Nella progamerika dei Pavlov’s Dog

Ivan Pavlov era un medico ed etologo russo che scoprì il riflesso condizionato, tramite un celebre esperimento in cui un cane collegava ripetutamente la presenza di cibo al suono di un campanello finché il semplice rintocco induceva la salivazione. Non è comunque per un riflesso condizionato che mi capita di tornare regolarmente su Pampered Menial. No. E’ perché incarna un esempio raro di rock sul serio colto e avventuroso e perché spiega quanto il prog sia un atteggiamento giustamente vituperato, ma anche un genere da indagare con cura per non gettare nella pattumiera della storia cose talvolta bellissime.

Annotazione che pare cucita su misura al Cane di Pavlov, patrimonio di pochi che non dimentica la tradizione d’oltreoceano anche quando lo attraversano i tipici interventi di violino, flauto e tastiere di inizio Settanta. A differenza di moltissime opere coeve, però, il suo fascino – cui contribuiscono le androgine corde vocali di David Surkamp – è oggi intatto grazie alla concisione, alla sobrietà e al livello di scrittura. Non troverete tecnicismi o sbrodolate in uno stile più lineare dei King Crimson e meno dandy rispetto ai Roxy Music che per un breve momento fu qualcosa di unico.

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Oltre alla nazionalità e alla relativa cultura sonora c’entra una gavetta che infuse umiltà e concisione nella formazione, sorta nel 1972 in Missouri dalla cover band High On A Small Hill. Al chitarrista Steve Scorfina e a una solida sezione ritmica (Rick Stockton: basso, Mike Safron: batteria) si aggiungono Surkamp, folkettaro principale autore del repertorio, l’archetto di Siegfried Carver, i tasti di David Hamilton, Doug Rayburn a mellotron e flauto. L’intensa attività concertistica nel Midwest suscita l’interesse della ABC, che li spedisce a New York con Murray Krugman e Sandy Pearlman (mancato nell’estate 2016, aveva/avrà in curriculum Blue Öyster Cult, Dictators, Clash, Dream Syndicate). I ragazzi colà incidono come se stessero suonando su un palco, mettendoci anima ed energia senza perdere di vista le sfumature.

Così tra l’ineffabile romanticismo di Julia – per la quale i cialtroni Guns ‘n’ Roses ancora non ringraziano: ascoltare per credere Don’t Cry – e l’epopea riassuntiva Of Once And Future Kings possono sfilare solo gioielli. Se Late November suona come un tagliente anticipo della Patti Smith epoca Wave, Song Dance vive di una complessità poderosa ma elastica e Fast Gun ipotizza dei Mott The Hoople inquieti; se Natchez Trace trasloca Jerry Lee Lewis in ipotesi “southern fried” di For Your Pleasure, la meraviglia Theme From Subway Sue poggia sul sapiente alternarsi tra innodia e mistero e l’alata Episode sprigiona tenue malinconia. Che dire? Stupendo.

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Succede però che con l’LP nei negozi a inizio aprile i Pavlov’s Dog si accasino alla Columbia e il debutto venga ristampato confondendo il pubblico e smorzando eventuali ambizioni di successo. Similmente ai Van Der Graaf Generator, nessuno replicherà l’incantesimo se non in parte: ascoltare per credere Mother Love Bone e i Jane’s Addiction di Ritual De Lo Habitual. Persino i diretti interessati, che nel ’76 pubblicano il più disteso At The Sound Of The Bell: vende poco, l’etichetta li scarica e il successivo scioglimento lascia il mediocre Third ufficialmente inedito per tre decenni.

Di scarso interesse il ritorno di Surkamp nei primi ‘80 come Hi-Fi e più tardi con la vecchia ragione sociale e il solo Rayburn degli originali, eccoci all’estate 2004: la line-up “storica” (tranne Carver) si esibisce nella natia St. Louis e Surkamp la rimette in piedi con la moglie e altri carneadi – Siegfried è deceduto nel 2009, seguito con sinistra cadenza triennale da Rayburn – girando mezzo mondo.  Non ho voluto saperne a lungo, di questi “nuovi” Pavlov’s Dog. Invece, nel 2019, mi sono dovuto ricredere alla luce di un brillante Prodigal Dreamer che nella copertina e nella scrittura guarda di nuovo a Pampered Menial, tuttora un magnifico mini-universo a sé con il quale Cronos si è dimostrato benevolo. Fu vera gloria, lo sarà in eterno.

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Il mondo senza Mark E. Smith

Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.” (F.S. Fitzgerald)

Nella mia breve carriera di giornalista ho scritto solo uno di quegli articoli che passano sotto il nome di “coccodrilli”. Fu per il Grandissimo Bert Jansch e accettai di buon grado nonostante l’impaccio e una certa difficoltà latente. Il fatto è che vivo il lutto in maniera profondamente riservata. Nella vita credo non vi sia dolore più grande del distacco, dell’andare avanti con le spalle più pesanti senza qualcuno di importante. Ora il mondo è un luogo viepiù triste e noioso perché Mark Edward Smith non è più tra noi.

Non starò a ripetere quanto già saprete: i dettagli di cronaca mi interessano poco o nulla. Conta che mi senta scombussolato e confuso al punto da fare un’eccezione. Conta che lo spirito più punk di sempre sia scomparso poco prima di superare i sessant’anni. Conta che non uscirà mai più un nuovo disco della sua (e solo sua) band. Abbiamo una certezza in meno, insomma. Un album dei Fall fresco di stampa era una sicurezza come Lucy che toglie il pallone quando Charlie Brown sta per calciare o il nubifragio che arriva dopo aver lavato l’auto.

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Così la vita ci aveva illuso fino a ieri mattina. Nondimeno tocca farsene una ragione: i musicisti invecchiano e scopri che da quel punto di vista non sono semidei e che il tempo sottrae un mattone dopo l’altro alla diga del rock‘n’roll. Il groppo alla gola non accenna a diminuire, anche se la rabbia è in parte lenita dall’accettazione che le cose vanno così. Quello che davvero sconvolge è la frattura interiore creata dalla scomparsa “fisica” e dal fatto che, grazie a un dischetto metallico e a un tondo di plastica più largo, questa gente rimarrà viva finché non toccherà a me. Che scherzi giocano Arte e Destino, eh?

Ad esempio, l’amarcord che lascia addosso un dispiacere stridente, strani graffi sotto pelle, il passato che torna avvolto in una nebbia luccicante. Tuttavia in questa giostra una certezza la posseggo: cinico sin nel midollo – sospetto però che sotto la corazza nascondesse un peculiare romanticismo – Mark scatarrerebbe con il suo accento nordico e lo sguardo da monello ingegnoso su questo e su ogni altro ricordo che leggerete. Farsi sbeffeggiare un’ultima volta da uno dei miei (anti) eroi, comunque, val bene una manciata di righe ed ecco.

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Giusto così, poiché la sua essenza era badare al sodo e su tale presupposto ha costruito un jukebox ribelle minimale e aspro. Mescolanza di kraut, sixties e art-rock, il caracollare ritmico in apparenza monotono, la chitarra tagliente e la tastiera che spatola due note sorreggevano il teatro della crudeltà partecipata del Signor Smith, seduto nell’angolo del pub a mugugnare. Questo fantastico equilibrio tra irruenza e avanguardia rappresenta l’anello di congiunzione tra Monks, Can, Beefheart, rockabilly e Canterbury – avant-garage si definivano i Pere Ubu: in questo caso vale eccome – e vanta infiniti tentativi di imitazione e l’adorazione di John Peel.

Pienamente giustificata, perché siamo al cospetto di un Genio. Di uno che, raccolta la fiaccola da Ray Davies tramite taglienti ritratti di britishness e una magistrale rilettura di Victoria, ha dimostrato che si può essere intellettuali proletari pur fregandosene di gloria, onori, ricchezza. Entrare nella Storia della musica popolare e contribuire a modellarla è il vero riscatto sociale. Alla faccia di tutto e di tutti. Stammi bene ovunque tu sia, hip priest.

K. McCarty e l’intrattenitore desolato (come ho conosciuto Daniel Johnston)

Do yourself a favour / Become your own saviour.”

Appassionato o critico, hai a (spesso inconsapevole) disposizione mille modi per imbatterti in un artista del quale ti innamori. Succede anche tra esseri umani: una sera apparentemente come tante incroci uno sguardo e la tua vita non è più la stessa. Arrivo al punto, tranquilli. Per anni ho avuto un’idea vaga di chi fosse Daniel Johnston e mi limitavo a osservare una buffa rana sulle magliette che Kurt Cobain sfoggiava con signorilità punk. Ancora non mi ero accostato alla sua musica e giuro che ho dimenticato se per timore o distrazione.

Qualcosa imponeva di attendere il momento giusto e il momento giunse nella primavera 1996, dalla vasca degli usati di un negozio, rischiarando un’esistenza sospesa dentro il limbo che talvolta precede l’ingresso nel mondo reale. Un CD a poco prezzo, artefice sconosciuta e l’intrigante sottotitolo songs of Daniel Johnston. Ma sì, proviamo. Due giorni dopo – l’anima rivoltata come un calzino, il cuore lacrimante gioia – avevo un nuovo amico.

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Come tanti suoi colleghi, Daniel Johnston è stato in parte vittima di un malinteso. Nel senso che l’eccentricità non è un lasciapassare per altri mondi e il disagio a monte del Genio non spiega davvero la tenerezza commovente delle sue canzoni sublimi. C’è dell’altro che si spinge molto in profondità. C’è un linguaggio sbilenco, ineffabilmente fulgido e magico, tipico di chi cammina sul rasoio della vita e ne coglie l’essenza dolceamara. Di chi desidera il midollo perché l’osso non basta più. Gente come Syd Barrett, Mark Linkous, Tom Waits, Jeff Mangum, Mark Oliver Everett.

Semplice la ragione: le canzoni possono  salvare la vita a chiunque. Basta capirlo, poi incastonarle con i loro significati nella giostra quotidiana del vivere. Dunque, se di Daniel nulla possedete, consiglio umilmente di partire da Dead Dog’s Eyeball, l’album di K. McCarty oggetto dell’amarcord di cui sopra. Kathy è una ragazza texana che militava in tali Glass Eye: sciolta la band, nel ’94 pubblicava su Bar/None una generosa manciata di composizioni dell’amico cavandone un disco di culto “al quadrato”. Uno specchio deformante in positivo, che dagli originali rimuove le molle rotte e le corde scordate conservando luccicanze, sfumature, tonalità.

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Grazie a un toccante gesto di riconoscenza – cucito con stoffe indie rock di alta qualità intessute di folk, lounge jazz e pop psichedelico – vi sarà più facile risalire agli LP originali, dai rifiniti Artistic Vice, Fun e Fear Yourself ai più ruvidi Continued Story, Yip Jump Music e Hi, How Are You. Mi accodo al corteo di fan – tanti anche eccellenti, com’è giusto – confermandoli colmi di splendori disarmanti che ragionano sui miti (The Beatles, Casper The Friendly Ghost) e offrono vie di fuga (Rocket Ship, Speeding Motorcycle, I Am A Baby In My Universe), che sfoggiano lucidità come una seduta psicanalitica giammai potrà (Story Of An Artist, Sorry Entertainer) e si pronunciano sui massimi sistemi (Living Life, I Live For Love), oscillando tra i margini di melodie così pure che canticchi in un attimo a dispetto di forme spesso out there.

Che te ne fai della “normalità” al cospetto di un capolavoro assoluto come True Love Will Find You In The End? Ecco. Daniel è stato un timido che scrutava il mondo e, con un sorriso naif, spargeva – spargerà per sempre – semi di tenerezza nel nostro spirito . L’uomo che ha scritto “seppelliscimi nel tuo cuore e là io rimarrò, senza andare in decadenza” era uno di noi: se fu un pazzo, allora lo siamo tutti. Uno di noi: lì, forse, sta il segreto. La fatica e il disagio che avvertiamo al primo incontro con Daniel derivano anche dall’accettare che lui sedeva già nel nostro intimo giardino. Entrato in punta di piedi, si è accomodato per rendere questo sciocco mondo un posto migliore. Spero tu possa trovare la vera pace, caro sorry entertainer.

Martin Newell, pop gentleman

In un lontano futuro Martin Newell lo avrebbero clonato in laboratorio mescolando i DNA di Ray Davies, John Lennon e Syd Barrett. Invece si è fatto da sé molto ma molto prima per conferire ulteriore dignità a quella meraviglia chiamata “pop inglese”. Immagino che la maggior parte dei lettori si stia chiedendo “Martin chi?” Martin l’ultimo popcentrico d’Albione, ecco chi. Dotato di sapienza melodica, eclettismo e humour affatto comuni, costui appartiene con pieno diritto al club fondato dai nomi di cui sopra e frequentato da Andy Partridge, Robyn Hitchcock, Bid, Dan Treacy: “Ovviamente mi sento vicino a Beatles, Barrett e Kinks, ma gli altri sono più mei contemporanei che influenze. Ai tempi dei Cleaners From Venus ci chiamavano i ‘Beatles DIY’, il che dice molto di come lavoro su scrittura e arrangiamento: da dilettante ispirato, lascio che le cose accadano, e se non funziona, inizio qualcos’altro.” Sperando che adesso vi si sia accesa una certa curiosità, prima di scendere nel dettaglio desidero ringraziare Mr. Newell per l’estrema disponibilità con la quale ha rilasciato le dichiarazioni che state per leggere.

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Nato nel 1953 sotto il segno dei Pesci in una famiglia di militari, gironzolava per l’Oriente tornando in terra natia a tredici anni: “Il risultato del viaggiare forzato è stato che per tutta la vita ho sentito il bisogno di fermarmi in un solo luogo. E non essere in Inghilterra per gran parte del periodo 1964-1967 mi ha fatto sentire defraudato della mia estate culturale”. Nonostante ciò, buttava giù canzoni ascoltando i classici del periodo e hai detto niente. Dura però la gavetta: ventenne entra nei glamster Plod come cantante ma resta fregato dall’etichetta (“Eravamo molto giovani. Fu una faccenda piuttosto tipica: avevamo registrato dei pezzi e firmato un contratto in attesa che accadesse qualcosa. Non accadde nulla.”) e soltanto Neo City riaffiorerà nel 2003 sulla compilation Velvet Tinmine. Non si perde comunque d’animo e nel ’78 risponde con i Gypp e un EP prog-pop randellato dalla critica; ustioni su tutta l’anima, pubblica un altro 45 giri nel 1980.

Poi si chiude in casa e con l’amico batterista Lawrence Elliot inventa i Cleaners From Venus – nome scelto perché entrambi sbarcano il lunario come camerieri e lavapiatti – e un pop chitarristico sopraffino. Sono gli unici nel sottobosco di chi si affida alle pubblicazioni su cassetta ed ecco un primo pregio. L’altro, assai più importante, è l’alto livello di brani eccentrici però lesti ad agganciare con armonie dolceamare e arpeggi sospesi tra colori fab sixties, minimalismo new wave e modelli trasfigurati con carattere: “Se per trasfigurazione intendi il modo in cui la musica ha preso forma, probabilmente si tratta di limiti tecnici. Volevo tentare di scrivere grandi canzoni, ho imboccato una strada e per caso ho trovato qualcosa di personale.”

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A metà degli Ottanta la cosa inizia a farsi un tot più professionale con ll tastierista Giles Smith, mentre il successo di nicchia dei carbonari nastri ha come conseguenza uscite in vinile e alcuni tour. Ora di congelare il progetto ed (nel mezzo gli apprezzabili Brotherhood Of Lizards) esporsi in prima persona. Se siete ancora qui, la vostra pazienza sarà premiata da gemme a mezza via tra XTC e Television Personalities come Julie Profumo e Living With Victoria Grey, dalla Only A Shadow nervosamente appiccicosa che gli MGMT rileggeranno, dai pastelli di Clara Bow, dall’anticipo di Field Music Summer In A Small Town, dalla trasognata Sunday Afternoons. In ogni caso è solo la punta di un iceberg d’oro che vi invito a visitare ed esplorare con comodo, siccome nel 2012 la Captured Tracks ha lanciato un legalissimo programma di ristampe dei Pulitori Venusiani e di scusanti non ne avete.

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Tornando a bomba, nel 1993 Martin è contattato da Andy Partridge: “Qualche discografico pensò che avremmo dovuto collaborare. Lui ha un umorismo simile al mio, ma è un perfezionista e per una volta ho acconsentito a non fare di testa mia. Pensavo che sarebbe stato un esperimento interessante e ci siamo divertiti, anche se continuo a preferire il caos e la mia solita anarchia”. Frutto dell’unione il delizioso The Greatest Living Englishman, scintillio mid-fi surrealista (We’ll Build A House, When My Ship Comes In, Goodbye Dreaming Fields) e agreste (Home Counties Boy, Elizabeth Of Mayhem) che si porge stralunato (una notturna, pianistica Straight To You Boy; la marcetta corretta a jazz e LSD A Street Called Prospect) e all’occorrenza leggiadro (Before The Hurricane, Christmas In Suburbia: attenti però a parole tra il satirico e l’amaro) senza che l’unità d’insieme venga meno. Anzi: se la title-track squilla acid-pop e She Rings The Changes aggiunge “power” alla ricetta, The Green-Gold Girl Of The Summer centra il capolavoro ospitando Captain Sensible alla (fumigante) chitarra e sistemando i Kinks nei solchi di For Your Pleasure. Alla sua reperibilità non agevole rimedierà alla fine del mese prossimo sempre la Captured Tracks con una nuova ristampa e dunque regolatevi.

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Disco che l’assidua frequentazione arricchisce rivelandone tonalità e sfumature, The Greatest Living Englishman fotografa appieno l’estro e il talento dell’artefice, il quale tuttavia dissente: “Forse quell’album rappresenta un mio Sgt. Pepper’s ma non è necessariamente il migliore. Di certo è il più coeso, quello più gradito agli ascoltatori di gusto… come dire… classico.” Lo sguardo tagliente misto di tra disincanto e sogno tipico della provincia, da Wivenhoe – novemila abitanti nel mezzo dell’Essex – questo iperattivo signore non si è più fermato e perché mai avrebbe dovuto.

Nel volgere di un biennio replicava con The Off White Album, barocco con gusto e arrangiamenti offerti da Louis Philippe. Poi, con piglio da moderno uomo rinascimentale, seguivano altri dischi solisti, l’attività di giornalista e poeta, il ritorno dei Cleaners From Venus e un’altra formazione chiamata Stray Trolleys. Dio salvi questo sommo artigenio, ché di gente come lui abbiamo un bisogno assoluto. Nei secoli dei secoli.

Yabby You e le profezie dub

Le difficoltà della vita… Ne sapeva fin troppo sull’argomento Vivian Jackson al secolo Yabby You. Qualche numero: classe 1946, sei tra fratelli e sorelle, a dodici anni lavorava in una fornace e dopo cinque era a tal punto malato che lo ricoveravano in ospedale. Il figlio di una fervente cristiana e di un seguace di Marcus Garvey – modelli di cui farà ottimo uso – ne usciva parzialmente storpio a una gamba, nondimeno per ogni tribolato giorno speso in terra ringraziava Gesù invece di Haile Selassie e tale singolarità gli guadagnò presto il soprannome “Jesus Dread”.

Che personaggio, Vivian! Da giovanissimo si immergeva tra le pagine della Bibbia e, adolescente, prendeva ad emulare il Nazareno aggirandosi per l’isola a discutere di religione e approdando in una setta di rastafariani radicali di Kingston, prima della malattia e dell’arrangiarsi a vivere dando consigli sulle puntate al cinodromo. Non si faceva però piegare da nulla, quest’uomo che quando non ragionava sulle sacre scritture letteralmente “sentiva” la musica emergere attorno a sé, come “qualcosa di strano dentro ai miei pensieri, un angelo che canta.” Tra mille sofferenze seguiva l’ispirazione della natura e con la profondità dell’anima rispondeva alle torture inflitte al corpo da una vita per lo più grama.

Prophesy of dub

Ventisei gli anni quando debuttava a 45 giri con Conquering Lion, un classico immediato per le cadenze, la produzione dello stregone King Tubby e l’introduzione, che tramite il suo “Be you, yabby yabby you” – secondo il diretto interessato, dettata da degli angeli dopo che un lampo e un tuono avevano squarciato il cielo – offriva il nome d’arte che sappiamo. Pietra miliare sulla quale molti torneranno (fra questi Big Youth, Augustus Pablo, Horace Andy), veniva raccolta nel ’75 assieme ad altri singoli in un omonimo LP roots. Metà della scaletta sarà trasfigurata un anno più tardi per King Tubby’s Prophesy Of Dub, capolavoro assoluto (di Vivian quanto del sodale) che tuttora stupisce per la forza della sua essenzialità.

Re Tubby taglia fino all’osso attorno a ritmi e strumenti per rafforzare la visionarietà di brani che, ispirati al vangelo di San Giovanni, rispecchiano la situazione sociopolitica giamaicana e mondiale. Nonostante il senso di minaccia dell’Apocalisse prossima ventura, il risultato è intimo e colmo di meditazione, oltre che prezioso per il trattamento e l’impiego dei fiati, delle chitarre e di un parterre di musicisti dove spiccano Aston “Family Man” Barrett, Robbie Shakespeare, Chinna Smith, Tommy McCook.

smokin' Yabby

Puntate la ristampa Blood And Fire del ‘94 che aggiunge le superbe Living Style e Greetings a una scaletta originale in toto meravigliosa, dall’onirica Version Dub alle ipnotiche giostrine Homelessness e Anti-Christ Rock, dalla melanconia di Robber Rock alla solarità sospesa di Love And Peace, passando per l’attacco ska che introduce la flessuosa innodia di Conquering Dub e le Zion Is Here e Hungering Dub da manuale della version. A cotanto splendore affiancate – come minimo – la fenomenale retrospettiva Jesus Dread 1972-1977 e lo scintillante Dub It To The Top: 1976-1979, ristampa di un LP del ’77 intitolato Yabby You Meets Michael Prophet: Vocal & Dub.

Entrambi sempre editi da Blood & Fire, pescano dal periodo d’oro di un uomo che non si sa come trovava anche tempo ed energia per produrre Big Youth, Dillinger e Willie Williams. Dopo aver cercato di istillare un po’ di misticismo nella mondanità sfrenata dello stile dancehall, lungo i Novanta l’aggravarsi della condizione fisica obbligherà Jackson a scegliere tra dischi (sempre meno) e concerti in cui dovrà reggersi con le stampelle. Spirito vivo come pochi altri, lasciava questo mondo il dodici gennaio di otto anni fa. Sia lodato in eterno per quanto ci ha offerto.