Acid wonderland: la psichedelia modernista dei Plasticland

Un trentennio abbondante dopo i fatti e sulla neo-psichedelia degli ’80 ancora si discute. Di nuovo in auge grazie a Black Angels, Warlocks e compagnia bella e schitarrante, in realtà quel fantastico mutaforma che amo definire acid style non è mai svanito da che ci lanciavamo in animate polemiche su “recuperi” più o meno creativi. Col dovuto distacco, oggi il quadro pare più ampio e bravo il collega Roberto Calabrò nell’escogitare la definizione neo-sixties: solo così contestualizzi adeguatamente e meritatamente chi, allo sfiorire della new wave, pescava nella memoria idee da adattare al presente.

E se talvolta fu revival e basta, bene lo stesso, ché altrimenti una certa tradizione si sarebbe perduta in era pre-internet. Non in questo specifico caso, poiché in mezzo alla California del Paisley Underground e ai garage newyorchesi si stendevano miglia di provincia dove il decentramento favoriva un approccio personale. Esempi a poli opposti di notorietà la Athens dei R.E.M. e Milwaukee, dimora degli alchimisti di Plastilandia.

plasti paisley

Autentici temerari nei primi Settanta John Frankovic (basso) e Glenn Rehse (voce, tastiere, chitarra), allorché nella città dei birrifici e di “Happy Days” mischiavano psichedelia, jazz e rumore come William The Conqueror. Uno adora Canterbury e il krautrock, l’altro ha numi tutelari in Blue Cheer, MC5 ed S.F. Sorrow e in tale eurocentrica mescolanza trovo molta singolarità futura. L’hard rock li spinge a reagire ripartendo con gli ostici Arousing Polaris, i quali chiudono bottega a inizio 1980. In estate rinascono Plasticland e Mink Dress/Office Skills – primo di cinque 7” autoprodotti – infila il lato A tra Tomorrow, July e Pink Floyd mentre il retro fonde stridori e melodia in scia a Soft Boys e Television Personalities.

Nel maggio 1981 l’EP Vibrasonics From Plasticland offre elaborate cartoline acide ed ecco arrivare la sei corde di Brian Ritchie. Ammiratore di lungo corso, Brian suona soltanto nel popedelico, orientaleggiante e imperdibile Color Appreciation/Mushroom Hill dell’aprile ’82 e poi forma i Violent Femmes. Lo rimpiazza l’abile Dan Mullen e, malgrado il costante valzer di batteristi, i Plasticland impressionano per l’eclettismo e la preparazione superiori lasciate in dote dall’età e dalla lunga gavetta.

plasticland

Suggello della prima fase l’EP Pop! Op Drops (apici lo scontro Bo Diddley/Tomorrow di Garden In Pain e il basso energico sotto al derapante fuzz in Drive Accident Prone) e il garagismo pastello di Euphoric Trapdoor Shoes/Rattail Comb. Nel 1984 infatti Glenn e John convincono la francese Lolita ad assemblare un 33 giri ripescando buona parte di quanto sopra (potete recuperare il materiale escluso con demo e rarità sul consigliato CD Mink Dress And Other Cats). Nonostante la logica e lieve disorganicità, Color Appreciation vanta una scrittura stravagante priva di forzature e radici messe in policromia su bianco rileggendo Pretty Things e Pinkerton’s Assorted Colours.

Plasticland sarà la versione per la madrepatria con la scaletta ritoccata: pubblica la Pink Dust, sottomarca Enigma che l’anno seguente piazza sotto il vischio il “vero” debutto Wonder Wonderful Wonderland. Suoni pastosi e produzione accurata incorniciano la filastrocca Don’t Let It All Pass Bye e la spigliata Flower Scene, il prestito dai Can Grassland Of Reeds And Things e il fumigare di Gloria Knight, la title-track dove Brian Wilson si aggira impaurito e una Transparencies, Friends dove perfino scorgi gli Stereolab.

plasti salon

Saldato il conto con El Syd rifacendo Octopus sul tributo Beyond The Wildwood, tre decenni or sono Salon conduceva le sonorità in una dimensione un po’ più terrena. Scherzosamente annunciato come “Motown oriented”, sistema in tralice le nervature black escogitando il frizzante beat Go A Go-Go Time e il Beefheart moderno di Don’t Antagonize Me, l’immaginifico freakbeat It’s A Dog’s Life e i trip maligni A Quick Commentary On Wax Museums e We Can’t. Per tacer delle Reserving The Right To Change My Mind e House che, calcando la mano su esecuzione e sonorità, preconizzano i Black Angels maturi. Sogno o son desto?

Immediato il declino a fine decennio: fiacchi i live su Midnight You Need A Fairy Godmother con Twink e Confetti, dimesso il commiato in studio Dapper Snappings uscito postumo nel ‘94. In parallelo alle carriere soliste dei leader, la sigla coprirà una sporadica attività dal vivo dal 2008 portata avanti dal solo Rehse più comprimari. Passo oltre consigliando ai pigri l’antologia Make Yourself A Happening Machine. Per la plasticmania basterà loro un ascolto. Parola d’onore.

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African Head Charge: world dub explosion!

Tra Giamaica, Africa e Albione si dipana una fitta rete di influenze che quel genio di Adrian Maxwell Sherwood ha dispiegato benissimo con il marchio ON-U Sound. Soprattutto tramite African Head Charge, Dub Syndicate e New Age Steppers, formazioni che plasmarono il futuro passando per lo più inosservate a causa del famigerato gusto medio non ancora pronto. Guardandosi indietro, Adrian di rabbia ne avrebbe, ché l’unica cosa mancata alla sua creatura – così unica che la si considera uno stile a sé; così tipica che nei ‘90 i negozi inglesi avevano una sezione a essa dedicata; così “avanti” che le uscite recavano impressa una data di dieci anni posteriore: nessuna presunzione – è giustappunto il successo.

Intendo il successo di allievi straordinari come Massive Attack, inconcepibili senza questo crossover stilistico e vocazionale figlio dell’apertura mentale del post-punk. Lo stesso per Screamadelica e Millions Now Living…, per le dilatazioni degli Him e le cupezze illbient. Per Orb e XX, come no. Autentico monumento sonoro al multiculturalismo, la ON-U Sound precorse il nostro oggi intrecciando passato e presente: con l’unione fra tribalismo e tecnologia, fra atavici rituali e moderne ansie, gli African Head Charge ne incarnano l’anima più profonda. Gli scettici si procurino Environmental Holes & Drastic Tracks, box che l’anno scorso ne raccoglieva i primi quattro lavori aggiungendo un dischetto di rarità e inediti. Avranno di che stupirsi. A lungo.

Bonjo and Adrian

Galeotti Brian Eno e David Byrne… La scintilla un intervista con l’ex Roxy in cui si colse la frase “visione di un’Africa psichedelica” a proposito di My Life In The Bush Of Ghosts, Capo d’opera che scoperchiò i cervelli di Mr. Sherwood e Bonjo Iyabinghi Noah, ovvero il rastaman Burnell Ralston Anderson giunto a Londra a fine ’60 con un talento per le percussioni nyabinghi. Costui sgobba per Dandy Livingstone e milita nei Foundations finché un amico lo introduce nell’estrema sinistra del reggae britannico, dove conosce Adrian, intento a fondare un’etichetta lontana dalle convenzioni. Bonjo suona con svariati nomi della scuderia e acquisisce sicurezza, poi con il mixologist vara gli African Head Charge, ensemble “aperto” perfetto per allestire lunghe jam nel Berry Street, studio di Adrian che è l’autentico buco sottoterra spiritosamente omaggiato sull’LP d’esordio e utilizzato come strumento a tutti gli effetti.

Fortuna vuole che quella tana possegga una peculiare risonanza, una sorta di cupezza trafitta da tiepidi raggi di sole che impediscono alle atmosfere di diventare eccessivamente tetre. Questo uno dei segreti, gli altri essendo immaginazione, estro e lo sperimentalismo naturale scaturito da anime affini. Ricetta esibita nell’81 aprendo My Life In A Hole In The Ground con Elastic Dance: battito minimale danzabile e scacciapensieri che ronza su un’onda anomala di synth la rendono attualissima come la Far Away Chant cantata da Prince Far I, un’ipnotica Family Doctoring e la cantilena Stebeni’s Theme. Riferimenti trasfigurati: Albert Ayler in Stone Charge, il Bosforo per Primal One Drop, l’eco robusta di Soon Over Babaluma dentro Hole In The Roof.

AHC box

Dodici mesi ed Environmental Studies approfondisce la fusione tra dub e impro. Il parterre di musicisti – tra gli altri: l’esperto batterista Style Scott, Steve Beresford, l’ex Pop Group Bruce Smith – spiega l’attitudine generale e la persuasività del mutant-rocksteady Beriberi, della cinematica Crocodile Hand Luggage, del maestoso orientaleggiare di Dinosaur’s Lament, del jazz libero High Protein Snack. Terzo album in altrettanti calendari, Drastic Season è inciso ai Southern Studios avvalendosi del digitale: il suono si spezzetta viepiù in un taglia e cuci burroughsiano, acuisce gli spigoli (splendida eccezione l’estasi davisiana Fruit Market) avventurandosi in territori ostici o alien(at)i. Alle azzeccate ipotesi di Pere Ubu afro-caraibici replicano lo scintillante apocrifo Can di Timbuktu Express e una disturbata Depth Charge.

Conscio di non potersi spingere oltre senza incappare nell’autismo, il gruppo volta pagina approdando sul palco e a vibranti suggestioni etniche. A un lustro dall’esordio Off The Beaten Track disegna paesaggi di dub tribale multi-mondista che faranno scuola. Il ritmo accoglie linearità e l’ipnosi emerge dall’intersecarsi tra percussioni, loop e campionamenti. Nell’aria profumata d’India dalla title-track e abitata da eccelse sarabande stonate, vibrano una Language & Mentality che assolda Albert Einstein nel ruolo di MC, il didgeridoo di Down Under Again, la filmica Some Bizarre e il violino tzigano che percorre Over The Sky.

AHC Praise

Nessun seguito fino al 1990, l’attesa ripagata dal sublime Canto Libero di Songs Of Praise. Insieme terrigno e mistico, integra registrazioni sul campo a un pulsare ritmico-melodico che sottrae l’etnomusicologia a musei e accademie. In Cattle Herders Chant una chitarra highlife si annoda alla chiamata e risposta vocale, Orderliness, Godliness… e My God sono reggae tutti giungla e chiesa, Hymn immagina Paul Simon nelle pieghe di Sandinista!. Ancora: Free Chant caracolla su spiagge brasiliane, Hold Some More trattiene la sabbia del Ténéré, Gospel Train e Chant For The Spirits preconizzano il blues contaminato di quei Little Axe che proprio da una costola degli Africani nasceranno.    

Al capolavoro risponde nel ‘93 In Pursuit Of Shashamane Land, completando con somma eleganza l’arrotondamento delle forme. Dopo di che Bonjo mette su famiglia in Ghana e pubblica senza Sherwood per i problemi economici attraversati dalla On-U Sound. Tuttavia la magia latita e il duo si ritrova nel 2005: African Head Charge sono in tour con gli Asian Dub Foundation, Adrian troneggia alla consolle e si confeziona Visions Of A Psychedelic Africa, fuori cinque anni dopo tallonato nel 2011 da Voodoo Of The Godsent. Intatte classe e bellezza, entrambi si esprimono con linguaggi che provengono dal passato e restano tuttora futuristici. Incredibili a dirsi, meravigliosi ad ascoltarsi.

Angeli Neri in oceani di suono

Gli antichi romani ritenevano che nel nome si celasse la premonizione del destino di ognuno. Per convincermi della validità di questa credenza in ambito rock mi basta pensare ai Black Angels, sogno divenuto realtà dove le cose sono tuttavia più complesse di quel che appare. Per fare un grande gruppo, infatti, non bastano la ragione sociale ammiccante, i loghi e le grafiche altrettanto, un aspetto dimessamente cool. Grande devi esserlo: non c’è provare.

Chiudo il momento “Maestro Yoda” ricordando che la formazione di Austin ha dimostrato di saperla lunga nel peregrinare in quattro decenni di suoni. Che i suoi viaggi avvengano in lande conosciute, nel 2017 conta zero per motivi che tanti hanno spiegato meglio del sottoscritto. Il quale considera gli Angeli Neri attuali nella misura in cui poggiano sul distacco temporale e il profondo senso della storia un talento che incrocia Elevators e Velvet, new wave e garage, minimalismo psichedelico e sixties pop.

The Black Angels

La musica pura occupa il centro pulsante dell’universo abitato da questi discendenti dei Brian Jonestown Massacre. In quel vortice, “guardare indietro” significa “guardarsi attorno” per scegliere Maestri di classe, genio, equilibrio e aggiungere qualcosa al canone. Pertanto, a differenza degli ultimi Tame Impala, i texani sono al sicuro dal kitsch e lo sottolinea la disinvoltura con la quale hanno condotto l’autodefinito – in maniera suppongo sarcastica, ma assai acuta – modern vintage sound lungo policrome variazioni sul tema senza sottomissioni ai modelli o svilimenti.

Attraverso la potenza sincretica di Passover e il manifesto/capolavoro Directions To See A Ghost, un Phosphene Dream spedito nelle chart e il pop corros(iv)o di Indigo Meadow, il percorso era sinora immacolato. Lo rimane. Death Song – titolo che chiude il cerchio citazionista, produzione e mixaggio affidati all’esperto Phil Ek – conferma un ensemble che conosce il segreto per far durare tanto un bel gioco. Che del suo linguaggio indaga le pieghe, le varianti, le possibilità. Che esplora ancora all’interno di un perimetro ampio ma definito. Pare roba da nulla e invece rappresenta la spina dorsale di un disco eccellente che prosegue con coerenza un’evoluzione di passi piccoli ma saldi.

black angels cover

Non stupisce per il mero gusto di farlo, Death Song. Preferisce cimentarsi con testi a volte legati all’attualità politica, sfoggiando una mano esecutiva ruvida e una penna scintillante volte a rafforzare la bruma acidula da cui l’orecchiabilità emerge poco alla volta: così Half Believing vanta stimmate Echo & The Bunnymen, I’d Kill For Her sparge zolfo e caligine sugli Yardbirds – e sui Pixies, certo che sì… – di Evil Hearted You, Grab As Much (As You Can) maneggia la pigrizia visionaria e sexy degli Shiva Burlesque.

Il resto ce lo mettono atmosfere cupe e/o fumiganti (Death March, Comanche Moon, Currency), esperimenti riusciti (Hunt Me Down e I Dreamt sono Roky Erickson ostaggio di Can e primi Pink Floyd; la fenomenale Medicine spolvera con chitarre western e garage lisergico un incedere disco funk), ballate ombrosamente struggenti (la sublime e chiesastica Estimate; Life Song: Syd Barrett che entra nei ’70 indenne scortato dai Grandaddy). Nella testa piacevolmente stordita mi balena un’idea: se fossimo al cospetto dei Mudhoney della neo-neo-psichedelia? Da devoto seguace di Mark Arm e compagni mi balocco con l’idea, tuffandomi per l’ennesima volta dentro al maelstrom. Ci vediamo dall’altra parte!