C’è stato un momento, pressappoco all’alba dei Novanta, in cui il mondo ha preso a correre velocissimo. Dentro la nostra gabbia quotidiana ci sentivamo criceti e leoni: volevamo scendere dalla giostra, ma a trattenerci era l’annuncio di un futuro così luminoso che – cantavano satiricamente pochi anni prima i Timbuk 3 – avremmo dovuto portare gli occhiali da sole per guardarlo. Non è andata così. Tutto è franato un giorno di settembre del 2001, benché il gioco avesse da tempo rivelato la sua natura. Le carte erano truccate. Ci avevano fottuto. Di nuovo. Tuttavia, una ciambella di salvataggio galleggiava intorno a noi. Nella musica c’era chi andava controcorrente rallentando le cadenze, rarefacendo i suoni, tagliando con robusto minimalismo canzoni giunte nel nostro giardino segreto.
Canzoni simili ai racconti di Raymond Carver, dove pare che non accada nulla e invece, sotto la superficie dell’apparenza, in punta di piedi ti assalgono cento sfumature. Ho provato a inanellarle brevemente, lungo un percorso appropriatamente vago e confuso, siccome questi sono discorsi del cuore per eccellenza e l’emotività senza freni ha un prezzo. Quest’ultima infonde vita a dischi che confortano come una passeggiata tra brume autunnali, ad attimi in cui sei cullato però pure scosso da risacche, bordoni, sussurri più rumorosi delle grida. Lo slowcore è un rifugio sonoro dell’anima, un momento di introspezione oscillante e precaria ma sincera.
Ho scritto “Novanta”, nondimeno c’è un punto più lontano in cui si gettano dei semi. Sono le lamine sottili di Velvet Underground, tra il folk urbano (e)statico delle Candy Says e Pale Blue Eyes, delle Jesus e I’m Set Free che rispondevano all’elettroshock White Light/White Heat. Risalgo lo scaffale fino al White Album, Capolavoro misto dello scibile rock disponibile e di futuristici slanci in un clima di stridori e inquietudini: sul lato A del secondo vinile, il fragoroso hardcore-punk Helter Skelter si spegne su una danza di spettri che è tra gli apici di George Harrison. La lenta melanconia di Long, Long, Long propaga brividi nell’aria con il riverbero finale di un’anima che contempla se stessa.
Poco dopo, dall’altra metà del cielo, Yoko Ono risponde con la Listen, The Snow Is Falling poi riletta dai Galaxie 500, mentre i Big Star di Third/Sister Lovers si confronteranno con abissi trafitti da schegge di sole in Holocaust, Blue Moon, Kanga Roo. Nel mezzo, Neil Young pubblica il modernissimo On The Beach, dove nella title-track fa i Karate meglio dei Karate con due decenni di anticipo. Rivela anche di aver bisogno di una folla di gente, ma di non poterla affrontare di giorno in giorno. Prenderà la strada per allontanarsi, anche se non sa dove.
E’ un passo chiave. La fuga temporanea serve a sospendere i giudizi e a ritrovarsi per sfuggire categorie troppo rigide. Ognuno ha un sistema: negli ‘80 alcuni riscrissero la psichedelia in meraviglie che oggi tornano spesso, ad esempio nel dream-pop più nobile. David Roback, asperse polveri iridescenti con Rain Parade e Opal, con la cantante Hope Sandoval tratteggia nei Mazzy Star marmorei incantesimi che dipingono il velluto newyorchese di venature paisley. Materia bellissima da accostare per importanza e valore a The Trinity Sessions, che consegna alla storia i fratelli canadesi Timmins (Margo, una Nico delle praterie; Michael, chitarrista e autore; Peter, batterista: insieme si chiamano Cowboy Junkies).
In una chiesa di Toronto basta un giorno per immortalare tremuli country-blues da prime ore del mattino, riscrivere classici (Walkin’ After Midnight, Dreaming My Dreams With You, Sweet Jane) che legano i Velvet a Hank Williams e porgere autografi come To Love Is To Bury e Misguided Angel. Magici come le circostanze che li plasmarono e come la coeva mistura di new wave e sixties giustappunto perfezionata dai Galaxie 500 in ballate acidule, crescendo e tessiture chitarristiche già di gusto post. Di tre favolosi LP, soprattutto On Fire possiede stupore (solo a prima vista) letargico che farà proseliti.
Anni di mutazioni, quelli, in cui anche il cantautore si scompone dentro/dietro un alter ego: Mark Eitzel indica la via e riscrive la tradizione con gli American Music Club (da avere almeno California e Mercury) giocando a nascondino col pubblico ma non con i sentimenti. Così che, quando appariranno Spiderland e Frigid Stars, provando a battezzare la quieta rivoluzione qualcuno escogiterà la definizione che sapete. Palesando come Slint e Codeine non soffocassero affatto l’emotività, ma la tenessero alla giusta distanza per meglio affrontarla in un teatro di palpiti rallentati e collere momentanee, reagendo – nel caso dei Low, dichiaratamente – a certo roboante grunge d’accatto e a troppo finto indie. Ecco lo snodo dove le onde crescono raccolte. Dove l’attenzione è colta abbassando il volume.
Andando in tal modo contro un cliché – avete presente “Spinal Tap”, no? – allorché il rock già viveva un possibile dopo, nel quale sonorità scheletriche confinano con il sadcore fino a cancellare la demarcazione. Maestri i succitati Low che, dal freddo e taciturno Minnesota, intessono una discografia immacolata (pescate I Could Live In Hope o Long Division, prodotti da Kramer, già braccio destro dei Galaxie 500; poi i più maturi The Curtain Hits The Cast e Secret Name) di una lentezza e un minimalismo progressivamente “aperti” senza smarrire intimità, sia negli stupendi Things We Lost In The Fire e Trust che in opere successive, più elaborate ma pur sempre belle con anima. Acquerelli cui non levi una nota o un soffio di rullante come The Blue Moods Of Spain, bagliore ineguagliato dall’artefice stesso Josh Haden a/k/a Spain ispirandosi al retaggio jazz di famiglia, al soul, al Buckley navigatore stellare.
Singolare assai anche Mark Kozelek, l’uomo taciturno dietro Red House Painters e Sun Kil Moon. Capace di comparire defilato nel film “Quasi Famosi” di Cameron Crowe e rifare in acustico gli AC/DC, pubblicava nel ’93 con il primo alias una splendida coppia di LP omonimi. Di pregio anche il resto della produzione prima di un progressivo esaurirsi della vena tra sovrapproduzione e perdita di smalto, benché il primo disco – uscito in maggio e soprannominato Rollercoaster per la foto in copertina – rappresenti il vertice di un’arte cristallina, virilmente mesta; l’altro, pubblicato in autunno e noto per la medesima ragione come Bridge, ha il merito di avvolgere in moviola I Am A Rock, peana all’isolamento come forma di autodifesa vergato da Paul Simon. E’ un cerchio chiuso assai significativo: prima dell’avventura Sun Kil Moon (qui gli apici si chiamano Ghosts Of The Great Highway e Benji) Kozelek stava erigendo un ponte per legioni di devoti. Tra costoro, il californiano Jeff Martin – ovvero Idaho – vanta classe e gusto che trovano completezza in Three Sheets To The Wind, asso da calare accanto ai più spettrali Spokane, guidati da Rick Alverson in Little Hours lungo un dedalo di sottolineature cameristiche e sofferto ponderare.
A metà ’90 invece Paula Frazer dei Tarnation definisce in Gentle Creatures arazzi di tremolii vocali e twang country che insegneranno un paio di cose a Marissa Nadler, tra gorgheggi strappati al cielo e le slide decelerate perfette per i sogni che David Lynch tramuta in incubi. Di allora ricordo altri scontri col passato: gli Acetone che nel mini I Guess I Would lacerano in psichedelia decelerata Border Lord di Kris Kristofferson; i losangelini Radar Bros., che tinteggiano la sorridente e oppiacea rilassatezza dei Pink Floyd del primo dopo-Barrett (penso soprattutto all’incantevole estasi di Fearless) con i pastelli di Brian Wilson e le tonalità seppiate loro contemporanee; i Karate, bravi per tre album di meditazioni emocore e poi persi in irritanti solipsismi; i Bedhead che, recanti sin dal nome la pace torpida del Texas provinciale, dipanano intimista e fascinoso math-rock.
Fasciato di confortante melanconia, lo slowcore è musica da cameretta che piacerebbe al protagonista del brano di Simon, recluso e trincerato dietro libri e dischi. Però, siccome tutti crescono, anche lo “stile lento” è uscito dal guscio per confrontarsi col mondo e con le radici. Per esempio i misconosciuti Souled American, pionieri dell’Illinois che a fine ‘80 dilatavano country e folk dentro orizzonti sonnacchiosi e narcolettici. Album culto come Fe, Flubber e Around The Horn sono di certo noti ai Rex, crocevia tra i R.E.M. bucolici, i Codeine (da lì proveniva il batterista Doug Scharin) e Red Red Meat. Questi ultimi sono in parte ospiti del loro 3, scrigno meraviglioso che scalda sin nell’angolo più recondito.
Toccando le corde smosse dal post-folk umanista di Ghost Tropic, testamento artistico di Jason Molina, uscito nel 2000 a nome Songs: Ohia e inciso nel “fatidico” Nebraska affidando il retaggio sonoro del Grande Paese a un limbo di ipnotiche meditazioni ambientali. Anima lacerata, Jason se ne andava nemmeno quarantenne vittima dell’alcolismo. In lui riconosco un’anima che non è riuscita a scappare dal proprio destino e dai propri fantasmi. Fantasmi che altri hanno viceversa esorcizzato, forse fuggendo per un po’ e poi tornando ad affrontare una folla di gente ogni giorno. A volte, purtroppo, le canzoni non bastano per salvare una vita dal tormento. E così sia.
Bellissimo ! ! !
Complimentoni. Gli unici dischi che non ho sono quelli dei Souled American. Dovrò subito approfondire…
Grazie.
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Complimenti per il post, molto interessante e devo dire che spieghi bene e mi inviti a conoscere alcuni gruppi di cui so solo il nome. Trovo molto appropriato On the beach di Neil Young oltre ai “soliti” Velvet Underground.
Ho preso nota di alcuni nomi.
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Grazie per il ricordo affettuoso del grande Jason Molina!
Ah!”The Trinity Sessions”… che disco immenso.
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Bellissimo pezzo, unica nota che mi permetterei di aggiungere è su Jason Molina, il suo capolavoro da avere assolutamente è “the lioness”, seguito a ruota da “magnolia electric co.”. Due album diversissimi che rappresentano l’apice di quello che aveva prodotto prima e di quanto realizzerà dopo.
Visto dal vivo a Roma, solo chitarra e voce. Indimenticabile.
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Che pensi invece di “Ghost Tropic”, che per me è il suo apice (seguito da “the lioness”) ?
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Ghost Tropic, a parer mio, non ha la varietà di arrangiamenti, di soluzioni melodiche e di ritmo che possiedono gli album che ho citato. Diversi pezzi suonano monotoni.
La voce spicca cristallina e dolente, come sempre, ma il lavoro, già abbastanza centrato, sembra di eccessiva sottrazione. The lioness, invece, ha tutti pezzi memorabili, in esso la sua maturità compositiva e gli arrangiamenti si esprimono al massimo, il suono ne esce arricchito. È una rabbia trattenuta, permeata di sofferenza e di un senso di irrequietezza, di qualcosa che sta per accadere ma non deflagra mai e quindi non trova mai appagamento. Un capolavoro assoluto. Fantasmi di cui si libererà forse per poco nel successivo “magnolia electric co.”, circolare, intenso, lirico e cupo, in una parola bellissimo.
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Tieni inoltre conto che serviva un album che fosse attinente all’ambito – comunque ampio – dello slowcore. Per questo mi è parso perfetto scegliere “Ghost Tropic”, che per me resta un disco roots-ambient notevolissimo; poi, ecco, se vogliamo le canzoni ad anima scarnificata, vince “The Lioness”. Le cose a nome Magnolia Electric Co. mi piacciono abbastanza ma sono un po’ troppo tradizionaliste (poi magari le rivaluto, eh).
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Convengo che la scelta per cui hai optato sia perfettamente attinente al genere che hai deciso di trattare, in maniera tra l’altro molto particolareggiata, competente e con una scrittura al solito interessante e mai stancante. Peccato che rimanga inevitabilmente musica per pochi. Gli altri album a nome Magnolia Electric co. anch’io ritengo che abbiano poco da aggiungere in quanto si rifanno a standard già sentiti altrove. È una musica normalizzata.
Diverse canzoni notevoli sono presenti anche nel primo dei cd, intitolato “nashville moon”, che compongono il cofanetto “sojourner”. Concludo girandoti la frase che lui mi ha lasciato sul libretto del cd che custodisco gelosamente: “thank you for keeping this music alive”.
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