Mai fidarsi dei bassisti… O meglio: fidarsi eccome, ché possono rivelarsi il vero fulcro del gruppo ben oltre lo strumento che spesso si pensa scelto per pigrizia mentale o in ragione della presenza in squadra di più abili chitarristi. Penso a Holger Czukay, a Paul McCartney, a Brian Wilson. Mi sovvengono John Paul Jones e Mike Mills, Kim Deal e Jah Wobble e, arrivando al dunque di quanto sto per raccontare, David “J.” Haskins. Nei Bauhaus era il suo rimbombo metallico però sensuale a legare il martellare percussivo del fratello Kevin, la voce da “Ziggy Zombie” di Peter Murphy e la chitarra acuminata di Daniel Ash.
Un magico amalgama che travalicò il sottogenere da costoro in larga parte forgiato e codificato attraverso tangenti tardo crimsoniane, post-psichedelia, dub e funk macerati in candeggina. Si divisero all’apice, i Bauhaus, allorché il goth – o come ancora qualcuno lo chiama da noi, “dark” – stava scadendo in sceneggiata. Pazienza se hanno ceduto alla reunion e attualmente festeggiano il quarantennale in duo. Nientemeno! Qualcuno gli spieghi che, dopo il primo sabba che non si scorda mai, perseverare può essere diabolico ma anche patetico.
Comunque sia: tutt’altro che un comprimario, David. Della band fu fondatore, autore e responsabile della caratteristica aura arty elegante e spontanea. Parlò subito chiaro la carriera solista, impreziosita da un disco (al momento in cui scrivo, secondo di nove) che i decenni hanno reso splendido al punto da adombrare le altre imprese dell’autore, dai Love And Rockets alle produzioni passando per svariate collaborazioni (intrigante quella con il fumettista Alan Moore: dice niente “V for Vendetta”?) e musiche per il cinema.
Partì bene il Signor J. nell’83: Etiquette Of Violence si raccontava viziosamente cabarettistico a, ehm… ceneri dei Bauhaus ancora tiepide, così che vi regnano atmosfere urbane crepuscolari e malinconiche. Un titolo assai prossimo a John Cale – palese e riconosciuto modello di Haskins – ne spiega il cantautorato wave sperimentale odoroso di traballanti luci al neon. Baciato in chiusura dall’incanto acustico Saint Jackie, pochi lo notarono e il Dottore rispose frequentando la premiata bottega dell’amico Pat Fish, al secolo Jazz Butcher.
Poi arrivò il 1985. Annata eccezionale e giusto per attenermi ai classici: Rain Dogs, Psychocandy, The Wishing Chair, Fables Of The Reconstruction, Exploring The Axis, Rum, Sodomy & The Lash. Nel mezzo della vendemmiata spuntò con discrezione un trentatré dall’artwork cinicamente romantico: in copertina, una sigaretta appena orlata di rossetto giaceva abbandonata su un cuore/posacenere, a lasciar immaginare la morte di un amore in punta di plettro e ugola mentre la luce fa capolino dalle finestre e la primavera scalpita dietro l’angolo. Anche senza ascoltarlo, sapevo che lo avrei adorato vita natural durante. Infatti.
Di già quiet but loud per forma e attitudine, Crocodile Tears And The Velvet Cosh prende le mosse dove il predecessore terminava per incrociare i DNA di Lou Reed e Nick Drake (la title-track, The First Incision, Light And Shade) e piegare il folk in volute di jazz minimale (Stop This City, René). Quando non porge morbidezze dal retrogusto teso (The Ballad Of Cain, The Vandal And The Saint), schiude la magia al contempo severa e dolce della fiaba Justine e degli omaggi alla giovane Scozia di Too Clever By Half e Imitation Pearls. Gioiello di culto che non stanca mai, lo scopro incastonato nell’anima in compagnia di memorie accartocciate, nostalgie assassine, rimpianti traditori. A ricordare che in fondo siamo tutti luce e ombra. E che il bello, in fondo, sta anche lì.