Bush Tetras: kandeggina funk gang

Il ritorno di generi e linguaggi sonori a volte possiede anche il pregio di riaccendere l’interesse verso antesignani poco noti. In tempi a noi vicini, valgano a esempio le ristampe su DFA dei fantastici Pylon, sincero ringraziamento verso un’influenza da Mr. Murphy apertamente riconosciuta. Nonché stilisticamente affine alle Bush Tetras e al loro funk, asciutto e compresso in algide strutture secondo i dettami post punk. Così in anticipo sui tempi da godere di fortuna e notorietà scarse, complice anche una discografia esigua e sparsa su svariate etichette e lo scioglimento avvenuto nel pieno di un’interessante metamorfosi. Il tutto lungo tre anni di carriera in ogni caso bastanti a garantire loro una solida attualità.

Destino peraltro comune a chi bazzicava le inquiete strade di New York tra la seconda metà dei ‘70 e l’alba del decennio seguente. Colà Pat Place prestava un’angolosa chitarra ai Contortions di James Chance ed è piccolo il giro frequentato da questa replicante uscita da “Blade Runner”, essenzialmente loft e localacci colmi di artisti ricchi soltanto di idee. Facile per lei radunare la gente giusta quando vuole mettersi in proprio ed ecco la cantante Cynthia Sley, Laura Kennedy al basso e il maschietto Dee Pop dietro tamburi e piatti. Il quartetto si accomoda tra i nervi scoperti della wave che dice “No” e una negritudine mutant, spingendo l’avanguardia a dimenare i fianchi su dancefloor ambigui e torvi.

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Funky ma per niente chic: questo lo spirito dell’EP Too Many Creeps edito dalla 99 Records – Liquid Liquid ed ESG in scuderia: tutto quadra! – nel 1980. Di conseguenza, se il resto del programma unisce malumori vocali, slide ronzanti e ritmi misuratamente plastici, l’incedere della favolosa title track già sparge attorno a sé aromi LCD Soundsystem. Con Delta 5 e Au Pairs quali referenti coevi sulla sponda opposta dell’Atlantico, nel febbraio successivo si tiene un memorabile show al londinese Rainbow. Impressionato, Rod Pierce della Fetish finanzia Things That Go Boom In The Night, 45 giri dove Keith Levene e Siouxsie danzano tra scure pause dub. Poiché l’etichetta gode della distribuzione Stiff, Bush Tetras è il nome in cima alla lista quando i Clash cercano una spalla per alcune date newyorchesi.

Di costoro, Topper Headon si entusiasma al punto da produrre nell’82 Rituals, 12” su Stiff con quattro gemme che palesano il contributo dell’uomo di Rock The Casbah nella cura per il dettaglio, nel groove muscolare, in trame più epidermiche e colorate. L’innodica Cowboys In Africa, il saltellante piano del brano omonimo e le irresistibili dichiarazioni d’intenti Funky e You Can’t Be Funky (dove “if you haven’t got soul” costituisce l’altra metà dell’assioma) rappresentano al meglio la formazione. A dispetto di nuove composizioni ancor più raffinate e danzabili, Laura e Dee abbandonano. Alla batteria subentra Don Christensen, ex dei Raybeats col quale si recuperano certe iniziali ombrosità.

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Un ciclo sta tuttavia per chiudersi: con l’imporsi di hip-hop e hardcore punk, la micro-scena in cui le Nostre operavano scompare. Il rompete le righe è ufficializzato nel 1983 dalla cassetta ROIR Wild Things: seguiranno il dimenticatoio e un altro nastro ROIR che, intitolato con perverso humor Better Late Than Never, raccoglie le meraviglie di cui sopra più qualche inedito. Acquisto obbligato nell’edizione digitale intitolata Boom In The Night (Original Studio Recordings 1980-1983). Come detto in apertura, parte prima: lo smuovere delle acque serve a rimettersi assieme e non sarà malaccio nel 1997 Beauty Lies, primo “vero” LP delle Tetras prodotto da Nona Hendryx.

In eccessivo anticipo sul revival del post-punk, tanto per cambiare passa inosservato e sancisce un nuovo scioglimento, non prima però che la band registri un altro album, il più ruvido Happy, destinato a rimanere nei cassetti fino al 2012. Come detto in apertura, parte seconda: Pat Place e compagnia sono di nuovo in pista (da ballo, va da sé) dal 2005 con la bassista Julia Murphy, rimpiazzata nel 2013 da Cindy Rickmond. Più triste il destino di Laura Kennedy, deceduta nel novembre di un lustro fa dopo una lunga lotta con un brutto male al fegato. Ricordatevi di lei, la prossima volta che suderete al ritmo di Radio 4, Rapture e Gossip. You can be funky, just for one day.

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Thyme Perfumed Gardens-9: Mandrake Memorial

Avete presente il momento in cui l’appassionato dalle idee un po’ nebbiose tira fuori la “psichedelia dei Settanta” e confonde l’espansione della coscienza con le pippe? Sarà capitato anche a voi, suppongo. Siccome sono un tipo educato, faccio finta di niente e distolgo il discorso. A casa, poi, rammento che gente per la quale nutro massima stima ama con la medesima intensità Rattus Novergicus e Foxtrot. Un nesso esiste e mi piace chiamarlo musica “progressista”: semplificando un po’, è quella vena che allargò i confini del rock conservando il legame evolutivo con la stagione psichedelica di cui era figlia; quel nuovo che avanzava in coda ai Sessanta, che in mancanza di meglio fu chiamato underground e degenerò presto in solipsismi e baracconate. Provo a spiegarmi meglio consigliandovi i Mandrake Memorial, bell’esempio di come si possa dondolare spigliati sulla cuspide progedelica. Se aggiungo “Pavlov’s” e “Dog” ci capiamo al volo, no? Bene.

Il parallelo con l’ensemble di Pampered Menial sta nel fatto che i Mandrake erano dei prog come solo gli americani potevano, cioè fedeli a un’essenzialità sulla quale innestare soluzioni per nulla tradizionali (dimostrazioni al contrario: Vanilla Fudge e Kansas). Li aiutava anche il “ritardo” rispetto all’acid-rock primigenio, siccome è a fine ‘67 che un locale di Philadelphia incarica il produttore Larry Schrieber di assemblare una house band. Alla bisogna, Larry ingaggia il folksinger Michael Kac e il batterista Kevin Lally, ex Novae Police; a costoro si aggiungono lo studente Craig Anderton all’altra chitarra e Randy Monaco, bassista/cantante anch’egli già nei newyorchesi Novae Police.

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Garantitasi salario fisso ed esibizioni ogni weekend, la band sviluppa alla svelta uno stile e un seguito. Una sera li avvicina un rappresentante della R.M.I. proponendo il Rock-Si-Chord, prototipo di piano elettronico che a breve Terry Riley utilizzerà per A Rainbow In Curved Air. Kac capisce di poterne cavare qualcosa, molla la sei corde e i ragazzi danno punti a molte celebrità cui fanno da spalla: motivo in più per battere da soli il nord-est ed è così che li nota la Poppy. Nel 1968 un LP d’esordio omonimo vende bene sulla costa orientale grazie a canzoni solide e un gustoso equilibrio di armonie vocali e intrecci strumentali. L’anno seguente ha buone fortune anche l’ombrosa variazione sul tema Medium, tuttavia spetta al terzo LP consegnare i Mandrake Memorial agli annali.

Disco sul serio “difficile”, perché Kac sbatte la porta e nell’estate 1969 gli altri volano a Londra per registrare un lavoro acustico con Shel Talmy e girare l’isola insieme ai concittadini Nazz. Il sindacato britannico dei musicisti scatena però una vertenza e il relativo embargo impedisce qualsiasi concerto. Ciliegina sull’amara torta, l’etichetta rifiuta un trentatré giri unplugged sin troppo in anticipo. Senza perdersi d’animo, a casa si riparte dal materiale scartato con coro, orchestra e la regia dell’esperto Ronald Frangipane. Avrebbe potuto essere un disastro epocale, Puzzle: invece dal 1970 è un’opera fascinosa che sorprende e svela dettagli a ogni passaggio, giocando con la percezione come fosse la versione sonora del quadro di Escher raffigurato sulla splendida copertina.

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In cinquanta sontuosi e immaginifici minuti che guadagnarono il plauso del compositore Seiji Ozawa ci si muove disinvolti lungo dilatazioni controllate, ricercatezze mai fini a sé stesse, suggestioni cinematiche e classiche. Bucket Of Air è A Saucerful Of Secrets suonato da dei concisi Grateful Dead; Earthfriend e Hiding mescolano crescendo maestosi ed estatici rapimenti; la ballata lisergica Ocean’s Daughter ondeggia inquieta. Se le tre versioni della breve Just A Blur conferiscono ulteriore unità, Tadpole distilla tesa malinconia e Volcano, Children’s Prayer e la title-track sposano magistralmente ambizione e visionarietà. Oggi parleremmo di svolta “alla Radiohead”, con la differenza non trascurabile che Puzzle vende pochissimo e le spese di lavorazione sono ingenti.

Si butta fuori un 45 con Something In The Air dei Thunderclap Newman che è un flop e l’ultimo chiodo sulla bara del gruppo. Tra ‘71 e ’73 Anderton accompagna la chitarrista Linda Cohen, poi da geniaccio dell’elettronica progetta e costruisce effetti, pedali e synth per importanti case produttrici e pubblica libri e articoli sull’argomento. Michael suona pure lui con la Cohen e lavorerà all’università di Minneapolis. Kevin Lally finisce sul libro paga dei londinesi Lloyd e nei primi ’80 apre un’affermata agenzia assicurativa a New York. Più sfortunato Monaco che, schiavo della bottiglia, fallisce nel rimettere in piedi la formazione, milita nei 1910 Fruitgum Company e nel 1983 muore di cirrosi. Sorti beffardamente diverse per chi nella somma degli elementi aveva una fonte di grandezza.

Quel modernista di Tim Gane

Ma che meraviglia, gli Stereolab! La band art-pop per eccellenza che, al contempo cantabile e sperimentale, metteva in connessione reciproca decine di anelli del passato cui in precedenza non avevamo pensato. Un mosaico coloratissimo di musica per intellettuali senza spocchia – del tipo che bada al sodo e sa divertirsi – in cui trovavi di tutto e di più: Piero Umiliani e Os Mutantes, Free Design e Neu!, Brigitte Fontaine e Steve Reich, marxismo e situazionismo. Con una spina dorsale compositiva solidissima, i coniugi Tim Gane e Laetitia Sadier furono favolosi maniaci del retro quando ciò ancora non era sinonimo di moda o di paravento per la mancanza di idee.

Nel 2004 terminava la loro storia d’amore e nel giro di un lustro il progetto veniva messo a riposo. Bravina la Sadier a destreggiarsi in una carriera solistica in ogni senso discreta, dall’inverno di quattro anni fa l’ex marito affida un’anima quel tot più sperimentale ai Cavern Of Anti-Matter, allestiti a Berlino con Joe Dilworth – già alla batteria nel Laboratorio Stereofonico – e al tastierista “ti cermania” Holger Zapf. L’attitudine è quella di un tempo e per questo mi piace: il precedente Blood Drums è stato registrato in un analogico mono digitalmente “ricreato” in stereo; la manciata di 12” più un singolo che lo ha seguito ha visto la luce in edizioni limitate su etichette ogni volta differenti fino all’autarchico approdo chez Duophonic.

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Ovviamente, nulla di quanto sopra è stato ripescato nel corposo programma – prossimo all’ora e un quarto – di Void Beats/Invocation Trex. Che è bello assai e aperto coraggiosamente sui dodici minuti della citazione da “Dr. Who” – per me parti benissimo, fratello Tim – di Tardis Cymbals. Echi intermittenti di Delia Derbyshire e del BBC Radiophonic Workshop sospesi nell’aria pressurizzata, i puzzle pop del passato sono sbriciolati da un passo slanciatamente motorik dove il dinamismo ipnotico è però più prossimo a Immer Wieder che a Hallogallo. Questa per sommi capi la differenza nei Cavern Of Anti-Matter: maggiore focalizzazione sulla spazialità del suono, più arnesi di elettronica, atmosfere velate di introversione anche se ritmicamente esuberanti.

Non pensate tuttavia a calligrafismi senza causa né senso, poiché il tono e la scrittura sono ancora fedeli a un umorismo sottile e a contrapposizioni stilistiche che si integrano. Di conseguenza, Blowing My Nose Under Close Observation è la “techno intelligente” dei Novanta ricondotta sulle rive del Reno che contribuì a generarla; Echolalia e Melody In High Feedback Tones incarnano gli episodi più vicini agli Stereolab; le tessiture di Hi-Hats Bring The Hiss fondono i Chemical Brothers con le cupezze dei Two Lone Sworsdmen; Pantechnicon ricorda gli Orbital dei giorni migliori. Wow.

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E se Black Glass Actions raccoglie Jan St. Werner dei Mouse On Mars raccordando Autobahn ai momenti più distesi di Neu! 75, i brani cantati appongono la ciliegina su una torta dai sapori forti però equilibrati e un retrogusto che cresce pian piano. Planetary Folklore spedisce disturbate cartoline cosmico-germaniche sulle quali Sonic Boom declama parole di Vasarely pensando a Lord Krishna Von Goloka; in una viceversa concisa Liquid Gate, è Bradford Cox a ritornare con passo più deciso tra i panorami dell’ottimo Fading Frontier. Concluso il… trip sugli archi meditativi e melancolici di Zone Null (al pianoforte un’altra vecchia conoscenza: Sean O’Hagan) viene voglia di partire da capo, con la certezza che – tra il gioco di specchi e di rimandi, tra il classicismo illuminato della mezza età e l’affiorare di influenze che mai avresti detto o forse sì – le cose appariranno diverse. Ma che squisita, questa retrodelia d’autore!

La predicatrice Lyn Collins

Quasi un anno di blog e con stupore mi accorgo di non aver ancora scritto di black. Materia per la quale nutro un amore sempiterno che si spinge oltre la sublime bellezza della musica, siccome i dischi e l’esistenza si intrecciano qui più profondamente che altrove, rappresentando la colonna sonora di gioie e dolori, di redenzioni e cadute, di lacrime e risate che appartengono a un intero popolo. I fatti, sovente, finiscono per diventare tasselli di un romanzo fiume, di una mitografia che in realtà è desiderio di fuga da una vita grama. Magari da ingiustizie perpetrate da un Fato che ti strappa dal mondo quando iniziavano a giungere i dovuti riconoscimenti. Amen.

Domanda da “Rock Trivia”: cos’hanno in comune Bruce Springsteen e Ludacris? Faraonici conti in banca esclusi, entrambi si sono avvalsi di un campionamento di Lyn Collins. Di chi? Tranquilli, l’avete ascoltata di sicuro. Chiedete ai Twenty 4 Seven da dove hanno pescato il campionamento del tormentone trash I Can’t Stand It, oppure su cosa Rob Base e DJ E-Z Rock hanno costruito It Takes Two. Fate anche un paio di domandine a Snoop Dogg, LL Cool J, EPMD, Eric B. & Rakim, Big Daddy Kane, Jay Z, Nas, Public Enemy… Per caso, è la vostra mascella quella che tonfa sul pavimento? Pronti a vederla cadere altre volte?

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Gloria Lavern Collins nasce in Texas nel giugno 1948 e inizia la carriera a quattordici anni. Non è granché più vecchia quando sposa un promoter locale che nel ’68 spedisce un demo a James Brown, ricevendo in risposta l’invito a sostituire la dimissionaria Marva Whitney nella sua live band. L’abilità nel cogliere l’attimo fa il resto: rientrata Vicki Anderson a corte, Lyn è spedita in Georgia a registrare qualcosa. Dei cinque brani messi su nastro a febbraio ‘71, una Wheel Of Life robustamente degna di Aretha Franklin e il post doo-wop Just Won’t Do Right appaiono su un 45 giri della People, marchio voluto da James con la distribuzione Polydor. Frattanto anche Vicki lascia e sul palco si libera il posto di favorita. Degli anni colà trascorsi, Madame Collins dirà: “Avrei preferito gridare meno e cantare di più.” Metto su Think (About It) in un vinile planatomi in casa intonso dal 1972 e vi dico che per me quel tempo fu speso benissimo.

La voce di gola piena da chiesa traslocata nei vicoli che le valse il soprannome “female preacher” è travolgente, perfettamente saldata alle trame stese dai J.B.’s comandati a bacchetta dal Padrino Soul, infaticabile che stampa l’album, siede in regia e qui e là canticchia. In apertura la title-track ostenta la propria statura di classico, scheletrico – però possente, elegantissimo – funk “femminista” arrampicatosi alla nona piazza della classifica errebì di “Billboard”. Non da meno il resto, dal recupero integrale del succitato singolo all’emozionante ed emozionato slow Women’s Lib, da una bacharachiana Reach Out For Me morbida il giusto a riletture di Ain’t No Sunshine (suprema l’intensità della performance vocale) e Never Gonna Give You Up e una serrata Things Got To Get Better. Dopo la chiusa irruenta ma al contempo stilosa di Fly Me To The Moon, a mo’ di ipotetico bonus piazzo il 7” coevo dove Me And My Baby Got A Good Thing Going e I’ll Never Let You Break My Heart Again dispensano brio e groove.

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Oltre la ferrea disciplina e l’appropriarsi di brani non composti da lui, il Signor Dinamite suole anche stipendiare l’entourage con (belle, per l’epoca) cifre fisse. La ragazza vede pochi frutti del successo ma resta comunque in squadra, risplendendo a fianco del boss nella Mama Feelgood custodita in Black Caesar e nel duetto What My Baby Needs Now Is A Little More Loving. Nel ’75 l’ottimo Come Check Me Out If You Don’t Know Me By Now replica tra soul sudista e “made in Philly”, ballate e sexy funk.

Poi basta. Lyn si stabilisce a Los Angeles, tira su due figli e presta la voce a Dionne Warwick, Rod Stewart, Al Green. Negli Ottanta canta per la televisione e il cinema finché, in chiusura al decennio, l’etichetta belga ARS la riporta davanti a un microfono per la danzabile Shout. Quando Rob Base e E-Z Rock colgono il successone di cui sopra, si scatena il sampling: la Predicatrice diventa la donna più campionata dell’hip-hop e nel ’93 è ospite della stellina dancehall Patra nella cover di Think (About It). Il nuovo millennio porta prestigiosi palcoscenici europei e pensi che infine sia ora della gloria. Poiché nulla è così cinicamente, sommamente figlio di troia come il destino, un’aritmia cardiaca stronca la Collins nel marzo del 2005. Aveva cinquantasei anni.