveva studiato con Stockhausen e Boulez, atmosfere in bilico tra lunaticità ed estasi.

Un suono cangiante che alterna psichedelia verdeoro tagliente e iniettata di fuzz con impervie escursioni vocali prelevate da Patty Waters e scagliate – tramite Yoko Ono – in un futuro di ulteriori contaminazioni con Ludus, Slits e Raincoats. Per tacere di una seconda metà di scaletta avvolta su una follia che possiede metodo e sensibilità, come se fosse la barricata sonica eretta dal movimento Tropicalia per far fronte a un anno che significò innanzitutto dura repressione da parte della dittatura.

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Sintomatico dunque che le carte siano scoperte strada facendo, all’inizio preconizzando gli Stereolab tramite l’epidermico garage beat Cinema Olympia e subito dopo collegando le praterie al Nilo nella fenomenale Tuareg a firma Jorge Ben. Dopo di che, all’ugola messa sotto torchio da Cultura e civilização risponde il divertimento sottilmente disturbato di Paìs tropical. Sulla carta potrebbe sembrare una babele stilistica: spetta invece alla frequentazione prolungata sottolineare quanto gli umori mercuriali e i dualismi “in armonia” siano l’essenza stessa del disco. Quello il senso degli spigoli di Com medo, com Pedro e del Burt Bacharach scorticato di Meu nome é Gal, dell’acidula inquietudine su cui poggia The Empty Boat e dei dieci minuti finali di Objeto sim, objeto não e Pulsars e quasars, immaginifico “krautrock carioca” spinto oltre una crisi di nervi tra sensualità torbida, errebì destrutturato e respiri cosmici.

Sbalordito, riconosci quanto fosse matura la ventiquattrenne nata a Salvador (capitale dello stato di Bahia) come Maria da Graça Costa Penna Burgos, che fu ammiratrice di João Gilberto e commessa in un negozio di dischi fino a quando l’amico Caetano Veloso non la invitava a salire sul variopinto e sovversivo carrozzone tropicalista. Un paio di singoli su RCA e un LP di bossanova con Veloso, la presenza nell’epocale Tropicália: Ou Panis Et Circensis e un omonimo solista meno “fuori di testa” ma di buonissimo peso preparavano il terreno a un’impresa temerariamente fiera della propria libertà espressiva.

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Ennesima dimostrazione che, secondo il proclama “proibito proibire”, in quel Brasile ogni cosa era possibile, almeno nella testa e su vinile. Che si poteva parafrasare la scritta presente sul vessillo nazionale in disordine e progresso, perché valeva sempre e comunque la pena osare. Come in altri dischi figli di quel movimento, anche qui si fa carta straccia dei luoghi comuni con un sorriso dolceamaro; anche qui si sperimenta con il suono, immersi dentro una complessa e sfaccettata stratificazione socioculturale; anche qui ci si racconta tuttora originali. Ispirati dal cannibalismo artistico teorizzato da Oswald de Andrade, si mastica e metabolizza una versione mutata – e, va da sé, mutante – della cultura occidentale.

Scrivendo così regole nuove che quest’ultima raccoglierà, dritti al cuore e alla mente di chi capì e capirà. Prima di evolversi in uno scintillante classicismo (già evidente nel successivo, giocoforza più addomesticato Legal; piace anche la complessa ma romantica eleganza mostrata nel 1973 da Índia) si sfoggia un Genio irrequieto e brado. Quello stesso che oggi scorgi nell’idea di una musica priva di barriere e pregiudizi, seduto a presidiare ogni angolo di quel meticciato totale che chiamiamo quotidianità.