Agli Algiers è stato sufficiente un disco per entrare nella storia della musica popolare, benché scommetterei che a loro del ruolo di “sensazione” importi zero. Piuttosto, il clamore rappresenta un altro mezzo utile a trasmettere messaggi sonori e testuali dei quali da troppo si sentiva la mancanza. Siamo invero di fronte a un gruppo militante non per modo di dire, che appoggia argomenti di peso su un meticciato robusto e davvero inaudito dove confluiscono vampe black e algori new wave, retaggio afroamericano e aspirazioni dopo-rock.
Per tacer degli altri ingredienti, in primis dell’assenza di cesure sul corpo di una creatura così fascinosa da rendere insopportabili talune precipitose preoccupazioni – anzi: seghe mentali – del tipo “saranno una meteora bruciata dal proprio fuoco?” e/o “riusciranno a volare sempre alti?”. Di fatto, l’intensità e la robustezza dell’omonimo debutto chiarivano che Franklin James Fisher, Lee Tesche e Ryan Mahan l’immortalità se l’erano guadagnata. E al diavolo tutto il resto.
Chiara la questione? Bene. Adesso, con nelle orecchie un secondo album che ha sostituito il terzo quanto a fatidica difficoltà, potete temperare le matite e spianare i mitra. Se non avete di meglio da fare, s’intende. Da parte mia, preferisco abbandonarmi a una nuova dimostrazione di genialità e passione. Ascolto e riascolto The Underside Of Power fermamente convinto che il nuovo medioevo necessiti di speranza, ma anche di un ritratto del caos brutto e agghiacciante che ci accerchia.
In misura ancora maggiore, di un “ottimismo dell’intelligenza” che arrivi alla testa e ai fianchi anche attraverso le note. Questa l’essenza di un lavoro che si racconta entusiasmante al pari del predecessore e accoglie in via ufficiale l’ex Bloc Party Matt Tong alla batteria. Un lavoro che – avvalendosi della regia di Adrian Utley dei Portishead, bravissimo a incarnare il “Mr. Sherwood” della situazione – si porge quel tot più meditato senza smarrire personalità. Che con autorevolezza si fa beffe della nostalgia mentre dal passato (anche recente: sorgono spontanei parallelismi con TV On The Radio) raccoglie indicazioni preziose.
Caratteristica che siamo soliti associare ai Grandi, quest’ultima. Senza dubbio lo è chi fonde con disinvoltura la fisicità e il cerebralismo, chi incanala rabbia e sdegno in mutanti talvolta propensi a un pop trasversale e abrasivo. Se Walk Like A Panther lavora di/con chirurgia funk industrial-rumorista, la title-track, Cleveland e Cry Of The Martyrs si abbeverano alla musica dell’anima con l’obiettivo (centratissimo) di ricomporla in nuove forme. Se ai Depeche Mode cyber-beefheartiani di Death March risponde una Bury Me Standing che risucchia l’Eno ambientale da un buco nero, Animals sono i Suicide gonfi di anfetamina e melanina e A Hymn For An Average Man vede Antony rinsavire credendosi Peter Hammill.
A tirare le fila del discorso, la conclusiva e immane The Cycle/The Spiral: Time To Go Down Slowly trabocca negritudine destrutturata come una Sinnerman per il nuovo millennio. Frenetica, swingante e accorata, la dici appartenere a un Pop Group proiettato nelle macerie del dopo apocalisse, da dove conforta il cuore nascosto della pianistica Mme Rieux. Gli Algiers sono una band favolosa e necessaria. Una band come credevo non ne nascessero più.