Nella testa di un genio: Michael Head

Chissà cosa ha provato Michael Head quando, chitarra in mano, ha accompagnato il suo Maestro sul palco per eseguire uno tra i massimi Capolavori della musica popolare e uno dei dischi della sua – della nostra – vita. Pare che se la sia cavata degnamente e scommetterei anche meglio dell’idolo frattanto caduto tra la polvere. Nondimeno, l’ennesima incarnazione dei Love di Arthur Lee – lui, il Venerato Maestro di cui sopra – ha oggi una rilevanza marginale. Conta ricordare ai più distratti che Head (cinquantasei anni compiuti lo scorso ventiquattro novembre: auguri!) è uno dei tanti Geni venuti da Liverpool e riassumerne in breve le gesta.

Appartiene alla coda della generazione post-punk che ha appena dato nuovo lustro alla tradizione cittadina, il Michael William che diffonde nel mondo la brezza dolceamara di Forever Changes – quello il massimo Capolavoro di cui sopra – tramite il luminoso guitar-pop dei Pale Fountains. Gli va benissimo però malissimo: ottenuto un faraonico contratto con la Virgin, la metà degli ‘80 lo consacra al culto per lavori splendidi (Pacific Street e …From Across the Kitchen Table) acquistati da quattro gatti. Di conseguenza il gruppo si scioglie nell’87 e le successive imprese – che non valgono certo meno – come Shack e Strands incontrano il medesimo destino.

Senor

Uno tra i più fulgidi talenti d’Albione continua a restare ignorato dai più mentre, come detto, scorta Mr. Lee e pubblica bei lavori malgrado sfighe romanzesche che includono studi di registrazione in fiamme, master dimenticati oltreoceano, etichette fallite e il fan Noel Gallagher a offrire discografico asilo. Roba da girarci un film, avendo l’accortezza del lieto fine: il nostro eroe, dopo aver rischiato di lasciarci per sempre, sfancula eroina e alcool e regala, fiero e virile, un’altra meraviglia. Del tipo che inumidisce le pupille, fa sobbalzare il cuore e riempie la schiena di brividi giocondi. Lungo il nuovo millennio, infatti, Michael non si è dato per vinto: ha allestito il fluido ensemble Red Elastic Band e fondato un proprio marchio, la Violette; poi, con passo alla Shields e dicerie degne di Mavers, ha pubblicato un EP, un 7” e, dopo svariati rinvii, un album nuovo.

Ho scritto di un lieto fine, no? Sappiate che Adios Señor Pussycat vive di una bellezza che lascia senza parole. Perché è la Bellezza di una volta, che in epoche relativamente vicine ho ascoltato in un magnifico “figlio” di questi tre quarti d’ora (non un paradosso: essi vengono da lontano e lontano andranno) come Excuses For Travellers dei Mojave 3. La Bellezza di quando la gente ci mette tutta l’anima e d’ironia giusto una spruzzatina, di quando la scrittura vola altissima, di quando delle Canzoni si calibrano i dettagli più intimi e rivelatori.

michael

In un mondo migliore sarebbero delle hit planetarie, queste gemme intense e malinconiche degne di Byrds e Love (rispettivamente: l’accorata rilettura di Wild Mountain Thyme, una What’s The Difference insieme stellare apocrifo e riassunto stilistico) come di un Brian Wilson che conosce le pieghe di Paris 1919 (la sublime ballata pianistica Winter Turns To Spring).

Gioielli inestimabili che indagano morbida folkedelia (Picklock, 4 & 4 Still Makes 8) e suadenti nomen omen sonori (il folk-rock Overjoyed), che conducono Tim Hardin nel paradiso di Bryter Layter (Picasso) e immaginano Burt Bacharach alle prese col country-soul (Rumer), che ricordano ai National chi comanda (Working Family, Queen Of All Saints) e sfoggiano un’eleganza rara sia in abiti spartani (Lavender Way) che sgargianti (Adios Amigo, Josephine). Ma queste sono solo parole. Il senso di Adios Señor Pussycat posso racchiuderlo in un consiglio: vogliatevi bene. Compratelo, ascoltatelo fino a spezzarvici il cuore. E se fosse un sogno, non svegliatevi mai.

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Schizzi di Spagna blu

I dischi che ti si conficcano nel cuore sanno essere dei bei soggetti. Alcuni scompigliano i pensieri e poi li riordinano; altri prendono possesso di stomaco e/o gambe come fossero la stessa cosa; altri, ancora, suggeriscono che il domani sarà una faccenda completamente diversa per chiunque. Poi ci sono gli eletti. Quelli che con te hanno stretto un patto di passione eterna, magari scaturita da un primo ascolto casuale o dalla vista della copertina.

Andò così con l’esordio degli Spain di Josh Haden, notato durante una frettolosa passeggiata nella vetrina di un negozio angusto però assai fornito. Su fondo scuro, la grafica in perfetto stile Blue Note raffigurava una seducente silhouette femminile, avvolta sul retro in spirali di fumo e pronta a perdersi, sigaretta in mano, nelle notti insonni che immaginavo frequentate da Morphine e Tom Waits. Presi al volo senza sapere altro, sicuro che potesse bastarmi.

Spain

Dalla sera stessa, The Blue Moods Of Spain riscaldò l’intero inverno 1995 e molti altri. Periodicamente lo ripesco dagli scaffali, anche se – forse, proprio perché – ognuno dei suoi sessanta minuti è stato mandato a memoria e ciò nonostante ogni volta regala le stesse sensazioni della prima. Ma la musica? Casomai qualcuno fosse all’oscuro, provo a spiegarla in breve e come meglio posso. Josh Haden, cantante e bassista, è figlio del fu Charlie che non ha certo bisogno di presentazioni. Naturale che il retaggio e il DNA abbiano contribuito alla tinta degli umori tristi promessi (e mantenuti) dal titolo.

Umori che nulla avevano in comune con l’imperante grunge e viceversa molto con il lato oscuro e melanconico della California che per il ragazzo fu luogo d’adozione. Da qui il “blu Mitchell”, declinato secondo lo slowcore in lunghi brani intrisi di mestizia sentimentale maschile – un noir d’amore, se vi pare – abbigliata con eleganza e sentimento. In altre parole, è folk-jazz cameristico fuso ai Velvet Underground di Pale Blue Eyes, al blues scarno dei Cowboy Junkies, ai linguaggi di Buckley senior e di Tim Hardin, alle candele tremolanti dei Mazzy Star.

blue moods of spain

Punti cardinali di una magia che tuttavia si racconta unica sin dall’iniziale It’s So True, stasi di corde lontane che camminano lievi verso un’esplosione che non giunge mai. Eppure è un disco caldo, questo, nel quale respiri parecchio soul insieme riconoscibile e trasfigurato, dalla liquida Ten Nights alla rotonda raffinatezza di Untitled #1, dalle dodici battute in chiave post di Dreaming Of Love a una Ray Of Light che cuce confessioni su una tromba davisiana. Un disco dove la cifra autoriale di Josh è già perfettamente definita e assistista da compagni (Ken Boudakian, chitarra e organo; Evan Hartzell, batteria; Merlo Podlewski, chitarra solista) preparati e puntuali.

Ascoltare per credere l’estasi oppiacea tratteggiata da Her Used-To-Been, ma soprattutto World Of Blue, un quarto d’ora in volo libero per ipotizzare il John Cale di Academy In Peril al timone di Happy Sad. Più che una canzone, lo sgranarsi di un’anima lungo rosari d’archi, pensieri in chiaroscuro, transitori slanci emotivi. Quando termina, rimani a bocca aperta e chiedi alla tua parte più intima cosa sia accaduto; frattanto, la sonnolenta melanconia di I Lied introduce il commiato Spiritual, nella forma esattamente ciò che il titolo racconta e nel contenuto pura trascendenza da gospel laico bianco.

Avendone la possibilità, chiederei alla buonanima di Johnny Cash e al severo Mark Lanegan cosa gli passò per la mente il giorno che l’ascoltarono e se ne vollero appropriare. Specie l’Uomo In Nero, che incontro all’ora suprema ci stava andando davvero e nella sua versione lo avverti palpabile. Si chiude così un disco meraviglioso: con un’invocazione di umanità a tal punto commovente da convincerci che, chissà, forse un dio esiste se ha concesso una tale grazia. La quale si ripeterà solo di tanto in tanto: perché gli anni scorreranno e i lavori successivi, seppur gradevoli, svaniranno dentro la bellezza di The Blue Moods Of Spain. Delicata, sublime e destinata a brillare in eterno.

Konono N° 1: trance world express

Nel cosiddetto “terzo mondo” si fa di necessità virtù. Ringraziate il colonialismo per tutto ciò e rinfrancatevi pensando a come questo modus vivendi si applichi anche alla musica. Oltre al dub mi vengono in mente i congolesi Konono N°1, soliti esibirsi per strada in danze e canti accompagnati da un arsenale di percussioni metalliche e di likembé, uno strumento autoctono – noto anche come thumb piano – nel quale sottili lamine fissate a un’estremità sono abbassate producendo una vibrazione al contempo dolce e tagliente.

A un certo punto la nutrita congrega si rendeva conto della necessità di un’amplificazione: se la saranno mica comprata? Figurarsi! La costruivano con materiali prelevati dalle discariche, così che i loro strumenti sono oggetti sul serio trovati alla faccia del dadaismo e degli Einstürzende Neubauten. Citatemi altri che siano più DIY, indipendenti e attitudinalmente punk. Poi rintracciate qualcuno al contempo primordiale e futuribile, ipnotico con sensualità e sperimentale.

Congotronics

Lontanissimo da qualsiasi freddezza, il suono dei Kokono N°1 possiede bellezza, slancio e inventiva degne del rock, dell’elettronica e del jazz più fulgidamente sperimentali. Come per ogni artista che prevede il futuro, le loro radici si spingono molto indietro. Correva infatti l’anno 1966 quando il camionista e suonatore di likembé Mingiedi Mawangu allestiva la Orchestre Tout Puissant Likembe Konono Nº1. Appartenente ai Bazombo, un’etnia dislocata sul confine tra Angola e Repubblica Democratica del Congo, ne adattava la musica rituale, di solito eseguita con fiati ottenuti da zanne di elefante, e facendo i conti con la distorsione provocata dal soundsystem ricavava qualcosa di unico.

Nell’87 un brano con già nove anni sulle spalle appariva nella compilation francese Zaire: Musiques Urbaines A Kinshasa, nondimeno bisognava aspettare il nuovo secolo per veder uscire il nome dai circoli degli intenditori. Il produttore belga Vincent Kenis andava a stanarli e registrava per Crammed Discs l’epocale Congotronics del 2004, che lasciava a bocca aperta la stampa e il segno su chiunque, da Grizzly Bear ad Animal Collective e Andrew Bird passando per Bjork e Herbie Hancock, che in seguito collaboreranno con l’ensemble africano.

konono

Merito di una forza comunicativa che stordisce e affascina, sciogliendo brani lunghissimi che come maree frenetiche però benevole avvincono in un gioco instancabile di tensione e rilascio. Lasciando infine felici schiavi del ritmo e anche per questo li consiglio anche se della world music non vi importa nulla. Perdonatemi per aver usato quell’orrida parola, sapendo sin da ora che per innamorarvi basterà un ascolto e procurarsi i live Lubuaku e At Couleur Café e la successiva puntata in studio Assume Crash Position. Intanto Mingiedi cedeva lo scettro al rampollo Augustin ed usciva il doppio Tradi-Mods Vs Rockers, tributo con cover e remix cui partecipavano, tra i tanti, gente come Oneida, Deerhoof, Wildbirds & Peacedrums.

Morendo ottantacinquenne nel 2015, Mawangu padre si perdeva la partecipazione allo splendido From Kinshasa dei Mbongwana Star e l’apprezzabile Konono Nº1 Meets Batida. A metà dell’ottobre scorso purtroppo lo ha seguito anche Augustin, da tempo malato, e la torcia ora è nelle mani di suo figlio Makonda e del cantante Menga Waku. Rendetegli grazie ogni volta che darete in pasto allo stereo questa creatura che vi stringe a sé come un mantra stordente, come una danza contagiosa, come una trance mesmerica. Come una madre atavica che risiede nel nostro angolo più remoto, pronta a risvegliarsi ogni volta che lo vogliamo.

Messaggi dall’Imperatore Nero

Parafrasando Charles Trenet, viene da chiedersi que reste-t-il du post-rock? Cosa resta, insomma, a circa vent’anni dall’esplosione mediatica su media scala di un non genere da annoverare tra le ultime rivoluzioni (appropriatamente defilata) della musica popolare? Soltanto bei ricordi e un pugno di ceneri se si guarda in talune direzioni, laddove in Canada il fuoco tuttora brucia e l’etichetta Constellation – checché ne scrivano certuni – rappresenta una garanzia.

Il post-rock, dicevo. Significativo che la gran parte dei suoi alfieri scansasse la definizione, proprio come fu per una new wave a sua volta etichettata anche “post-punk”. In maniera analoga, spetta al prefisso spiegare qualcosa di sfuggente che in sostanza è più attitudine che stile. La chiave rivelatrice sta in quel “dopo” che significa “oltre”. Che significa superare i cliché di un rock che in mano a troppe mezze seghe era/è mera ridicolaggine.

Luciferian

In altre parole, gettare nel calderone rischio, estro, fantasia, sperimentazione per spostare il confine più avanti. Di qualche centimetro, certo, ché ormai il tempo dei passi da gigante è finito da un pezzo. Con il rischio latente – poi diventato una zavorra per alcuni protagonisti: ad esempio i Tortoise – di scadere in intellettualismi frigidi e ostentazioni fini a sé stesse. Ecco: ciò che permette ai Godspeed You! Black Emperor (e anche agli A Silver Mount Zion) di essere vivi è proprio un senso dell’umano che poco alla volta sorge e abbaglia. Un’ipotesi di umanesimo post-moderno da apporre al nuovo medioevo, se preferite. Di fatto, tra i maelstrom sonici e le liturgie sospese, è un blues come condizione dell’anima a venire a galla; una spiritualità pura che si misura con l’orrore del mondo senza melodrammi né retorica. Se vi pare poco, passate oltre.

In un certo senso, sono un po’ i Grateful Dead della loro generazione, costoro. Però persi tra i solchi di un A Saucerful Of Secrets figlio e non presupposto del krautrock; però con ospiti Amon Düül II, King Crimson e Quicksilver Messenger Service; però con Ennio Morricone, Glenn Branca e Terry Riley a orchestrare; però con un retroterra anarco-punk e profumi di “trance” californiana. Più o meno. Musica pressoché impossibile da descrivere a parole, tanti e tali sono gli elementi che la compongono e per questo ogni ascolto esalta e regala brividi come fosse il primo. Inoltre, Genio, idee e vigore sono inscindibili dalla questione “politica”, poiché i ragazzi sono fieri ma non tronfi, si schierano senza tenere comizi e razzolano come predicano. Al caos contrappongono oggi sonorità poco più distese a sottolineare che, essendo l’apocalisse già tra noi, dobbiamo erigere muraglie di bellezza a nostra difesa.

GY!BE

Questa la sostanza di quattro tracce più concise – per lo standard GY!BE, ovviamente – ma compatte e stratificate come si conviene. Un senso di virile malinconia le avvolge, benedicendo progressioni qui rumoriste e là favolosamente spaghetti western, chitarre vertiginose e tamburi furibondi, elevazioni commoventi e ira funesta. Il felice paradosso essendo che nel momento in cui rinunciano a voci trovate e registrazioni sul campo i canadesi consegnano la loro opera sin qui più emozionale: quaranta meravigliosi minuti che raggiungono un apice lirico nella chiusura Anthem For No State. Dalla quale vi verrà subito voglia di ripartire e di immergervi più volte nella profondità e nel fascino di Luciferian Towers. Il giorno in cui gli incazzati del mondo erediteranno la terra, questa sarà la colonna sonora. Che la festa cominci già adesso.