It’s shoegazing again

A volte ritornano e magari c’è da rabbrividire. Confesso di essere sempre un po’ meravigliato dal fascino che lo shoegaze esercita sulle nuove generazioni. Poi ricordo che le voci sognanti, il melodiare paradisiaco, l’impasto tra feedback e pulviscolo sonico effettato impressero una certa ventata di novità sulla scena albionica; e che la decostruzione chitarristica in un ordito qui rumorista e là gassoso ha senz’altro influito sul nascente dopo-rock e sul superamento della concezione “classica” di riff e assoli. L’influenza emersa a distanza mostra inoltre che esso non fu faccenda così monocorde come troppo spesso si è scritto. Anzi: in retrospettiva pare una cerniera tra i sussulti finali della neo-psichedelia anni ‘80 e le montanti avanguardie “post”. E infine fidatevi: le diatribe postume sull’attribuzione di questo o quel nome a un genere sono un buon segno.

Slowdive now

Tolti i noiosi mestieranti e i più post-psichedelici che altro, al suo centro pulsante osservo i Maestri A.R. Kane, Cocteau Twins e My Bloody Valentine fare (la) Storia a sé mentre Breathless e Boo Radleys si pongono da venerati progenitori e talenti policromi. Resta un pacchetto (anche qui con dei distinguo: ve lo dicevo che è una questione complessa!) composto da Curve, Lush, Sundays, Swervedriver, Slowdive e Ride. L’ultima coppia è perfetta per spiegare la contemplazione delle scarpe e i suoi volti distinti, tuttavia complementari come dolcezza e passione nel Vero Amore. Da un lato una psichedelia al caramello zuppa di ambient e melanconia con apici nell’esordio Just For A Day e nei coevi 12”. Dall’altro, un indie-pop lirico e muscolare, che – avvolto in folate chitarristiche da farcelo quasi chiamare “polar rock” – discendeva da How Does It Feel To Feel dei Creation, insegnerà qualche trucco ai Tame Impala ed è stato cristallizzato nel 1990 con l’ottimo primo LP Nowhere e, di nuovo, da un pugno di singoli sontuosi.

Avanti veloce al 2017. Avvolte in un insolito destino, entrambe le band si ripresentano a breve distanza una dall’altra con dischi che non cambieranno la vita ma miglioreranno i giorni di noi “anta-e-oltre”, che siamo pur sempre lo zoccolo duro che tiene in piedi le macerie del mercato discografico. Però anche quelli di chi, più verde l’età, a certi suoni è giunto tramite emuli recenti e in tal modo capirà meglio le sfaccettate radici del contemporaneo dream-pop. Proprio perché di esso si è fatta gran modaiola chiacchiera, ha pienamente senso che Weather Diaries e Slowdive esistano: differenti gli esiti se parliamo di qualità, li accomuna una robustezza espressiva che appartiene a un altro tempo.

ride 2017

Anche per questo Slowdive convince da subito per sonorità stratificate e vigorose a sostegno di una penna che in tralice reca l’anima folk di Neil Halstead. Penna che regala momenti memorabili nella circolare, minimalista efficacia di Slomo e nell’aeriforme mestizia di Sugar For The Pill, nell’eleganza incalzante di Star Roving e nel commiato pianistico Falling Ashes. Ai Pink Floyd anni ’70 modernizzati da Go Get It rispondono le oniriche Everyone Knows e No Longer Making Time e una Don’t Know Why sapiente distillato di essenze Disintegration e Gemelli Cocteau. Si indignano i pasdaran se dichiaro tutto ciò la cosa migliore della formazione dal/col debutto? Credo di no.

Guardarsi indietro per guardarsi attorno. Vale per i Ride di Weather Diaries, prodotto dal dj Erol Alkan e mixato dalla lenza Alan Moulder per un risultato buono benché ineguale. Esaltano la sensazionale Charm Assault (gli House Of Love alle prese col freakbeat) e una Lannoy Point giocata tra sospensioni e slanci motorik; tuttavia Rocket Silver Symphony spreca citazioni di Spiritualized in troppa epica, Impermanence eccede col sentimentalismo e Cali stiracchia un bel folk-rock alla Church. Meglio allora una Lateral Alice che i Black Rebel Motorcycle Club non scriveranno mai più e la White Sands cartolina spedita ai Radiohead mesti e trasparenti di fine secolo. Bene, bravini, sette meno. A volte ritornano e c’è da applaudire.

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L’inquietudine del cantautore solitario: John Murry

Quanto è bello il rock quando con un sorriso ti culla nell’illusione di averle sentite tutte e poi ti svela un talento fino a poco prima sconosciuto. Espletata la formalità del “mea culpa”, peraltro comprensibile nel folle marasma odierno, hai un nuovo tesoro da custodire e che felicità! I lettori di questo blog saranno a conoscenza del fatto che c’è stato un tempo in cui il sottoscritto (coronando un sogno cullato fin dall’adolescenza) collaborava con una nota, gloriosa rivista musicale che nel frattempo è divenuta la succursale hipster di “Vanity Fair”.

Ciò mi permise di intervistare artisti ammirati da sempre, rivelatisi inoltre squisiti dal punto di vista umano. Ad esempio: veri Signori i Breathless, con cui parlai nel novembre di diversi anni fa. Da quella telefonata, Ari Neufeld e Dominic Appleton mi inviano regolarmente graditissimi cadeaux editi sul loro marchio discografico Tenor Vossa ed è stato così che ho scoperto John Murry. In ritardo, che volete farci. Del resto appartiene ad altre epoche anche la maniera con la quale il suo nuovo LP si apre all’ascoltatore.

John Murry

A Short History Of Decay è infatti un autentico slow burner dove abitano Mark Eitzel, Kurt Wagner, Mark Linkous. E’ una faccenda romantica e bella e non potrebbe darsi altrimenti, siccome John – subito glielo leggi, nello sguardo – ha alle spalle una vita che lo ha preso un bel po’ a calci. Con il pizzico di gotico sudista che non guasta, nasceva nel 1979 in quella Tupelo e dite se non è un segno come l’attuale domicilio in Irlanda. Nel mezzo di tutto e di più: una parentela tramite adozione con la famiglia Faulkner, l’autismo non diagnosticato, la folgorazione per Tom Petty.

E poi: un adolescente che si fa le ossa a Memphis, le decine di band, il trasloco a San Francisco per la carriera solista assistito da Chuck Prophet e Tim Mooney, batterista degli American Music Club, infine la tossicodipendenza. Su tutto, un album bello da far male ma bene, The Graceless Age, che nel 2012 incassava gli elogi di “Mojo” e “Uncut” e conteneva una Little Colored Balloons bastante da sola a giustificare una carriera. Il relativo tour era un ulteriore mettersi a nudo, la pelle strappata sera dopo sera sul palco, ma all’improvviso Mooney moriva e di nuovo era il caos a regnare. Quanto costruito con pazienza svaniva: moglie, figlia, l’esistenza intera.

A-Short-history-of-Decay

Per fortuna, lungo la sua traiettoria impazzita Murry si è imbattuto in Michael Timmins, letteralmente folgorato a Glasgow da un’esibizione di spalla ai Cowboy Junkies. Fatta la conoscenza, i due si scrivevano regolarmente e a un certo punto saltava fuori l’idea di un disco. Il resto è cronaca della settimana scorsa: un titolo che omaggia Emil Cioran e dieci canzoni – nove autografe, più una rilettura stellare posta in chiusura di What Jail Is Like degli Afghan Whigs – avvolte con Timmins in arrangiamenti misurati e spontanei.

Canzoni che camminano sicure nel perimetro stilistico di cui sopra senza (s)cadere nella fotocopia, più che altrove nella Silver Or Lead che aggiunge aromi di primi Tindersticks, nell’acusticheggiare alla Springsteen di Wrong Man, nelle trasparenze raccolte dagli Sparklehorse per When God Walks In. Se Come Five & Twenty si porge insieme virile e delicata, Defacing Sunday Bulletins toglie catrame dalla gola di Mark Lanegan e Under A Darker Moon e Countess Lola’s Blues (All In This Together) le vorresti programmate ogni giorno sulle onde FM del globo. Mi piace credere che tu sia una fenice, John. E che non ci deluderai mai.

Desmond Dekker da Kingston alla vetta

Non occorre appartenere ai fan terminali dei Beatles per essersi chiesti almeno una volta chi sia il protagonista di Ob-La-Di Ob-La-Da. Harry Young, estensore nel ’92 delle note di Rockin’ Steady: The Best Of Desmond Dekker, suggeriva tra le righe che si trattasse di questo Desmond. In effetti, McCartney ammise di aver preso titolo e ritornello da una frase che l’amico percussionista nigeriano Jimmy Emuakpor soleva ripetere e si sdebitò con un assegno per l’arcinoto “Ob-la-di ob-la-da, life goes on, bra”, specificando che Desmond pareva un nome assai caraibico. Sommato al fatto che Sir Paul apprezzava Dekker, che quel brano è praticamente uno ska e che in tale materia i Fab Four non erano digiuni, vi lascio trarre qualche conclusione.

Chiudo l’angolo “Sherlock Holmes” rivelando che la suddetta antologia Rhino è uno dei rifugi per quando l’anima necessita di luce ed energia. Pur essendo un valido punto di partenza, non è comunque la più completa delle raccolte dedicate a chi spianò la strada a Bob Marley e mise la Giamaica sulla ribalta pop internazionale. Tale ruolo spetta a Anthology: Israelites, doppio Trojan del 2001 che di Dekker copre la carriera pressoché in toto, nondimeno anche di angoli del cuore si vive.

striped desmond

Che film la vita di Desmond Adolphus Dacres, nato a Saint Andrew, Greater Kingston, il sedici luglio 1941. Da piccolo frequenta la chiesa con nonna e zia e gli inni lo aiutano ad affrontare la morte della madre. A quindici anni si guadagna il pane da saldatore: ringraziate i colleghi che, sentendolo cantare, lo incitano al professionismo. Fallisce le audizioni con Coxsone Dodd e Duke Reid ma va a segno con la Beverley di Leslie Kong, bizzarro personaggio giunto alla musica dall’industria alimentare.

Nonostante l’entusiastico sostegno del campione di casa Derrick Morgan, per un biennio fa anticamera, matura e nel ‘63 ripaga Leslie spedendo l’autografo saltellare di Honour Your Father And Mother in cima alla classifica isolana. Il dado è tratto: Sinners Come Home e Labour For Learning segnano l’adozione del nome d’arte e la mano è vinta da King Of Ska, giubilante attestazione di verità con ai cori i Maytals sotto mentite spoglie. Insegna il rhythm’n’blues che un’ugola suadente rende viepiù se ben sostenuta ed ecco entrare in scena i fratelli Howard, da qui in poi The Aces.

Con loro e la house band dell’etichetta il ragazzo compone e infila un successo dietro l’altro negli estremi della travolgente Get Up Edina e dell’esuberante sentimento di This Woman. Nel ’67 Morgan lo vuole nel 45 giri Tougher Than Tough incentrato sui rude boys, giovani disoccupati che applicano il mito dei malavitosi americani alla dura quotidianità del ghetto. Lo ska prende nota: un po’ per sviluppo naturale e un po’ per agevolare le danze ai rudies, conferisce più spazio al basso, rallenta le cadenze e muta nel rocksteady.

desmond anthology

Estrazione e vocazione tengono il Nostro lontano da lidi proto gangsta però non impediscono a una 007 (Shanty Town) dal placido e irresistibile caracollare di renderlo un’icona in madrepatria e nella proletaria scena mod d’Inghilterra. Affacciatasi colà nei Top 15, essa cagiona una prima visita trionfale mentre si batte il ferro rovente con soul in levare (Keep A Cool Head, Rudy Got Soul) e messaggi stilosi (Unity, It’s A Shame, Wise Man), embrionale consapevolezza roots (Pretty Africa), echi errebì (Mother Long Tongue) e vibranti ombre (Fu Manchu).

Uomo da singoli, “Des”. Somma prova la Israelites, che – riarrangiata a misura del palato bianco – nel 1969 conquista le chart europee e americane. Ironia della sorte, dietro alla metafora della schiavitù ebraica in Egitto c’è il dramma della deportazione degli africani nel nuovo Mondo. A causa dell’accento fuori dai Caraibi nessuno capisce ma tutti si abbandonano a una carezzevole melanconia che è pianto trattenuto di ataviche sofferenze. Pur centrando ancora il bersaglio artisticamente (soprattutto con le filastrocche It’s Not Easy e A It Mek e il perfetto incastro di corde e fiati Rude Boy Train) Dekker non arriverà più così in alto. L’approssimarsi dei ‘70 segna il trasferimento definitivo nel Regno Unito e il successo – vergato da Jimmy Cliff, altro protetto di Leslie – della You Can Get It If You Really Want sfavillante ottoni e istantaneo appeal.

dekkah a singin'

Rarità nel contesto giamaicano, Desmond resta fedele a un marchio discografico fino all’agosto ’71, quando all’improvviso Kong muore per attacco cardiaco. Perso il mentore, l’uomo va in pezzi; terrorizzato, si prende una pausa, poi pubblica mediocrità fino allo ska revival. Il contratto con la Stiff porta Black & Dekker, che mescola vecchio e nuovo con i Rumour di Graham Parker, laddove nel 1981 è Robert Palmer a supervisionare Compass Point. Nulla di paragonabile non solo ai vecchi tempi, ma anche ai tanti concerti di un individuo pessimamente gestito dai manager che nell’84 dichiara bancarotta. Nuovo silenzio fino al 1990, allorché uno spot televisivo che utilizza Israelites spinge a tornare con avanzi degli Specials. Nostalgia, certo, eppure da me non leggerete nulla di male su un colosso che ci lasciava sessantaquattrenne, pronto per l’ennesimo tour. Ob-la-di, ob-la-da, life goes on, bro’…

L’uomo che parlava ai delfini

Questa è la storia di una meteora che lasciò nel cielo la scia luccicante di un Capolavoro. La storia di un precursore che mescolò folk, rock e jazz in una “other side of this life” come una sfinge che parlava solo tramite le canzoni. La storia di Fred Neil, mistero mite e riservato fuggito accanto ad animali amati più del successo che costantemente gli si negò. Arduo peraltro immaginarsi rockstar questo gentiluomo sudista rossiccio, pallido e coperto di efelidi, sguardo triste e voce come il ventre vellutato di una miniera. Tant’è. Tanto fu.

Frederick Neil nasce nel marzo 1936 in Ohio ma viene su Florida e spostandosi lungo il sud con il padre, che di mestiere ripara i jukebox della Wurlitzer. A sei anni imbraccia una chitarra grande quanto lui e nemmeno quindicenne pare mercanteggi rockabilly a Memphis dopo esser passato dal Grand Ole Opry. Influenze che verranno a galla più tardi, siccome al tramonto dei Cinquanta lo assumono al newyorchese Brill Building, dove tra i clienti vanta Buddy Holly e Roy Orbison. Una manciata di 45 giri a suo nome caduti nel vuoto (nulla di che, attesterà nel 2008 il CD Fallout Trav’lin Man), la notte appartiene alla segatura e alle luci fumose del Café Wha?, del Bitter End e del Gaslight.

fred in the city

I tempi corrono verso il cambiamento: Neil capisce e incrocia la via con Karen Dalton, Dino Valente, David Crosby, Bob Dylan. Tutti osannano l’audace che propone materiale autografo con una mossa in anticipo sui tempi. Del ‘64 l’accordo con la Elektra per l’acustico Tear Down The Walls spartito con Vince Martin e la profondità vocale “cashiana” di I Know You Rider, della mesta Red Flowers e di un’innodica title track, laddove il teso sferragliare di Baby e l’asciutta Wild Child In The World Of Trouble preconizzano il futuro prossimo. Scarso il ritorno ma l’etichetta propone il bis solitario.

Di Bleecker & MacDougal trovo fantastico tutto, in primis la copertina che immortala il songwriter nel cuore della New York del ‘65 che ho sempre sognato. Le note originali di Skip Weshner tratteggiano l’autore all’incrocio delle strade che delimitano la rivoluzione folk urbana. Eppure, guardando attentamente, lo vedo sul punto di uscire dall’inquadratura per spingersi nell’ignoto. Privo di batteria ma dal piglio esecutivo innegabilmente rock, ospita i confermati John Sebastian e Felix Pappalardi più il chitarrista Pete Childs in blues dell’anima (il brano omonimo, Blues On The Ceiling, Travelin’ Shoes) e melodie inestimabili come il classico più volte ripreso Other Side Of This Life e una Little Bit Of Rain dove conversano borbottii e aeree lamine. Fred andrà comunque oltre.

fred neil

Atteso il terzo passo per accasarsi alla Capitol, si riassume nell’omonimia e in una diversa cadenza del vivere. Va a stare con la dolce metà Linda a Coconut Grove – Florida: casa è casa – e nel ’66 congiunge l’embrione di Buckley Sr. con un Johnny Cash già ruga colata nella Storia. In Fred Neil lo spazio tra dodici battute acustiche e folk acidulo è percorso su tamburi d’ovatta, elettricità in scorze jazz, plettri scompigliati dall’unicità. Un brano lo avete ascoltato tutti ed è Everybody’s Talkin’, successone di Harry Nilsson entro un biennio grazie al film “Un Uomo Da Marciapiede”.

Affidatevi alla scarna meditazione originale e a The Dolphins, sublime e liquida ode in sconsolati filamenti; a I’ve Got A Secret, dove Elizabeth Cotten attraversa campagne appena inurbate; a una That’s The Bag I’m In che è vangelo travasato in Mark Lanegan. Faretheewell (Fred’s Tune) sbuca tra quinte di contrabbasso e chitarra mentre Everything Happens swinga virile e – dietro il brio per nulla narcotico di Sweet CocaineBa-De-Da dipinge un Sudamerica della mente. Infine, la stralunata Green Rocky Road introduce all’etnodelico vortice Cynicrustpetefredjohn Raga. Meraviglia che consegna l’artista agli annali mentre l’essere umano svanisce in punta di piedi su un’isola che non c’è.

fred

Nel 1968 Sessions espande durata e atmosfere in laconiche sospensioni jam a briglia salda, profumi di raga e spettrali, immani anticipi di Lorca come Merry Go Round e Look Over Yonder.  Quando Everybody’s Talkin’ ha fruttato denaro bastante, Neil si ritira da imbattuto Campione e con l’amico Ric O’Barry fonda il Dolphin Research Project, associazione ambientalista dedita alla salvaguardia dei mammiferi acquatici. Mi piace pensare che così volesse salvare i delfini dalla crudeltà di “Sea World” e se medesimo dalla follia di uno showbiz non granché diverso.

Declinati inviti allo show di Johnny Cash e a un tour con Harry Belafonte, nel ’71 Other Side Of This Life raccoglie versioni live o alternative di pagine conosciute e qualche inedito. Poi basta. Il buen retiro sarà spezzato a Montreux nel ’75 insieme a Childs, Sebastian e Harvey Brooks; ventiquattro mesi più tardi per un benefit in Giappone accanto a Jackson Browne e Richie Havens; nel 1981 con Buzz Linhart, in un pub cittadino. Immagino Frederick quieto e felice tra le mura di casa finché un brutto male lo porta via nel luglio 2001, talento sublime con di fronte a sé spalancata l’eternità per cantare ai delfini.