Quei bastardi pieni di gloria (underground) degli Oneida non avrebbero potuto essere figli che di New York. Parlano chiaro al proposito lo spirito e le opere di una formazione mai sedutasi sugli allori da che iniziò a mescolare post-punk, psichedelia deviata, Seventies germanici, rumorismo. Ossimoro perfettamente funzionale, il loro stile è originale e attuale nella misura in cui mostra radici evidenti. Allo stesso modo, risulta vario perché edificato sul gusto per l’intarsio minimale e su un acuto senso per la reiterazione che – come insegna la malanima di Mark E. Smith – è faccenda ben diversa dalla ripetitività.
Così, brani che al primo impatto paiono monotoni e abrasivi senza causa sono invece pregevoli esempi di un cannibalismo sonico che fa male solo a quelli che nel rock benpensano. Per goderselo serve una certa pazienza, mentre per essere gli Oneida occorrono genio e coraggio. Tuttora ne hanno da regalare a chi ne è privo, i ragazzi, come quando sfacchinavano nel quartiere di Williamsburg un lustro prima che Rapture, Radio 4 e Yeah Yeah Yeahs lo rendessero cool. Di essere fighi, agli Oneida importa comunque zero. Preferiscono pasticciare in una cantina male illuminata con il ghigno del pazzo che sa cosa sta facendo.
Al di là di visioni idealizzate della faccenda, rimangono gente difficile da incasellare. La sanno lunga, e lo dimostrano strutturando perfette collisioni elettro-kraut-garage sferzate di ritmo e noise. Roba buonissima che conduce là dove i confini sfumano nell’apertura mentale e si aborrono le mezze misure, cioè in un Each One Teach One che garantiva loro gli annali e al trittico composto da Secret Wars, The Wedding e Happy New Year, che tramite splendide canzoni ci scortava fuori dalla discarica a guardare il cielo.
Dopo di che la banda ha sterzato indietro verso altre sperimentazioni e una collaborazione con Rhys Chatham, ma la giravolta pareva un po’ involuta. Quando li credevo consegnati a una mezz’età di onorevole mestiere, Romance mi ha mandato al tappeto in uno scrosciare d’applausi. Comunque lontani da scelte e soluzioni (relativamente) convenzionali, i nostri finti sbandati riconnettono qui i fili di un’intera carriera. Fissano il tempo che passa in un istante di ingegno incompromissorio e di follia dotata di metodo. Hai detto niente.
Collocata in primo piano una batteria possente e pirotecnica, lastricano la decostruzione rock di intenzioni ottime quanto gli esiti: trappole malate e tuttavia irresistibili (la missiva ai fratellini Suuns It Was Me, l’elegante scontro frontale tra Can e Silver Apples di Reputation); geometrie tanto astratte da divenire fisiche (Good Cheer travasa tribalismo e feedback in una tossica poltiglia, All In Due Time cala il magistrale asso motorik-pop); tour de force che danno dipendenza (Cedars: post-goth muscolare e orroroso; Bad Habit: i Suicide in una Ruhr del dopobomba; Lay Of The Land: sublime manifesto estetico); saggi di esaltante paranoia (Economy Travel l’ascolterei volentieri esplodere in un remix DFA, Cockfight pugnala con classe la “nuova” new wave anni zero).
A fine corsa, riassumendo e decollando per nuovi altrove, Shepherd’s Axe immagina i Grateful Dead che, indecisi se recitare da Velvet Underground o da Tangerine Dream della West Coast, rifanno A Saucerful Of Secrets negli angoli di Tago Mago. All’incirca, poiché questi settanta minuti densi e magmatici sfuggono a facili spiegazioni sin da un titolo solo in parte ironico. Dalla sua atmosfera caliginosa, infatti, emerge poco alla volta un’anima umanamente cinica e romantica. L’anima della sibilante, malinconica Good Lie e di un gruppo immenso tornato per incendiare i neuroni a fin di bene. Siategli riconoscenti.