Comus: la bestia nera

I puristi sono spesso brutta gente che il tempo sputtana a dovere. Prendete le critiche all’elettrificazione del folk albionico: alcuni diedero dei “giuda” ai Fairport Convention e poi sappiamo com’è finita. Eppure qualcuno ancora non accetta che un patrimonio debba adattarsi a nuove temperie per restare vivo, come un cerchio che si apre e richiude all’infinito. Costoro si perdono belle faccende – ad esempio Bellowhead, Owl Service, Tunng e Unthanks – che, pur nella diversità dei linguaggi, trovo legate da un filo rosso ai “genitori” che mezzo secolo fa si ispiravano al retaggio pagano.

Quel filo è il senso di avventura che trasforma il guardarsi indietro in un passo avanti: la norma, nella coda dei sixties dove i Comus spargevano a piene mani il medesimo approccio misterico verso la natura dei coevi cult movies “Wicker Man” e “Blood On Satan’s Claw”. Un idem sentire che affrontava il tramonto di un’era di ottimismo e che li spinse a rileggere il passato con omonimi numi tutelari il dio greco dell’eccesso e il personaggio di un masque di John Milton.

comus

Sì, perché quel fauno delle foreste era eerie e weird (“strano” e “misteriosamente spaventoso”) come la band di Roger Wootton e Glenn Goring, studenti d’arte del Kent che a fine decennio suonano la chitarra e cantano ispirati da Pentangle e Incredible String Band ma pure da Stravinsky, Bartòk, Velvet Underground. L’apertura mentale incontra scarso favore finché all’Arts Lab di Beckenham l’organizzatore della serata – un certo… David Bowie – li prende in simpatia.

Il compagno di studi Chris Youle diventa manager e suggerisce la ragione sociale mentre si aggregano il violinista Colin Pearson, il bassista Andy Hellaby, la cantante Bobbie Watson e il polistrumentista Rob Young, donando venature progressiste a un gruppo che dal vivo sprigiona fascino ambiguo. Il celebre free festival con Bowie, Strawbs e Bridget St. John e il supporto al mentore alla londinese Royal Festival Hall persuadono la RCA a proporsi tramite la “filiale” underground Neon. Quando un cambio ai vertici blocca il progetto, Youle contatta la Dawn, i sei riscattano di tasca propria l’accordo precedente e nell’autunno 1970 entrano in studio con Barry Murray.

First Utterance

L’uomo dietro Mungo Jerry fatica ma lavora bene – magistrale il finale, dove il grido “insane” viene sballottato nell’immagine stereofonica – su First Utterance, preceduto nei negozi il febbraio successivo da un pregevole EP con Diana più l’ipotesi di Love e Jefferson Airplane traslocati a Glastonbury In The Lost Queen’s Eyes e la tesa favola Winter Is A Coloured Bird. Racchiuso in una splendida copertina disegnata da Roger – suo anche l’artwork di Tone Float degli Organisation, l’anticamera dei Kraftwerk – l’album è uno sconvolgente, eccelso a sé che intreccia elaborati arazzi di corde, flauto e percussioni mentre le voci narrano vicende di follia e omicidio. Musica acustica di rara potenza e madre del folk apocalittico: prova ne siano lo stravolgimento che David Tibet opererà su Diana e una Drip Drip che, in un sabba, mescola gighe e suggestioni da italica colonna sonora, gli aromi balcanici di The Bite e l’epica zingaresca The Prisoner, il convulso abbandono dionisiaco Song To Comus e una The Herald che – sogno o son desto? – anticipa certa post-cameristica in bilico tra pastorale e nevrotico.

Lo sfoggio di eccentricità cade però nel vuoto, Young lascia (lo rimpiazza Lindsay Cooper, poi negli Henry Cow) e il clima si inasprisce quando l’etichetta respinge un LP articolato in due suite. Puntuale lo scioglimento nel ’72, dopo che Youle è passato alla Polydor tedesca. Su richiesta della Virgin, entro un biennio Roger, Andy e Bobbie incidono con altri strumentisti la bigiotteria pop-prog To Keep From Crying, che non va da nessuna parte come del resto l’imbarazzante 45 giri di Wootton posteriore alla nuova separazione. Avanti veloce a metà anni Novanta: l’industria della ristampa digitale lavora a pieno regime, First Utterance rispunta dall’oblio e quando arriva internet il culto un po’ si allarga.

Nel 2005 la Castle recupera l’integrale discografico sul doppio CD Song To Comus: The Complete Collection e i membri originali si ritrovano per festeggiare e ricominciare, tutti meno Young. Un decennio fa eccoli esibirsi a un festival svedese invitati dai fan Opeth (testimonianze in East Of Sweden) e più tardi recapitare Out Of The Coma, saggio di continuità in tre tracce nuove più uno spezzone live d’epoca della The Malgaard Suite respinta dalla Dawn. Come a dire: cerchi che si aprono e si chiudono all’infinito.

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Ty Segall diventa (un) grande

L’ultima cosa che mi interessa al mondo è insegnare agli altri come vivere. Nondimeno, se scrivi di una forma d’arte devi prendere delle posizioni e, uh, giudicare, ma proprio perché questo verbo sa essere mostruoso e sgradevole, cerco di esercitare più cautela possibile. Venendo al punto: fino a ieri trovavo Ty Segall bravo e poco disposto a lasciarsi incasellare, tuttavia frenato da una iperproduttività un poco dispersiva che pareva modus vivendi e quindi affar suo. Sorpresa, il fresco di pubblicazione Freedom’s Goblin lo mostra svincolato dal summenzionato handicap scatenando applausi a scena aperta.

Perché sotto l’impero di internet, quando la disponibilità del passato sonoro a prescindere dal contesto storico/sociale che lo generò si risolve spesso in una sequela di formalismi, arriva un giovane a metterci il cuore oltre all’ironia, a cavare dalla mescolanza dei linguaggi un’identità con la quale vestire canzoni geniali e belle. Dimostrando così che, rimossane la storia, gli stili possono essere puri invece che vuoti. Una gran bella differenza, no?

freedom's goblin

Di conseguenza non è un paradosso se il californiano giunge in vetta a cavallo di un mastodonte di un’ora e un quarto. Trent’anni e un decennio di frenetica attività alle spalle, l’unica maniera che ha di riassumere il suo multiforme talento è forgiare un arguto post classicismo psych-rock. La forza del quale sta – oltre che in una scrittura di altissimo livello – nello scuotere il passato con brillanti riscritture creative e la consapevolezza che si progredisce incrociando il già esistente. Da sempre, e a maggior ragione oggi che si ibrida di tutto e di più. Per questi motivi, nell’epoca pre-CD Freedom’s Goblin sarebbe stato un doppio come Tago Mago o Trout Mask Replica: per la durata, ma soprattutto per il dispiego di idee e per il suo porsi da summa estetica.

Messi da parte impossibili e insensati paragoni con gli altri Capolavori su quattro facciate qui citati (comunque un buonissimo segno), quel “2018” stampato sulla copertina dona ulteriore smalto alla maturità di Segall. Lampante al proposito la scelta di sistemare a fondo corsa la And, Goodnight che estende un vecchio brano in un’eccellente epica alla Crazy Horse. Idem per quanto riguarda l’uso mai scontato dei fiati, l’affiatata squadra di sodali, il confermato Steve Albini al mixer. Indicazioni preziose di un esito che è frutto dell’equilibrio tra istinto e ragione tipico dei grandi dischi.

glam Ty

Basta infatti il poker d’apertura a spiegare l’aria che tira: Fanny Dog vede Robyn Hitchcock aggirarsi tra i solchi di Exile On Main Street scortato dai Primal Scream, in Rain i Beatles ospitano Skip Spence e un’orchestrina mariachi arrangiata da Sun Ra inventando i Radiohead, la cover di Every 1’s A Winner rifila sculettando un giro di pista ai Black Keys e per Despoiler Of Cadaver Beck resuscita Prince in abiti electro. Ah, però. Altri passi d’autore nel lucido delirio i graffi da Contortions al top di Talkin 3, l’acidula You Say All The Nice Things, un Marc Bolan fissa conclamata di Ty che funge da spina dorsale della delizia I’m Free e si trasforma in Alex Chilton lungo la struggente My Lady’s On Fire.

Si vola in cento direzioni però tutto si tiene, eccome se si tiene. Al sarcasmo hardelico di She risponde l’elaborata sarabanda glitterata 5 Ft. Tall, per una The Main Pretender traboccante torbida sensualità c’è lo scontro frontale tra Supergrass e Devo di When Mommy Kills You, il babà misto Lennon e Harrison Cry Cry Cry siede comodo accanto alla centrifuga grunge del White Album di Alta. Zibaldone visionario e policromo, Freedom’s Goblin possiede il portamento e l’attitudine che appartennero ai Royal Trux: disinvolto, se ne frega di giochi citazionisti ed esercizi di stile per emergere dalla propria epoca, fotografarla e allontanarsene. Tra fiori e rottami, gioielli e cascami, la certezza di trovarsi al cospetto di un’opera destinata a rimanere cresce un ascolto dopo l’altro. Evviva.

D’amore e altri delitti

Cantava Ian Curtis che l’amore può farci a pezzi. Del resto il Sentimento Sommo si è disegnato così: rugginoso come un coltello o lieve come il respiro in inverno, entra nella vita senza chiedere permesso e scombina tutto. Quando sparisce non lascia biglietti, perché presto o tardi ritornerà. Così non smettiamo di credere in lui, sebbene tra una visita e l’altra ci pieghiamo sotto ricordi tristallegri, sensazioni assenti, aspettative frantumate. Finché un bel giorno – fateci caso: quel dì non piove mai – i cocci si sono arrotondati, brillano e non fanno più sanguinare. Chissà che la prossima volta quel birbante non decida di fermarsi per sempre…

Da par loro, gli scrittori di canzoni ne sanno ben più di qualcosa. Hanno la (s)fortuna di raggiungere milioni di persone ragionando sulle sciagure sentimentali. Autentiche o romanzate, non importa. Conta che un vinile divenga il luogo dove l’esperienza personale trascolora in universale; conta che l’ascoltatore si riconosca e si senta meno solo. La tradizione delle pene d’amor perdute è tagliata su misura per il songwriting e, lungo una strada non a caso lastricata di capolavori, conduce là dove l’amore fa male però bene.

blood-on-the-tracks

Giusto allora iniziare un rapido excursus dall’uomo che più di ogni altro ha segnato il secolo scorso: in Blood On The Tracks Bob Dylan distillava rancore e lo convertiva in poesia tramite vertici come Tangled Up In Blue, Shelter From The Storm e Buckets Of Rain. In un Classico che sancisce il definitivo addio ai Sessanta, spostava l’accento da “noi” a “io” riflettendo su una tormentata separazione e affidando a versi che qui esplodono e là ripiegano su se stessi la gamma di sentimenti racchiusa tra l’amara If You See Her, Say Hello e una rabbiosa Idiot Wind. Condotto da una voce inimitabile e un tessuto strumentale spartano però efficacissimo, di rado il tuffo in un pozzo d’ira e nostalgica recriminazione è stato tanto meraviglioso.

In un 1975 che gronda scontento e riflusso anche Paul Simon transita sotto analoghe forche caudine. Del vendutissimo Still Crazy After All These Years bisogna nondimeno leggere i testi per capirlo, giacché gli strascichi del divorzio sono avvolti in un jazz-rock solo a tratti ombroso e amarognolo. Coppie che scoppiano e altre che si ricongiungono: nella dolce My Little Town si riaffaccia Art Garfunkel e non sarà tutta colpa di Freud, altrimenti come spieghi l’appiccicosa 50 Ways To Leave Your Lover e il gospel’n’roll Gone At Last, il sax che scartavetra Have A Good Time e un’immensa Silent Eyes che diverge dal tema affrontando l’Olocausto?

paul simon

La spiegazione si chiama “talento supremo”. Esperta navigatrice delle maree emotive, in carniere Joni Mitchell vanta almeno due capi d’opera ed è il secondo in ordine cronologico a raccattare frammenti di vita per conferirgli un senso. Nell’anno del bicentenario americano, la Signora del canyon percorre in auto la terra d’adozione e raccoglie gli appunti seminati in Hejira tra folk trasparente (Coyote, Amelia) e fantasmatico (A Strange Boy), metafore indecise tra sogno e realtà (Song For Sharon, Black Crow) o polaroid in jazz (Refuge Of The Road).

Sulla sponda opposta dell’Atlantico il colosso Richard Thompson ha sempre sfoggiato una rara chiarezza di visione, sia nei Fairport Convention che da solo e con la (ex) consorte Linda. Del mazzo di LP editi con costei è l’ultimo a figurare nel club dei lonely hearts. Composto due anni prima ma temporaneamente accantonato, nell’82 Shoot Out The Lights sanguina folk-rock severo ed elegante, profetizzando l’allontanarsi del duo in un botta e risposta di ugole e corde magiche. Più che altrove, nella vespertina Just The Motion, nella dolente Did She Jump Or Was She Pushed e nell’innodica Wall Of Death.

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A volte ci si (ri)costruisce un domani vestendo ricordi e speranze con colori che paiono antichi e invece trattengono con sé la modernità. A inizio millennio Beck sorprendeva con la quiete apparente di Sea Change, meditare sulla separazione da Winona Ryder che chiudeva temporaneamente in un cassetto lo stupefatto cinismo della Generazione X e le mirabolanti contaminazioni rifugiandosi in alvei elettroacustici (The Golden Age, It’s All In Your Mind) e ossimori sonori (Lost Cause), in orchestrazioni spedite dietro ai moti dell’anima (Paper Tiger, Lonesome Tears) e reinvenzioni drakiane (Round The Bend, Side Of The Road). Sintesi perfetta di antico e moderno che consegnava un apice in seguito mai più raggiunto.

Annotazione che vale anche per Jason Pierce, rientrato ventuno anni fa nella Storia – già vi erano stati gli Spacemen 3 – con Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space. Parte integrante del DNA di Mr. Spaceman è la caparbietà con la quale esorcizza crisi esistenziali e di salute attraverso il potere catartico del suono. Essendo il presupposto di Ladies And Gentlemen… l’addio dell’Astronauta a Kate Radley, fidanzata e tastierista della band che gli aveva preferito il clone Richard Ashcroft, l’alterazione mentale si fonde all’afflizione in un album immane e unico. Psichedelia che si fa gospel che si fa wall of sound spectoriano sul confine (im)possibile dove Philip Glass produce gli MC5 e i Suicide nascono a New Orleans, scaglia nel più alto dei cieli melodie di una bellezza che sbrindella l’anima.

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Il ritorno sulla terra sarà relativamente più agevole accostandosi a Domestica, che nel 2000 esemplificava al mondo l’emocore, evoluzione ultima del punk piegata nella sincerità confessionale dell’hardcore. In un ambito assai affollato, i Cursive – band del Nebraska che ruota intorno al cantante Tim Kasher – si sono ritagliati un ruolo primario soprattutto in ragione di questo terzo LP. Strutture complesse, canto espressionista e oblique allegorie incentrate sul disfarsi della vita coniugale compongono un intenso rosario di canzoni. Come spie nella casa dell’amore che non c’è più, gioielli della caratura di The Martyr e A Red So Deep sigillano il genere un attimo prima che si trasformi in baggianata per adolescenti.

Chiude il cerchio Justin Vernon/Bon Iver, ennesimo cantautore nascosto dietro una sigla “da gruppo” che un decennio fa debuttava con lo scintillio For Emma, Forever Ago. Oggi Justin per lo più suscita sbadigli, ma all’inizio fu un moderno Thoreau disilluso dall’amore che leniva le ferite nei boschi del Wisconsin. Dopo alcuni mesi in parte spesi a spaccare legna e camminare per “svuotarsi” fisicamente, offriva saggi di post-folk minimale e accorato che trascinano dentro l’essere umano. Incurante di epoche e mode, è un’opera destinata a durare nel tempo come le altre che ho radunato qui, per testimoniare quanto soffrire lasci tracce indelebili e come queste cicatrici, in qualche bizzarra e fascinosa maniera, ci possano cullare. Anche se only love can break your heart, buon San Valentino a tutti…

 

I Mad River alle fonti dell’oblio

Anno nuovo e nuova rubrica di “Turrefazioni” per scacciare la noia, brutta bestia che striscia ovunque e può minare persino sentimenti e passioni. Meno male che esistono film, libri e dischi che ne sono immuni e ci restano accanto per la vita. Spesso non si tratta neppure di Capolavori Assoluti: grazie tante, fin troppo facile amarli quelli. Parlo semmai dei gioielli personali le cui lacune – quando esistono – sono in realtà pregi e ponti stesi sul cuore. Questo il senso di “Perfetti ma non troppo” e per spiegarmi (spero) meglio voglio inaugurare la serie con una storia intessuta di what if.

Tra i grandi della Bay Area “acida” i Mad River sono i meno noti e non ci si crede, ché nonostante le affinità con Quicksilver Messenger Service e Country Joe & The Fish erano davvero unici. Su atmosfere psicotiche e attorno al cantato teso e stranito, sapevano costruire con naturalezza brani assai elaborati. Un fascino peculiare, il loro, tramandato negli anni tra pochi adepti – e colleghi di diverse generazioni: Television e Polvo per l’ordito di chitarre e i climi; Motorpsycho e Pontiak quanto a strutture e piglio – creando un alone mitologico. Pienamente giustificato.

MR golden gate

What if, parte prima. Che ci saremmo persi se i ragazzotti di Yellow Springs avessero preferito la carriera… Correva l’anno 1966 quando alla locale università Lawrence Hammond (voce, basso), Greg Dewey (batterista: unico liceale), David Robinson e Tom Manning (chitarristi) passano dall’esplicativa Old Time Jug Band al blues secondo Paul Butterfield, che con l’epocale East/West ha testé introdotto nel genere dilatazioni e scale orientali. Ascolta anche folk, la Mad River Blues Band, e verrà presto utile come l’apertura mentale che spinge verso raga e jazz. Poco ricettivo l’Ohio, il gruppo si trasferisce nell’eldorado lisergico a ovest dopo aver accolto la terza (!) chitarra di Rick Bockner. Mentre prepara le valigie, abbandona un paio di ormai inutili suffissi e registra anche un demo, apparso nel 2011 su Jersey Sloo, vinile ufficiale Shagrat che aggiunge materiali di poco antecedenti lo scioglimento.

Ho tuttavia corso a perdifiato come un’anfetaminica gazzella (leggete oltre…) e riavvolgo il nastro a classici giorni di California: una magione di Berkeley dove abitare e suonare insieme, pochi soldi e molta fame, lo scrittore Richard Brautigan che prende la banda in simpatia, la sfama e introduce nel giro beat. La svolta un omonimo EP a 45 giri sulla microscopica Wee Records. Insensato svenarsi per un originale del ’67, gustatene il contenuto – A Gazelle e Windchimes recuperate sull’esordio lungo, più lo spigoloso folk-rock Orange Fire – in The Berkeley EPs, CD Big Beat che a metà Novanta lo raccoglieva con analoghe imprese di Country Joe, Notes From The Underground, Frumious Bandersnatch.

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In qualche modo il 7” arriva alle orecchie di alcune major e sarà la Capitol a deviare il Fiume Pazzo negli studi Golden Gate Sound con Nick Venet. Gli hippie militanti si scontrano con il navigato professionista incapace di capirne stile e background, ma anche a dispetto del poco tempo per provare la scaletta portano a casa il risultato. E che risultato! Da mezzo secolo Mad River si racconta sublime negli aspri viluppi di corde, nelle strutture complesse e nella penna visionaria. Gioiello al contempo iridescente e opaco, si apre con lo sprintato riassunto Merciful Monks e nel prosieguo dipana accorato blues “corretto” (High All The Time), trascinanti frenesie (Amphetamine Gazelle) e bizzarre incursioni etniche (Wind Chimes).

Da favola il finale, dove i dodici minuti di War Goes On ipotizzano, tra cupi slarghi e assoli fiammeggianti, dei King Crimson a stelle e strisce incamminati su un sentiero di chitarre taglienti e batteria jazzata. Passata la tempesta, l’oasi acustica Hush, Julian esorta a ripartire. Iniziano qui i problemi: l’LP esce con i nastri accelerati (pare a causa di un errore tecnico) e i Mad River perdono fiducia in un’etichetta che comunque non li sta promuovendo. Tom saluta per laurearsi e si entra a fatica nei Top 100 di “Billboard” malgrado concerti a San Francisco, nel nord della costa e in Canada.

mad river lp

What if, parte seconda. Fossero stati i Mad River meno disillusi, Paradise Bar And Grill avrebbe sterzato con un pizzico di convinzione in più e oggi racconterei un’altra vicenda. Forse. Chissà. Di certo il secondo e ultimo lavoro della formazione si affida alle radici con motivazioni profonde. La scena che aveva scagliato i nostri eroi nello spazio (interiore e non) stava per spegnersi e il sistema reagiva trasformando la controcultura in una moda e rimpiazzando l’LSD con l’eroina. La risposta nel tumultuoso 1969 fu un alveo confortante che in anticipo sui Grateful Dead recuperava l’educazione sonora di gioventù e adombrava le tensioni. Benché un po’ discontinuo, Paradise Bar And Grill brilla tuttora negli omaggi a John Fahey (meglio Harfy Magnum della pastorelleria Equinox), nell’omonimo country corale e quello svelto di Copper Plates, nella virile melanconia di Cherokee Queen.

Essendo impossibile ritornare del tutto a un’Arcadia fittizia, gli apici stanno però là dove riaffiora il recente passato e cioè nell’elegante frenesia esclusa dall’esordio di They Brought Sadness e nell’amaro psych-hard Leave Me/Stay. Galantuomini, in Love’s Not The Way To Treat A Friend i Mad River lasciano recitare una poesia a Brautigan, dopo che con una parte dell’anticipo contrattuale già gli avevano finanziato il volume “Please Plant This Book”. Siamo all’epilogo. Stanchezza, frustrazione, Vietnam. Si torna sui libri per evitare l’arruolamento e grazie dei ricordi. Prima di scambiare la chitarra con lo stetoscopio, nel ’76 Lawrence Hammond pubblica il solistico Coyote’s Dream per la Takoma di Mastro Fahey. Tanto per cambiare, una delizia roots destinata a essere culto per antonomasia. Ennesima dimostrazione che nel mondo non c’è giustizia, e adesso spetta a voi rimediare.