Il cuore scuro di Townes Van Zandt

Un dilemma e un’impresa trovare forme verbali che restituiscano le sensazioni provate ascoltando Waitin’ Around To Die o For The Sake Of The Song. Malinconia non è, altrimenti dove scivola, fugace e imprendibile, quel sapore dolceagro? Proviamo con mestizia: beh, ma i raggi di sole che all’orizzonte fendono le nubi… Cos’è davvero il respiro romantico che plana lieve dal cielo di un’America un po’ reale e un po’ figlia del nostro immaginario? Mi piace pensarlo una lama affusolata che scatena la voglia di piangere e ridere, di rintanarsi nel buio e correre sotto un acquazzone come fossero i medesimi gesti. Di ricordare i dolori per alleviarli in un saliscendi emotivo – “alto, basso e quel che c’è in mezzo”: oh, sì – che rende più vivi e sottolinea come, nel bene e nel male, siamo ognuno un frammento del mondo.

Townes Van Zandt cavava dal tormento Canzoni di sangue. Il suo. Chiudo gli occhi e me ne appare il sorriso, velato di ombre e incorniciato da sguardi che cercano di braccare un passato. A breve spiegherò il motivo. Prima voglio inserirlo anch’io tra i Grandi Songwriter di sempre, e se non vi fidate, consultate le eminenti firme che ne tessono le lodi. Oppure chiedete a Steve Earle, il quale ha ringraziato il suo mentore battezzando Townes un figlio (cantante anch’egli) e rileggendone svariati brani. Poi fate un paio di domande a Willie Nelson e a Emmylou Harris, a Jolie Holland e a Simon Joyner, a Laura Marling e ai Cowboy Junkies. E a tutti gli altri che hanno reso omaggio – e si sono ispirati: Will Oldham esempio dei più fulgidi – a incanti dolorosi scritti per arginare la fragilità e le offese della vita.

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Nel Texas orientale esiste una contea chiamata Van Zandt, che dicono fondata da un immigrato olandese. Nei pressi, a Forth Worth, il 7 marzo 1944 John Townes nasce da una famiglia benestante. A natale del 1956 il babbo gli regala una chitarra, siccome il ragazzino ha visto Elvis in televisione e altro non vuol sapere. Salto avanti al ’62, allorché lo ritirano dall’università perché vogliono un avvocato o un politico e non un maniaco depressivo che annega i giorni nell’alcol. Lo “curano” con shock di insulina e la madre si pentirà in eterno. Derubato della memoria, Townes incappa nelle debolezze di chi scruta nell’anima fino alla vertigine. Sceglie la carriera di musicista a Houston con Guy Clark e Jerry Jeff Walker, eseguendo i modelli Bob Dylan, Lightnin’ Hopkins, Hank Williams, Rolling Stones. Prima di morire, papà lo esorta a scrivere e lui intinge la penna dentro tinte country-folk venate di blues.

A Nashville fa amicizia con Mickey Newbury e il produttore “Cowboy” Jack Clement, firma con la Poppy e nel 1968 finalmente esordisce. Di For The Sake Of The Song non lo soddisfa la produzione “caricata” secondo i dettami dell’epoca, ma che comunque arricchisce una latineggiante title-track, lo scheletro percussivo Tecumseh Valley, i brividi di Waitin’ Around To Die, lo Zimmie sudista di Quicksilver Dreams Of Maria. Un calendario e Our Mother The Mountain porge country limpido disposto al folk orchestrale, vertici lo Scott Walker campagnolo di Kathleen, il dolce dramma omonimo, una rinnovata Tecumseh Valley che lima i pochi orpelli rimasti. A fine ’60, Townes Van Zandt ripesca quattro titoli dal debutto asciugandoli al clima intimo suggerito in copertina e illuminando d’immenso For The Sake Of The Song, Waiting Around To Die, I’ll Be Here In The Morning e (Quicksilver Daydreams Of) Maria laddove tra gli inediti spiccano le trasparenze di Columbine e Colorado Girl, una sinistra Lungs, la fiabesca None But The Rain.

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Dopo un (primo) Capolavoro, nel ’71 il nuovo tradizionalista poggia Delta Momma Blues su dodici battute folkeggianti e agresti e un umore più rilassato che dolente, malgrado la confessione Nothin’, l’immensa Tower Song, le amare Rake e Only Him Or Me. Abortito un LP per litigi tra produttori e manager – uscirà solo nel ‘93 come The Nashville Sessions – l’anno seguente High, Low And In Between offre schietto gospel delle praterie, echi stoniani e l’indicibile bellezza di Highway Kind, To Live Is To Fly e del brano omonimo. Come se non bastasse (!), arriva anche il Testo Sacro. Profetico e in retrospettiva brutale, The Late Great Townes Van Zandt custodisce gemme mai più così scintillanti.

Classico assoluto nel passaggio di testimone da Williams in Honky Tonkin’ e nell’omaggio a Clark di Don’t Let The Sunshine Fool You, manda l’anima in frantumi tramite No Lonesome Tune, If I Needed You, Snow Don’t Fall e la rediviva Sad Cinderella, sceneggiando tra un sorriso e una lacrima il cortometraggio western in anticipo sui Calexico di Pancho And Lefty. Per l’Artista che tocca il cielo, un uomo crolla: i dischi non si vendono e l’etichetta è in bancarotta, gli amori sono sbagliati e la bottiglia trionfa. Fino a metà dei ’70 Townes sopravvive in una baracca, senza acqua corrente né elettricità. Alla fine del tunnel c’è però una (sorta di) salvezza.

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La Tomato ristampa il catalogo e nel 1977 estrae dall’archivio Live At The Old Quarter, Houston, Texas, favolosa missiva da uno spirito squarciato inviata nel luglio di quattro anni prima. Van Zandt torna nel mondo con Flyin’ Shoes, ultimo scatto d’autore più tondo nell’arredo strumentale curato da Chips Moman e imperdibile per il brano omonimo e Loretta, per No Place To Fall e Rex’s Blues. Scorre quasi un decennio: At My Window è privo di guizzi e idem No Deeper Blue entro un settennato; fedele alla pinta di vodka quotidiana, il texano si sposa una terza volta e collabora con i Cowboy Junkies.

Cuore e corpo però non resistono e cedono definitivamente nel 1997. Come per Hank, era capodanno. Non fui sorpreso: affranto sì, eccome. Lo resterò finche campo. Da qualche parte, dentro di sé John Townes conservava un destino ben preciso. Non importa quanto se lo fosse scritto da solo o glielo avessero tatuato sull’anima. Gli dava sempre del tu. Vivendole, scontava tre pesantissime parole come the late great: il grande defunto. Ecco: credo di aver capito, alla fine. Tutti piangiamo il blues, ma le lacrime di qualcuno sono più amare di altre.

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Un Angel (Olsen) alla mia tavola

Talvolta anche nella musica puoi spendere la massima “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. Quale sia la tua pasta, sono anche certe frequentazioni e amicizie a lasciarlo intuire, benché in fondo spetti esclusivamente a te dimostrare quanto vali. Così sinora Angel Olsen, poco meno di trent’anni e una gavetta che la vedeva esibirsi, adolescente con sei corde in grembo, nelle caffetterie della natia St. Louis (Missouri), poi a Chicago e infine prestare l’ugola a un paio di LP di Bonnie “Prince” Billy. Qui casca l’asino, siccome nello stesso periodo – primavera 2011 – la fanciulla dava alle stampe Strange Cacti, nastro su Bathetic con sei autografi folk successivamente edito anche in vinile.

Cartina di tornasole spartana che una registrazione colma di riverbero rendeva assai spettrale, consegnando echi di un passato sottratto all’ipotetico oblio per rammentarci quanto il fascino possegga radici robuste. Evidenza è che in costei la nostalgia costituisca parte integrante della bellezza. Scommetto che c’entra un bel po’ il vissuto e nello specifico l’adozione a tre anni da parte di una coppia in età avanzata. Così che quando insegui dei miti su cui costruire un’identità, può fare la differenza andare a cercarseli nel pre-war e negli anni Cinquanta.

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A maggior ragione allorché sei un tipo introverso che ascolta punk pur frequentando un liceo cristiano. Naturale che il rifugio sia lo scrivere canzoni e che qualcuno le noti, siccome questa ragazza della porta accanto dal sorriso timido però solare e lo sguardo attento riesce a tratteggiare un mosaico a sé. Nel senso che mette assieme cocci del passato e li trascende con passione e talento non comuni; nel senso che raccoglie la forma e lo spirito dei propri modelli e se ne appropria, per esempio avvolgendo la Santissima Trinità Kristin Hersh/Hope Sandoval/PJ Harvey in melodie e accordi da girl group o porgendo un country insieme ruspante e onirico.

E’ una donna e di conseguenza le cose le escono così: prendere o lasciare. Quattro anni or sono prendemmo al volo Half Way Home, debutto in lungo da qualche parte tra Will Oldham e Roy Orbison, tra Patsy Cline e Joni Mitchell. Dopo il quale Angel raccoglieva basso e batteria e passava alla Jagjaguwar per Burn Your Fire For No Witness, solido folk-(indie) rock che addirittura si affacciava nei top 200 di “Billboard”. Mancava giusto il “difficile” terzo album a completare il quadro e dallo scorso settembre lo abbiamo.

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Programmatico nel titolo e nelle tematiche che affronta, ovvero il sofferto momento dello scoprirsi adulti, My Woman è stato concepito pensando alle due metà del trentatré giri. Metafora in ciò perfetta dell’universo femminile che si prefigge di descrivere, in realtà questa decina di canzoni vive di contrapposizioni apparenti: se la prima facciata trabocca esuberanza e l’altra è consacrata all’intimismo, l’assidua frequentazione evidenzia un insieme armonico, coeso. Nel quale gli emisferi di cui sopra si compenetrano e influenzano, così che My Woman è un’anima che trova se stessa lungo il percorso. Non per caso l’asciutto dream-pop spolverato di elettronica Intern apre un cerchio chiuso tre quarti d’ora dopo tramite il raccoglimento pianistico di Pops.

Nel mezzo, saggi alternative di orecchiabilità mai scontata e sensualità a nervi tesi come Never Be Mine e Shut Up Kiss Me, le Not Gonna Kill You e Give It Up che rinfrescano l’inchiostro di Kristin Hersh e della giovane Liz Phair, una Heart Shaped Face da Mazzy Star mattinieri, la penombra lynchiana di Those Were The Days. Laddove a ratificare la maturità dell’autrice basterebbero Sister e Woman, ballate di impianto e respiro magistrali giocate tra graffi e carezze, tra crescendo e atmosfere. Una volta si diceva che era nata una stella. Sappiate che in tante cose sono un tipo all’antica, e perciò…

Thyme Perfumed Gardens-10: Shiva’s Headband

In quest’ultimo viaggio – tranquilli: di psichedelia scriverò ancora, spesso e volentieri – tra giardini odorosi d’incenso e menta piperita mi trovo in squisita compagnia: “Suonammo in jam con gli Shiva’s Headband, che ascoltavo tantissimo. Erano fantastici.” Così Roky Erikson, illustrissimo concittadino dello Spencer Perskin che, mezzo secolo meno un anno fa, fondava uno tra i segreti meglio “auto custoditi” dei ’60. Un asso bizzarro e obliquo che costituisce una sensazionale mano da “Texas Hold ’em” con 13th Floor Elevators, Conqueroo e Golden Dawn, ma la posizione del quale è defilata sia rispetto ai nomi succitati che a un country che si rigenerava mescolandosi con il rock.

Come in una vecchia pellicola hollywoodiana, scorrono rapidissimi un bel po’ di calendari ed eccomi agli anni Ottanta, in cui accanto al Paisley Underground alcuni riscoprivano le radici americane e spesso tra loro i volti si confondevano. Dallo scaffale rispolvero formazioni coeve che rappresentavano fantastici “a sé” e tratteggiavano già ipotesi di post-rock. Da Black Sun Ensemble, Always August e Camper Van Beethoven c’è un filo iridescente che risale tra cielo e terra, tra tradizione e futuro.

Chissà che c’era nell’acqua in quei giorni ed è una domanda assolutamente retorica, perché sappiamo tutti quale fosse l’andazzo. A prescindere dal contesto, sotto la Stella Solitaria si è sempre prodotta grandissima musica: non costituiva eccezione la seconda metà del ’67 in cui Perskin, violinista ventiquattrenne di estrazione classica, allestiva una band con la moglie e cantante Susan più alcuni amici: Bob Reed alla chitarra, il bassista Kenny Parker, Jerry Barnett dietro la batteria, il tastierista Shawn Siegel. Perfetto il nome, suggerito dalla consorte in omaggio alla divinità hindu che, responsabile del cambiamento, distrugge il vecchio portando vita nuova. Basta poco a questa congrega di fissati con gli armadilli per svettare nel panorama locale e crearsi un seguito di fan che si estende all’intero stato.

Fungono da spalla a diversi nomi importanti, attraendo l’attenzione della Capitol che li scrittura e domicilia a San Francisco. Agli sgoccioli del decennio, sulla Baia gli Shiva’s Headband non si ambientano e soggiornano giusto il tempo di confezionare un trentatré giri nel vecchio studio dei Grateful Dead. Take Me To The Mountains non è solo l’esordio di un nome destinato al culto ma anche il primo LP pubblicato da un gruppo di Austin. I non molti dollari ricavati sono investiti in un locale autogestito, l’Armadillo World Headquarters (spulciate nella busta interna di London Calling per una sorpresa…) utile a promuovere la scena cittadina.

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Siamo anni prima del SXSW e ciò indica quanto Spencer avesse – ha tuttora – le idee chiare. Affiora alla mente il senso di comunità che da allora è transitato, attraverso certe frange del primo hardcore-punk, ai Godspeed You! Black Emperor. Medesima la volontà di non essere incasellati e/o dominati dall’industria ed ecco cosa dichiarava costui nel ’92: “Quel che faccio è indirizzare nell’arte le mie tendenze rivoluzionarie. Sparo note invece di proiettili, provando a espandere le coscienze.” Se vi pare un vecchio barbogio, passate oltre. Io vedo un individuo orgoglioso che si è guadagnato da vivere senza svendere i propri ideali.

Ma la musica, vi domanderete? Vale la pena conoscerla, benché – caso analogo ed eclatante: i Mystery Trend – dal punto di vista formale la psichedelia c’entri poco. Esclusi un paio di brani, la intuisci nei dettagli (una chitarra acidula, un violino che profuma di Europa dell’est) e specialmente nell’umore. Il disco infatti sembra commentare un risveglio graduale però mai completo da un trip eccellente, così che la realtà resta sempre un filo distorta e i cowboy sono cosmici e mooolto rilassati.

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Take Me To The Mountains appartiene al 1970 per come vagabonda lungo un confine cronologico – ed estetico: quello di un country-rock sui generis – fino a fondersi nel tramonto di un’era. Per questo mi piace e mi piace concludere questa cavalcata tra scampoli lisergici e roots dopo aver iniziato nella prima lu tata con una sovrapposizione tra garage e acid-sound. Sono insieme estatiche e terrigne canzoni come My Baby (scorrazzare per le praterie in vaghi vapori garagisti) e il brano omonimo, piuttosto classico se il violino svisasse con meno fantasia; come il gustoso, autoesplicativo Homesick Armadillo Blues e la Ripple offerta da Siegel, tagliata da una solista concisamente liquida e da un ilare kazoo. Laddove North Austin Strut è Janis Joplin che si pacifica in un alveo di echi fifties ed Ebeneezer immagina una versione tzigana dei Jefferson Airplane.

Ancora: l’inquieta, esotica ballata Song For Peace incarna l’apice con l’episodio più autenticamente psych del programma e Come With Me si porge nervosa però pure armonica tra incastri tra batteria e archetto; se Good Time (Parker l’autore) delizia di incongruo e favolistico pop barocco, Kaleidoscoptic tira le fila con decisione spruzzata di mestizia. Non se ne accorge quasi nessuno di tanta bontà: succede che Jim Franklin, grafico di fiducia del gruppo, piazza in un angolo della confezione la minuscola scritta “passera”, qualcuno la nota, il disco viene censurato e reimmesso sul mercato con immaginabili conseguenze. Una risata ci seppellirà, fratelli. Ascoltatela riverberarsi nell’aria insieme a Song For Peace e, come direbbe David Crosby, lasciate sventolare la bandiera freak…

Afro-Haitian Experimental Orchestra

Per fortuna Tony Allen non è più solo l’attempato signore seduto alla batteria in The Good, The Bad & The Queen. Nulla di male in ciò e anzi tutto di guadagnato, perché le collaborazioni con Damon Albarn sono servite, oltre a regalarci una splendida ipotesi di Ray Davies etno-dub, a espandere la cerchia degli estimatori di un prodigio che fu battito ipnotico e muscolare di Fela Kuti sino al litigio del 1978. Dobbiamo rendere grazie anche a costui se quelle cicliche e ciclopiche partiture ritmiche si sono infiltrate in tanta musica che ci gira attorno.

Eventuali scettici si procurino Afro Disco Beat, spettacolare compendio uscito per Vampisoul qualcosa meno di un decennio fa: vi rinverranno ipotesi di Talking Heads e Can che, durante un rave nella giungla, incontrano James Brown e si lanciano in mantra stratificati ma swinganti, in omaggi al Miles Davis più “out”, in sarabande di ottoni e in tanto altro ancora. Una profusione di idee e genio da scoperchiare il cranio che Allen ribadiva lungo gli anni zero per meglio sottolinearne la modernità; quanto il nostro uomo sappia essere “classico” però pure attento all’attualità ce lo ricorda oggi la Afro-Haitian Experimental Orchestra, estemporaneo progetto intestatario dallo scorso giugno di uno splendido disco.

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Un disco che ci siamo quasi persi a causa della sua natura, che è quella di un figlio dell’ispirazione colta sul momento. A far breve una vicenda avventurosa e singolare, due anni e rotti or sono la direttrice del French Institute di Haiti, Corinne Micaelli, invitava sull’isola Tony per un concerto con musicisti locali. Spettava a Erol Josué – strumentista, danzatore, direttore dell’ufficio nazionale di etnologia e, ehm, predicatore vudù… – radunare cantanti e percussionisti di vaglia che restituissero i diversi “sapori” sonori del paese.

Per cinque giorni, costoro e il gruppo di Allen buttavano giù e provavano il canovaccio dell’esibizione, tenuta sulla piazza principale di Port-au-Prince in diretta radio nazionale finché il lancio di una tanica di gas lacrimogeno non la chiudeva anzitempo. Nonostante ciò, Mark Mulholland, chitarrista dell’Orchestra, ricorda con gioia l’avvenimento e le prove, palingenetico caos con decine di persone pigiate in una stanza a leggersi nel pensiero sotto la direzione del bassista Jean-Philippe Dary. Sfortunatamente non fu possibile registrare il concerto, così che – un po’ Teo Macero e un po’ Holger Czukay – il diligente Mulholland passava poi al vaglio i nastri delle prove e incideva nuove tracce vocali.

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Quello stesso anno, a Bamako Mark si imbatteva in Chris Eckman dei Walkabouts e gli raccontava l’accaduto: entrava in scena la Glitterbeat, sponda “terzomondista” della benemerita Glitterhouse, ed ecco fatto. Sappiate allora che in Afro-Haitian Experimental Orchestra le lunghe jam che all’epoca assunsero forme gradualmente più compiute sono state rifinite con mano per nulla invasiva. C’è tuttavia un altro segreto e il suo nome è linearità: non una nota di troppo, qui; mai uno strumento che si perda per strada o si trattenga oltre il dovuto. Tutto fluisce compatto, a pieno vantaggio di un (poli)ritmo che presto si trasforma in un immaginario ponte innalzato sulle sponde dell’Atlantico.

Con la mente intravedi un popolo che si ricongiunge alla propria cultura originaria lungo una trance che spazia lungo i millenni e le sofferenze, e, unificate le terre, immagina un (retro) futuro ancora da scrivere. Cerebrale e nel contempo fisico, Afro-Haitian Experimental Orchestra è dunque qualcosa di unico ed entusiasmante che occorre sentire nell’insieme, ma dal quale – giusto allo scopo di ingolosirvi – estraggo la sognante e sospesa Mon Ami Tezin e l’innodia percorsa da folate elettroniche di Salilento, una reinvenzione di Remain In Light chiamata Bade Zile e la psichedelia tribale di Chay La Lou. Hey, siete ancora qui?