Angeli Neri in oceani di suono

Gli antichi romani ritenevano che nel nome si celasse la premonizione del destino di ognuno. Per convincermi della validità di questa credenza in ambito rock mi basta pensare ai Black Angels, sogno divenuto realtà dove le cose sono tuttavia più complesse di quel che appare. Per fare un grande gruppo, infatti, non bastano la ragione sociale ammiccante, i loghi e le grafiche altrettanto, un aspetto dimessamente cool. Grande devi esserlo: non c’è provare.

Chiudo il momento “Maestro Yoda” ricordando che la formazione di Austin ha dimostrato di saperla lunga nel peregrinare in quattro decenni di suoni. Che i suoi viaggi avvengano in lande conosciute, nel 2017 conta zero per motivi che tanti hanno spiegato meglio del sottoscritto. Il quale considera gli Angeli Neri attuali nella misura in cui poggiano sul distacco temporale e il profondo senso della storia un talento che incrocia Elevators e Velvet, new wave e garage, minimalismo psichedelico e sixties pop.

The Black Angels

La musica pura occupa il centro pulsante dell’universo abitato da questi discendenti dei Brian Jonestown Massacre. In quel vortice, “guardare indietro” significa “guardarsi attorno” per scegliere Maestri di classe, genio, equilibrio e aggiungere qualcosa al canone. Pertanto, a differenza degli ultimi Tame Impala, i texani sono al sicuro dal kitsch e lo sottolinea la disinvoltura con la quale hanno condotto l’autodefinito – in maniera suppongo sarcastica, ma assai acuta – modern vintage sound lungo policrome variazioni sul tema senza sottomissioni ai modelli o svilimenti.

Attraverso la potenza sincretica di Passover e il manifesto/capolavoro Directions To See A Ghost, un Phosphene Dream spedito nelle chart e il pop corros(iv)o di Indigo Meadow, il percorso era sinora immacolato. Lo rimane. Death Song – titolo che chiude il cerchio citazionista, produzione e mixaggio affidati all’esperto Phil Ek – conferma un ensemble che conosce il segreto per far durare tanto un bel gioco. Che del suo linguaggio indaga le pieghe, le varianti, le possibilità. Che esplora ancora all’interno di un perimetro ampio ma definito. Pare roba da nulla e invece rappresenta la spina dorsale di un disco eccellente che prosegue con coerenza un’evoluzione di passi piccoli ma saldi.

black angels cover

Non stupisce per il mero gusto di farlo, Death Song. Preferisce cimentarsi con testi a volte legati all’attualità politica, sfoggiando una mano esecutiva ruvida e una penna scintillante volte a rafforzare la bruma acidula da cui l’orecchiabilità emerge poco alla volta: così Half Believing vanta stimmate Echo & The Bunnymen, I’d Kill For Her sparge zolfo e caligine sugli Yardbirds – e sui Pixies, certo che sì… – di Evil Hearted You, Grab As Much (As You Can) maneggia la pigrizia visionaria e sexy degli Shiva Burlesque.

Il resto ce lo mettono atmosfere cupe e/o fumiganti (Death March, Comanche Moon, Currency), esperimenti riusciti (Hunt Me Down e I Dreamt sono Roky Erickson ostaggio di Can e primi Pink Floyd; la fenomenale Medicine spolvera con chitarre western e garage lisergico un incedere disco funk), ballate ombrosamente struggenti (la sublime e chiesastica Estimate; Life Song: Syd Barrett che entra nei ’70 indenne scortato dai Grandaddy). Nella testa piacevolmente stordita mi balena un’idea: se fossimo al cospetto dei Mudhoney della neo-neo-psichedelia? Da devoto seguace di Mark Arm e compagni mi balocco con l’idea, tuffandomi per l’ennesima volta dentro al maelstrom. Ci vediamo dall’altra parte!

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