Parafrasando Charles Trenet, viene da chiedersi que reste-t-il du post-rock? Cosa resta, insomma, a circa vent’anni dall’esplosione mediatica su media scala di un non genere da annoverare tra le ultime rivoluzioni (appropriatamente defilata) della musica popolare? Soltanto bei ricordi e un pugno di ceneri se si guarda in talune direzioni, laddove in Canada il fuoco tuttora brucia e l’etichetta Constellation – checché ne scrivano certuni – rappresenta una garanzia.
Il post-rock, dicevo. Significativo che la gran parte dei suoi alfieri scansasse la definizione, proprio come fu per una new wave a sua volta etichettata anche “post-punk”. In maniera analoga, spetta al prefisso spiegare qualcosa di sfuggente che in sostanza è più attitudine che stile. La chiave rivelatrice sta in quel “dopo” che significa “oltre”. Che significa superare i cliché di un rock che in mano a troppe mezze seghe era/è mera ridicolaggine.
In altre parole, gettare nel calderone rischio, estro, fantasia, sperimentazione per spostare il confine più avanti. Di qualche centimetro, certo, ché ormai il tempo dei passi da gigante è finito da un pezzo. Con il rischio latente – poi diventato una zavorra per alcuni protagonisti: ad esempio i Tortoise – di scadere in intellettualismi frigidi e ostentazioni fini a sé stesse. Ecco: ciò che permette ai Godspeed You! Black Emperor (e anche agli A Silver Mount Zion) di essere vivi è proprio un senso dell’umano che poco alla volta sorge e abbaglia. Un’ipotesi di umanesimo post-moderno da apporre al nuovo medioevo, se preferite. Di fatto, tra i maelstrom sonici e le liturgie sospese, è un blues come condizione dell’anima a venire a galla; una spiritualità pura che si misura con l’orrore del mondo senza melodrammi né retorica. Se vi pare poco, passate oltre.
In un certo senso, sono un po’ i Grateful Dead della loro generazione, costoro. Però persi tra i solchi di un A Saucerful Of Secrets figlio e non presupposto del krautrock; però con ospiti Amon Düül II, King Crimson e Quicksilver Messenger Service; però con Ennio Morricone, Glenn Branca e Terry Riley a orchestrare; però con un retroterra anarco-punk e profumi di “trance” californiana. Più o meno. Musica pressoché impossibile da descrivere a parole, tanti e tali sono gli elementi che la compongono e per questo ogni ascolto esalta e regala brividi come fosse il primo. Inoltre, Genio, idee e vigore sono inscindibili dalla questione “politica”, poiché i ragazzi sono fieri ma non tronfi, si schierano senza tenere comizi e razzolano come predicano. Al caos contrappongono oggi sonorità poco più distese a sottolineare che, essendo l’apocalisse già tra noi, dobbiamo erigere muraglie di bellezza a nostra difesa.
Questa la sostanza di quattro tracce più concise – per lo standard GY!BE, ovviamente – ma compatte e stratificate come si conviene. Un senso di virile malinconia le avvolge, benedicendo progressioni qui rumoriste e là favolosamente spaghetti western, chitarre vertiginose e tamburi furibondi, elevazioni commoventi e ira funesta. Il felice paradosso essendo che nel momento in cui rinunciano a voci trovate e registrazioni sul campo i canadesi consegnano la loro opera sin qui più emozionale: quaranta meravigliosi minuti che raggiungono un apice lirico nella chiusura Anthem For No State. Dalla quale vi verrà subito voglia di ripartire e di immergervi più volte nella profondità e nel fascino di Luciferian Towers. Il giorno in cui gli incazzati del mondo erediteranno la terra, questa sarà la colonna sonora. Che la festa cominci già adesso.
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