“Senza cuore e artisti laddove i loro compatrioti sono accorati e senz’arte, i Six Finger Satellite sono il miglior gruppo Sub Pop da chi-sapete-voi.” (“Melody Maker”)
Ci aveva quasi preso, il “Melody Maker”. Benché fosse gonfio di sarcasmo, i ragazzi di Providence (Rhode Island) un cuore l’avevano. Pare che gli innamorati possano rivelarsi critici spietati dell’oggetto dei loro sentimenti: ebbene, i Six Finger Satellite amavano l’America da figli degeneri che ne mostravano il lato sgradevole recuperando un passato sonoro ancora oscuro. Se infatti “post-punk elettronico” e “Germania anni ‘70” sono oggi argomenti da aperitivo per hipster fancazzisti, nel 1992 restavano roba da carbonari.
Al contrario di svariati epigoni, però, il Satellite ancora orbita ai margini della storiografia perché il gusto – anche quello che ama definirsi “ricercato” – rifiuta la cattiveria reale. Parlo della cattiveria necessaria a dipingere il vuoto circostante come accade in certi episodi di “Black Mirror” o della cattiveria umanista di Devo, Chrome, Pere Ubu. Penso a loro concittadini come lo scrittore H.P. Lovecraft e gli eversori sonici Arab On Radar. Un digestivo mi aiuta a ragionare su cosa colà vi sia nell’acquedotto. Nulla: è la provincia. La prospettiva (di)storta e consapevole che dietro un’apparente normalità qualcosa stride e strilla. Sempre.
Una band siffatta poteva nascere solo al crepuscolo di un’era e cioè nel 1990, allorché il fortino indie statunitense inizia a vacillare e i Pussy Galore demoliscono i resti dell’innocenza rock. Mentre il revival dei Sessanta cede il posto allo zolfo anni ‘70, Jeremiah “J.” Ryan (voce/tastiere), Chris Dixon (basso), Rick Pelletier (batteria), John MacLean e Peter Phillips (chitarre) vanno oltre con il fervore di chi è cresciuto con l’hardcore punk. Un demo inviato alla Sub Pop esce nel ’92 sull’EP Weapon, cui replica un doppio 7” con i Green Magnet School.
Un anno dopo quelle promesse allettanti, in The Pigeon Is The Most Popular Bird Kurt Niemand rimpiazza Dixon e Bob Weston rifinisce strumentali tra abbozzo e sintesi kraut e space, mentre i brani più compiuti rileggono la new wave e i relativi antesignani con sagace distacco critico. Laughing Larry schizza urticando da Metal Box, Save The Last Dance For Larry concentra l’esasperazione di Entertainment! e Love (Via Satellite) pare un inedito dei Mission Of Burma. Omaggiati altrove Birthday Party e Jesus Lizard, in faccia ti si stampano anche il boogie blues destrutturato Hi-Lo Jerk e la demenza in jazz di Takes One To Know One. Sotto al rumore, ritmi ed elettronica suonano post. Di già.
Argomentazioni ribadite tramite il 10” Machine Cuisine e un semiomonimo nastro, dopo di che Phillips esce di scena e un’overdose stronca Niemand. Arrivato James Apt, la metà dei Novanta accoglie Severe Exposure, favoloso calcio che sfonda la porta per Trans Am, Liars e Rapture con un tossico ma inebriante cocktail di Nuova Onda strapazzata a dovere, dall’isteria danzereccia di Cockfight agli echi industriali di Simian Fever, dalle adrenaliniche Bad Comrade e Dark Companion agli sfregi Rabies e Where Humans Go e alla battente Parlour Games. Bellezza che un po’ offusca il valido successore Paranormalized, certo non nella tagliente Greatest Hit, in una Coke And Mirrors da John Lydon rimbambito dalle strobo, nella ronzante Paralyzed By Normal Life e nella follia metodologica di Slave Traitor.
Per evitare eventuali cadute nel cliché, la ghenga accoglie un tipo promettente di nome James Murphy. Lui il soundman sul palco e il produttore di Law Of Ruins, che diciannove anni or sono rinfrescava lo stile con saggi elettro-dub, inchini agli Ash Ra Tempel, ipotesi di Sonic Youth al silicio e nuovi miracoli hard rock. La favolosa e ispirata botta di vita chiude un ciclo: MacLean si accomoda alla murphiana DFA e sopraggiungono problemi con la Sub Pop. Nel ‘99 Ryan e Pelletier serrano le fila: senza registrare per un biennio, passano alla Load per il piatto noise-punk di Half Control; in una separazione più lunga, Pelletier si dava al dub coi La Machine e suonava la batteria nei Chinese Stars e Ryan lo trovavi in Colorado negli Athletic Automaton. Nel 2009, il dignitoso A Good Year For Hardness sanciva la conclusione della vicenda. Cuore e anima non si erano bruciati e da allora regna la quiete. Severa ma giusta.