Buffalo Tom e Breeders: adult oriented indie rock

Fu un ritorno particolarmente gradito non solo per questioni di cuore, quel Three Easy Pieces che nel 2007 riportava i Buffalo Tom sulle scene. Ci sentivo tutta la grandezza della formazione americana senza che il passato divenisse presenza ingombrante o, peggio ancora, schiacciante. E pazienza se sette anni or sono Skins si raccontava episodio appena discreto nel quadro di una produzione dalla media elevata. Bene lo stesso, siccome non avevo nulla da chiedere agli artefici di Let Me Come Over, Capolavoro che da un quarto di secolo – festeggiato nel 2017 con ristampe e concerti – troneggia nei dischi della vita di tantissimi, chi scrive incluso. Tuttora scintillante, il suo matrimonio tra rock classico e prefissato indie fu l’evoluzione che stracciò la maligna etichetta “Dinosaur Jr. jr.” all’inizio affibbiata ai ragazzi in ragione di evidenti assonanze.

Ammettiamolo: fu pigrizia ingenerosa e venne puntualmente smentita. E ammettiamo anche che il boom alternative appare oggi distante “ma anche” vicinissimo. Per gli echi che possiamo ascoltare ovunque, per i ritorni celebri – leggete più avanti al proposito – e per la mediocrità che spesso affligge le nuove leve. Dati nondimeno insufficienti a spiegare fino in fondo l’attualità di un impasto tra lirismo a squarciagola, chitarre stellari, innodia e romanticismo. C’è altro. C’è uno spirito che della nostalgia canaglia se ne frega e che, usando il linguaggio sonoro che trova più consono, si confronta con la maturità. Per questo non scadono in pantomima l’acustico sentire frustato d’elettricità e un’emotività che racconta il mondo tra le righe.

buffalo tom

Su tali pilastri il gruppo formatosi ad Amherst (lì nacque e visse Emily Dickinson: accarezzo l’idea che non si tatti di coincidenze) ha costruito una carriera che avrebbe meritato di più commercialmente. Tuttavia così va la vita e tocca farsene una ragione, in parte confortati dall’evidenza che costoro non hanno fatto la fine di sua mediocrità Evan Dando. E che mai la faranno. L’album numero nove Quiet And Peace suscita infatti paragoni attitudinali con i Teenage Fanclub e, quel che più conta, applausi: quando i tre pigiano sull’acceleratore (All Be Gone, Lonely Fast And Deep, Slow Down), quando dipingono robusti quadretti remiani (Roman Cars, Freckles), quando affrontano le radici nell’autografa See High The Hemlock Grows e in una The Only Living Boy In New York a firma Paul Simon. Alla voce compare Lucy Janovitz e, sì, è la figlia di Bill. Gesto colmo di significato, da veri Signori. Alzi la mano chi ne dubitava.

Aria di Novanta… contemporaneamente al trio del Massachusetts riecco anche le Breeders originali (a beneficio di giovanissimi e smemorati: le sorelle Kim e Kelley Deal; l’inglese Josephine Wiggs; il maschietto Jim Macpherson) rinvigorite a dovere. Dopo la riproposizione “live” dell’epocale Last Splash, dimostrano anch’esse di aver recuperato quell’alchimia che latitava negli ultimi album. Non avete idea del piacere di renderne conto o forse sì. Un piacere per certi versi simile al vedere Kim Deal confermata nel ruolo di autentico motore dei Pixies. Parlo del momento in cui la puntina si posò su Pod e sulla succitata venticinquenne replica. Sembra ieri e che favolosi scherzi gioca Cronos di tanto in tanto, considerando che bastano quegli splendori a cancellare il Black Francis solista e l’insensata reunion dei Folletti.

Breeders

Tornando al qui e ora, il rischio rimaneva il solito e cioè che le celebrazioni si risolvessero in un “come eravamo” patetico e privo di senso. Era esattamente l’inutilità di fondo il morbo che affliggeva Mountain Battles e Title Tk, lavori (di una band composta da Kim più mediocri comprimari: questa una plausibile spiegazione) apprezzabili per la determinazione ad allontanarsi dai cliché e viceversa deludenti nell’esito. Uno scolorito timbrare il cartellino che non si addice(va) a gente di blasone e talento siffatti e bravissima la diretta interessata a capirlo. La mezz’ora abbondante di All Nerve spiega già dal titolo un’urgenza libera di donare fresca linfa agli ingredienti di sempre: l’esecuzione ruvida e accurata; un melodiare sorto però pure a presa rapida; quella dinamica “loud/quiet” entrata nel lessico rock tramite i Nirvana.

Ascoltatela luccicare in Nervous Mary e Wait In The Car, in Skinhead #2 e Blues At The Acropolis: coppie che, rispettivamente, inaugurano e sigillano un LP solidissimo che va giù tutto d’un fiato e cresce con gli ascolti. Un LP che nel mezzo sistema oasi di obliqua dolcezza (la title-track, parente prossima di I Bleed; Dawn: Making An Effort, che “Spin!” dice perfetta per un film di David Lynch: concordo pienamente), sensualità ombrosa (Metagoth, Howl At The Summit), gomitoli che avvolgono inesorabilmente (l’apice Spacewoman, la crepuscolare ballata Walking With A Killer) e la fenomenale appropriazione di Archangel’s Thunderbird degli Amon Düül II. Di nuovo, come per i Buffalo Tom, è un brandello di storia sfidato ad armi pari, un altro cerchio chiuso. Sono altri applausi, soprattutto altra classe. Chapeau.

 

 

 

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Ritratto del genio da giovane: Steve Winwood nello Spencer Davis Group

Nella storia del rock poche ragioni sociali mentono come il gruppo di Spencer Davis, autentico fulcro del quale era invece Steve Winwood. Gli auguro buon settantesimo compleanno in ritardo, sbalordendo un’ennesima volta al pensiero che da giovanissimo già maneggiava disinvolto un tot di strumenti, cantava con potente ugola negra e scriveva classici mischiando groove, pop, beat. Roba magnifica che dall’esempio di Graham Bond rileggeva le radici black aggiungendo intuizioni proto psichedeliche. Indicata la strada a Paul Weller e Prisoners, a Inspiral Carpets e Charlatans, Stevie White Wonder ha perso il conto dei passati elogi – tutto vero! – per “la cover dei Blues Brothers”, ossia la travolgente Gimme Some Lovin’ da lui vergata… Nondimeno i suoi inizi non furono semplice palestra ma il primo accesso agli annali.

Birmingham, 1963: il ventiquattrenne Spencer Davis alterna l’insegnamento del tedesco a notti nei pub suonando folk e blues. Si imbatte nella Muff Woody Jazz Band, appena transitata da John Coltrane a Muddy Waters, e resta di stucco ascoltando un quindicenne abilissimo a tastiere e chitarra, cresciuto col fratello Muff (bassista, nato Mervyn un lustro prima) pestando sul pianoforte di casa, cantando in chiesa e accompagnando il babbo in un combo jazz. Subito coinvolge l’amico batterista Pete York in quello che, divenuto Rhythm And Blues Quartette, non sfugge a Chris Blackwell. Costui ha un marchio – per i più smemorati, la Island – che tramite il successone My Boy Lollipop sta passando da importatore di vinili giamaicani a etichetta. Offrendo la distribuzione Fontana e la gestione delle edizioni, batte la Decca mentre Muff ribattezza la cricca, identificando nel docente gallese l’uomo adatto alle relazioni pubbliche.

SDG mini

La primavera ‘64 saluta il primo singolo Dimples, cavallo di battaglia del John Lee Hooker che l’autografa Sittin’ And Thinkin’ innervosisce il giusto. Discreto e commercialmente un fiasco, viene superato da successori dritti nei Top 50: I Can’t Stand It/Midnight Train accoppia tagliente beat’n’blues e sferragliare rock, Every Little Bit Hurts/It Hurts Me So sfoggia un’accorata ballata Motown e il primo gioiellino di Steve. A 1965 inoltrato rieccoli su Their First LP con il lento blues dall’organo rigoglioso Here Right Now a svettare su qualche calligrafismo e apprezzabili omaggi a Coasters, Little Walter, Ike Turner. La svolta si chiama Jackie Edwards, compositore caraibico assoldato da Chris dopo che l’LP ha venduto mica male. Spartiacque e primo capolavoro, l’errebì garagista Keep On Running scalza Day Tripper dalla vetta a sberle di basso imperioso e chitarra fuzz.

Il successo investe poi il continente con Somebody Help Me, sempre di Jackie, e terza sarà la posizione di Second Album nel gennaio ’66. Stefanino si misura con Ray Charles e Curtis Mayfield,  venature country e dodici battute traslucide attraversando la musica nera nell’epidermica Strong Love, nell’innodico gospel poppizzato (o viceversa) Look Away e nella dolceamara Let Me Down Easy. Brani altrui che influenzano una crescita sancita da When I Come Home, hit della calda estate ’66 con Edwards.

SDG standing

La swingante Londra è tuttavia in rapida mutazione e il moderno Mozart scorge il futuro. Anzi: contribuisce a inventarlo. Col senno di poi, Autumn ’66 mostra la commistione tra folk, blues e psichedelia presto perfezionata dai Traffic nel ponte tra Jimmy Smith, Booker T. e acid jazz On The Green Light, nel retrogusto funk di Neighbour Neighbour, nella tesa High Time Baby. Altrove, il desiderio di abbandonare sonorità ormai troppo consuete non impedisce a Midnight Special e Dust My Blues di brillare della calda malinconia di un’epoca al tramonto.

Avanza tempo per una Gimme Some Lovin’ buttata giù in un’oretta per conquistare gli Stati Uniti e accrescere in Winwood la fiducia. Il contrappasso? Stress, la pubertà spesa tra palchi e studi di registrazione, un’eccessiva differenza di età e soprattutto talento con gli altri. Nel gruppo non ci si rivolge la parola mentre il prodigio stringe amicizia col produttore Jimmy Miller, inventa l’esaltante dinamismo di I’m A Man e onora annoiato gli obblighi contrattuali.

8 gigs a week

La separazione data inizio 1967. Little Stevie saluta, Muff è assunto da Blackwell come talent scout – buono il fiuto: Sparks e Dire Straits – e una vuota sigla arriva al decennio seguente tra rimpasti, LP scialbi e la trasferta californiana di Davis. Tralascio dettagli inutili consigliando l’integrale in studio raccolto sul doppio CD Eight Gigs A Week: The Steve Winwood Years. Detto che il quartetto originario si riunirà solo negli ’80 in tribunale per una causa legata a royalties non pagate dalla Island, annoto che dal 2006 Spencer circola con ben due versioni del “suo gruppo”. Qualcuno lo faccia smettere, per favore.

Il maestro prodigo Ry Cooder

Cosa ci saremmo persi se Ryland Peter Cooder non fosse mai nato… Per attenermi all’indispensabile: un musicista poliedrico che odia i virtuosismi; un compositore di colonne sonore per lo schermo e la mente; un’enciclopedia dell’Americana dalle radici alle ali e ritorno; un infaticabile indagatore di culture. Aspetti complementari del Genio che ritrovo esplicitati o tra le righe in The Prodigal Son, lavoro fresco di stampa con i crismi del sunto di carriera. Del gesto che prova a fermare la clessidra con l’unico mezzo disponibile a un essere umano: l’Arte.

Un’Arte tanto più pura quanto più si contamina, pescando dal fluire del tempo e nel tempo accomodandosi mentre parla degli Stati Uniti, di storia e leggenda, di spiriti e spirituals. Che si tratta di un auto-compendio lo provano il ritorno del settantunenne a trascorsi metodi di registrazione e il dominio quasi assoluto sul parco strumenti, con giusto un paio di ospiti e batteria e coproduzione affidate al rampollo Joachim. Soprattutto, lo sguardo rivolto a quando iniziava a donare nuova linfa alla tradizione, trattenendone i significati e travasando la contemporaneità in una sapienza musicale assoluta.

Prodigal Son

Ora come allora, è il passato che spiega dove sta (e stiamo) andando. Lontano, vi dico, perché questi cinquanta minuti si aggiungono all’epopea di Chavez Ravine e all’Esopo traslocato nella Grande Depressione di My Name Is Buddy. Senza nulla togliere al discreto I, Flathead e completando il quadro con lo sbocciare di una rimarchevole cifra autoriale, sono un altro pugno di istantanee così antiche da essere più che mai vive.

Per loro tramite, l’uomo di Santa Monica tira le fila di una fulgida vicenda lunga più di mezzo secolo, che dai Rising Sons – via Captain Beefheart e Randy Newman, Little Feat e Van Dyke Parks e Stones – plana nel cuore di una carriera solista partita (e qui il cerchio si chiude perfetto) affrontando proprio Blind Willie Johnson e Woody Guthrie. Poi sarebbero giunti tex-mex, gospel, soul, le Hawaii, il Buena Vista Social Club, Talking Timbuktu… In giorni più vicini, un libro di racconti e l’impegno politico di Pull Up Some Dust And Sit Down ed Election Special. Tuttavia la fonte era e resta l’anima di un uomo. Il blues.

Ryland

The Prodigal Son lo inzuppa in gospel e country su consiglio di Joachim: pensate che meraviglia, figlio e padre prodighi che omaggiano altri padri scagliandoli oltre il Duemila in atmosfere che disegnano un più terrigno e solare Oh Mercy. Esemplare l’incipit Straight Street dei Pilgrim Travelers, pescato dai ’50 e rivestito di nuove corde, pelli, voci d’ebano. Una delle quali appartiene a Terry Evans, amico e fidato collaboratore scomparso di recente: eppure non è triste – virilmente melanconica, piuttosto – l’elegia tallonata dal caracollare spavaldo di Shrinking Man e da un’elettroacustica Gentrification affacciata sull’Africa sub sahariana.

Autografi sensazionali che si saldano senza cesure ai traditional (la title-track immagina John Fogerty negro ed esuberante, In His Care rasserena Tom Waits a colpi di acquasantiera) e ai brani altrui (il soul celtico You Must Unload, la chiesa traslocata in strada per I’ll Be Rested When The Roll Is Called) di cui il Maestro si appropria. Sono comunque tre i momenti che svelano l’intima essenza del disco: una cover da brividi di Nobody’s Fault But Mine che sta al Nostro come Blind Willie McTell a Dylan; Jesus And Woody, commovente folk latino e farina cooderiana della più pregiata; Everybody Ought To Treat A Stranger Right: Johnson il Cieco reso gospel swingante. Tre apici di un matrimonio tra forma e contenuto che la contemporaneità celebra molto di rado. Perché alla bisogna servono esperienza, visione, sentimento. Perché serve Ry Cooder.

Dirtmusic: il nomadismo nell’anima

A raccontarla senza sapere chi vi è coinvolto, la faccenda potrebbe quasi sembrare una versione intellettualoide di certe trite barzellette. Dunque… ci sono un culto underground che dall’Oregon si è trasferito in Slovenia, un ottimo cantautore australiano che ha militato nei Bad Seeds, un leggendario chitarrista statunitense capace di brillare con lo slowcore e con reinvenzioni rumoriste delle dodici battute. Mancano giusto il papa e l’aeroplano e siamo a posto.

Un accidente. Questo è un progetto serissimo che lega esperienze artistiche ed esistenziali (anche questa una parte del segreto) tra loro distanti solo in teoria, infondendo modernità in un rock che affronta il “dopo” mentre rimescola passato e presente e trae linfa dalla contaminazione. Facile a dirsi, tuttavia la realtà è più complessa, siccome servono talento, equilibrio, curiosità. Doti che ai tre di cui sopra certo non sono mai mancate e insomma un indizio l’avete.

Bu Bir Ruya

Per i più distratti, ricordo che sulla carta d’identità costoro recano scritto Chris Eckman, Hugo Race e Chris Brokaw; e che, partiti un decennio abbondante fa da un’Americana gotica, nel Mali incrociavano i Tamikrest raccogliendo l’illuminazione “etnodelica” poi concretizzata nel 2010 con l’esaltante BKO. Due altri lavori nel mezzo, Bu Bir Ruya oggi svela panorami mutati e nondimeno lo spirito continua. Assenti Brokaw e i Tamikrest, l’Africa a tratti aleggia nell’aria anche se la bussola ha condotto in un garage di Istanbul adibito a studio di registrazione.

Con esiti altrettanto sensazionali quando addirittura non superiori, Race ed Eckman hanno incontrato nuovi compagni – Murat Ertel, virtuoso di saz che guida gli acidi Baba Zula; il percussionista Ümit Adakale – in un clima teso causato dall’instabilità politica turca. Pertanto viene naturale tracciare un parallelo tra le atmosfere cupe ma fiere del disco, la congiuntura storica e il tema (più ampio il respiro, l’attualità comunque strettissima) dei profughi e dell’innalzarsi di inique barriere tra i popoli.

dirtmusic

Su ciò riflettono liriche rivestite da sonorità che disegnano un Leonard Cohen maturo incamminato verso Oriente assieme a Massive Attack e Transglobal Underground. Da sette tracce di primissimo acchito uniformi emergono presto intensità umanista, ricchezza di accenti, poesia militante: Bi De Sen Söyle tinge il blues di electrodub, Outrage è allucinazione che ipnotizza e seduce, The Border Crossing sparge pece funk-wave, Safety In Numbers farebbe un figurone su Mezzanine, Go The Distance cavalca un beat sostenuto sfociando dentro liquide sospensioni.

Tuttavia non ci si “limita” a offrire musica bellissima e ingegnosa. No: i Dirtmusic raccontano le vicende di chi soffre schiacciato da poteri più grandi, sistemando ad apparenti poli opposti – facce della stessa moneta, in realtà – la dolcezza gassosa e avvolgente di Love Is A Foreign Country (Gaye Su Akyol splendida ospite al microfono) e un inquietante brano omonimo che, a fondo corsa, come un’apocalisse incombente rimane a dondolare sopra la testa dopo l’ascolto. Perché lo stato del mondo è un problema che riguarda chiunque. Perché, in fondo, tutti siamo nomadi. Bu Bir Ruya è qui a ricordarcelo.

 

Esorcizzando fantasmi pop: Mark Oliver Everett

In maniera simile ai Beach Boys, per apprezzare veramente l’operato di Mark Oliver Everett bisogna accettare il fatto che la malinconia sia un ingrediente irrinunciabile. Quella è la luce riverberata in canzoni che sono vetri colorati ma comunque aguzzi e, dacché l’uomo molto ha patito in termini di disgrazie personali, trattasi di pura catarsi e non della rappresentazione di emozioni che altrove si dà nel pop.

Citando Lou Reed, il Signor E “cresce in pubblico” attraverso una sorta di auto-terapia sonora, ragion per cui gli vuoi un sacco di bene e ti presenti puntuale a ogni nuovo capitolo di un romanzo costruito affidandosi a un’espressività slegata dal mercato. Everett pubblica solo quando ha della zavorra interiore da esorcizzare, così che tutti i suoi album posseggono un’identità precisa anche se magari sono sottotono (Shootenanny!) o malriusciti (Souljacker, Hombre Lobo). Azzeccata viceversa l’ultima missiva The Cautionary Tales Of Mark Oliver Everett e sono serviti ben quattro anni per darle un seguito.

eels-the deconstruction

Ne è valsa la pena, poiché The Deconstruction ulteriormente rassicura circa la forma dell’autore nonostante – forse dovrei bonariamente insinuare “grazie a” – quanto accaduto nel frattempo. Riassumendo: matrimonio, divorzio, paternità, un definitivo ritiro dalle scene poi smentito. Aggiungete brani prelevati da fasi compositive diverse e otterrete un insieme coeso pur nella policromia di stili. Certo, che credevate? La magia degli Eels poggia sin dall’inizio su un raffinato equilibrio di contrasti ed ecco dissolta in un attimo l’apparente contraddizione.

Onde capirne di più, conviene partire dal titolo e da un gioiello di title-track che inaugura il programma distendendo sottili inquietudini melodiche su archi snelli memori di Forever Changes, tastiere anni ’70, groove felpato. Soprattutto dall’idea di “distruzione positiva” – in copertina non a caso fiori e fiamme sono tutt’uno – cui si riferiscono, perché cos’altro resta quando affronti l’ennesima tabula rasa esistenziale, se non guardarti indietro e dentro in cerca di appigli?

Eels doughnut

Per questo The Deconstruction si pone da (bel) riassunto di carriera, tirando a lucido tutto ciò che ha reso grande Everett: ballate crepuscolari che trasformano la fragilità in incanto (Premonition, Sweet Scorched Earth), Sessanta rivisitati (Bone Dry, Rusty Pipes) e omaggiati (You Are The Shining Light), pop senza coloranti né conservanti (Today Is The Day), luci e ombre mescolate fino a confondersi (il soul dagli occhi azzurri Be Hurt, lo strumentale tra Hollywood e Bacharach The Unanswerable, una There I Said It prossima al giovane Tom Waits).

Quando realizzi che, con gesto da consumato narratore, gli apici sono sistemati all’inizio e alla fine, hai la chiusura del cerchio e un capolavoro assoluto: detto del brano omonimo, annoto che l’aerea e speranzosa ode all’amore di In Our Cathedral ipotizza un Pet Sounds inciso dopo Surf’s Up e a mente serena. Meravigliosa, manco a dirlo. Accanto ai chiaroscuri d’umore, suggerisce che la vita è una caramella dolceamara da assaporare sempre e comunque. Proprio come un disco degli Eels.