Quel modernista di Tim Gane

Ma che meraviglia, gli Stereolab! La band art-pop per eccellenza che, al contempo cantabile e sperimentale, metteva in connessione reciproca decine di anelli del passato cui in precedenza non avevamo pensato. Un mosaico coloratissimo di musica per intellettuali senza spocchia – del tipo che bada al sodo e sa divertirsi – in cui trovavi di tutto e di più: Piero Umiliani e Os Mutantes, Free Design e Neu!, Brigitte Fontaine e Steve Reich, marxismo e situazionismo. Con una spina dorsale compositiva solidissima, i coniugi Tim Gane e Laetitia Sadier furono favolosi maniaci del retro quando ciò ancora non era sinonimo di moda o di paravento per la mancanza di idee.

Nel 2004 terminava la loro storia d’amore e nel giro di un lustro il progetto veniva messo a riposo. Bravina la Sadier a destreggiarsi in una carriera solistica in ogni senso discreta, dall’inverno di quattro anni fa l’ex marito affida un’anima quel tot più sperimentale ai Cavern Of Anti-Matter, allestiti a Berlino con Joe Dilworth – già alla batteria nel Laboratorio Stereofonico – e al tastierista “ti cermania” Holger Zapf. L’attitudine è quella di un tempo e per questo mi piace: il precedente Blood Drums è stato registrato in un analogico mono digitalmente “ricreato” in stereo; la manciata di 12” più un singolo che lo ha seguito ha visto la luce in edizioni limitate su etichette ogni volta differenti fino all’autarchico approdo chez Duophonic.

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Ovviamente, nulla di quanto sopra è stato ripescato nel corposo programma – prossimo all’ora e un quarto – di Void Beats/Invocation Trex. Che è bello assai e aperto coraggiosamente sui dodici minuti della citazione da “Dr. Who” – per me parti benissimo, fratello Tim – di Tardis Cymbals. Echi intermittenti di Delia Derbyshire e del BBC Radiophonic Workshop sospesi nell’aria pressurizzata, i puzzle pop del passato sono sbriciolati da un passo slanciatamente motorik dove il dinamismo ipnotico è però più prossimo a Immer Wieder che a Hallogallo. Questa per sommi capi la differenza nei Cavern Of Anti-Matter: maggiore focalizzazione sulla spazialità del suono, più arnesi di elettronica, atmosfere velate di introversione anche se ritmicamente esuberanti.

Non pensate tuttavia a calligrafismi senza causa né senso, poiché il tono e la scrittura sono ancora fedeli a un umorismo sottile e a contrapposizioni stilistiche che si integrano. Di conseguenza, Blowing My Nose Under Close Observation è la “techno intelligente” dei Novanta ricondotta sulle rive del Reno che contribuì a generarla; Echolalia e Melody In High Feedback Tones incarnano gli episodi più vicini agli Stereolab; le tessiture di Hi-Hats Bring The Hiss fondono i Chemical Brothers con le cupezze dei Two Lone Sworsdmen; Pantechnicon ricorda gli Orbital dei giorni migliori. Wow.

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E se Black Glass Actions raccoglie Jan St. Werner dei Mouse On Mars raccordando Autobahn ai momenti più distesi di Neu! 75, i brani cantati appongono la ciliegina su una torta dai sapori forti però equilibrati e un retrogusto che cresce pian piano. Planetary Folklore spedisce disturbate cartoline cosmico-germaniche sulle quali Sonic Boom declama parole di Vasarely pensando a Lord Krishna Von Goloka; in una viceversa concisa Liquid Gate, è Bradford Cox a ritornare con passo più deciso tra i panorami dell’ottimo Fading Frontier. Concluso il… trip sugli archi meditativi e melancolici di Zone Null (al pianoforte un’altra vecchia conoscenza: Sean O’Hagan) viene voglia di partire da capo, con la certezza che – tra il gioco di specchi e di rimandi, tra il classicismo illuminato della mezza età e l’affiorare di influenze che mai avresti detto o forse sì – le cose appariranno diverse. Ma che squisita, questa retrodelia d’autore!

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