I tramonti vellutati dei Music Emporium

Regola numero uno dell’acquirente avveduto: non sempre la rarità di un disco costituisce garanzia di bellezza. Anzi, spesso c’è un valido motivo se nessuno ti si filò e, diciamolo, quella malintesa antesignana dell’autoproduzione chiamata “stampa privata” ha più che altro arricchito scaltri commercianti e creato leggende di cartapesta. Ogni tanto, però, esistono le eccezioni. Vi interessano trecento vinili e una sixties band californiana atipica, composta da gente con un retroterra classico e una ragazza alla batteria?

Lo spero, perché i Music Emporium sono stati lungo avvolti da mitologiche nebbie pur meritando assolutamente la (ri)scoperta. Se sono pura follia i 4.800 euro richiesti per l’unico esemplare – sigillato, eh! – del loro 33 giri omonimo reperibile su Discogs allorché scrivo, con una modica spesa potete procurarvi l’eccellente versione ufficiale Sundazed del 2001. C’è di che gioire all’infinito, giuro.

Music Emporium album

Un passo indietro: nel ‘67, William Cosby – fisarmonicista ferrato in jazz e sinfonica che sin da ragazzino fa incetta di premi e onori – è ancora vergine di rock. Al terzo anno della UCLA si decide, ascolta e quell’energia brada gli cambia la vita. Comprato un organo, allestisce i Gentle Thursday con i compagni di corso Dora Wahl a tamburi e piatti, il bassista Steve Rustad e il chitarrista/cantante Thom Wade. Quando i maschietti abbandonano, William si mette anche al microfono, modifica la ragione sociale in Cage e a basso e voce accoglie Carolyn Lee, terzo elemento “colto” di un quadrilatero cui manca la necessaria figura rock, infine trovata nel chitarrista Dave Padwin.

Complesso assai peculiare, alle droghe i Cage preferiscono discettare senza pretenziosità alcuna di strutture e forme ispirandosi a Love, Jefferson Airplane, Doors. Preparati tecnicamente e rodati dai concerti, incidono materiale per un (breve) LP ma un abboccamento con l’Elektra non porta a nulla e c’è da pagare lo studio.

dora Wahl
Dora Wahl

 

Entra in scena Jack Ames, discografico in fuga dalla Liberty per lanciare la Sentinel. Tutto molto bello, non fosse che a gestire il denaro è la moglie Lola, che i Cage li detesta. Ames racimola comunque quanto basta a saldare il conto e rifare il cantato, poi obbliga il quartetto al battesimo definitivo pensando di aumentarne le possibilità commerciali mentre Bill si trasforma in “Casey” per evitare confusioni con il comico. Mugugnando si firma e nel 1969 il demo diventa album.

Un misurato, magico tappeto intessuto da ritmica fantasiosa, corde acidule e trame d’ugola e organo benedice architetture raffinate (i King Crimson chiesastici in relax sulla West Coast di Cage; l’iridescente anticipo Paisely Underground Winds Have Changed), goticismi sobri (Day Of Wrath è basata sul “Dies Irae” gregoriano; Catatonic Variations si spiega da sola), episodi incalzanti (Nam Myo Renge Kyo, splendida malgrado l’errore di compitazione di Ames; i Doors poppettari di Times Like This), oasi di pacata visionarietà (le splendide Gentle Thursday e Velvet Sunsets) e momenti che trovano il giusto mezzo (Prelude, una Sun Never Shines dai risvolti beefheartiani).

ME in the studio

Ovvio che di Music Emporium non si accorga anima viva a causa dell’esigua tiratura e dell’inetto Jack. Persino peggio quando ci si sbarazza di costui incappando in un tizio che ruba la strumentazione e sparisce. Fine dei giochi e del decennio allorché il capobanda evita il Vietnam con la cattedra di musica a West Point. Avanti veloce al Duemila. Dopo l’accademia militare e un impiego alla sezione trasporti della difesa, Cosby si gode la pensione.

Su un sito di aste si imbatte nell’ennesimo bootleg e il seguito è materia da “Twilight Zone”: il venditore racconta che “Casey” è morto in un incidente motociclistico e che un’etichetta sta preparando la riedizione del preziosissimo manufatto.  Poche ore e Bob Irwin, boss della Sundazed, riceve una e-mail in cui William chiede chiarimenti. Felice di averlo trovato dopo vane ricerche, Irwin spiega di aver acquistato i master originali da Lola e gli offre voce in capitolo sul progetto più i diritti d’autore. Amaro happy end, dal momento che William H. Cosby si è arreso due estati or sono a un cancro al pancreas, benché in relativa serenità e soffrendo meno possibile. Nam myoho renge kyo, fratello.

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Polly sulla spiaggia. Venticinque anni da Rid Of Me

Ero appena uscita dall’adolescenza e a quell’età desideri solo lasciare un segno nel mondo. Volevo dire qualcosa in modo inaudito, creare casino.” (da una intervista a “Spin”, 2013)

La stavamo aspettando, una come PJ. Avevamo fame di una cantautrice moderna che fosse istintuale e acuta, umoristica e sfacciata, sicura e convincente. Una che di fronte allo scettico mondo trasformasse in verbo e carne nuovi il vangelo secondo Patti Smith. E costei arrivò, prese per la collottola la ruvidità cubista di Beefheart, la classicità rock e il cinismo di McLaren mescolandoli in uno stile unico che – a differenza della sua controparte d’oltreatlantico Liz Phair – tuttora suscita ammirazione. Persino nei momenti in cui l’ispirazione era in lieve calo, la Harvey ha fuso estro e vissuto risultando tanto più fedele a sé quanto più mutava. Sotto ai vestiti, insomma, di sostanza ce n’è sempre stata. E, signore e signori, mai come in questo caso: diffidate delle imitazioni.

pj rose

Cresciuta nella campagna britannica, Polly Jean Harvey frequenta la scuola d’arte e nel ‘91 vara un omonimo trio con il bassista Steve Vaughan e il batterista Robert Ellis. Un annetto e il prezioso debutto su Too Pure Dry già sbriciola cliché artistici e sociali con obliqua naturalezza. Nondimeno, la ventitreenne quasi soccombe a un esaurimento psicofisico causato dal clamore improvviso e dalla fine di una relazione sentimentale. La scampa rifugiandosi nel natio Dorset e poi in una stanza tutta per sé con vista sulla Manica.

Passata alla Island, scelta tra decine di pretendenti perché accolse il Tom Waits più “fuori”, in quel buen retiro legge Flannery O’Connor, Salinger, Nietzsche. Soprattutto, scrive brani che alla fine di uno sfiancante tour americano incide (eccetto Man-Size Sextet, cameristico lascito del precedente tentativo con il produttore Head) nei boschi silenziosi e innevati del Minnesota. Steve Albini è alla consolle e la sua magistrale scienza della registrazione permetterà a Rid Of Me di esplodere in modo “fisico”. Di essere cioè qualcosa di tangibile e vivo.

Rid_of_Me

La musica qui si racconta tagliente, nuda, dolcemente cruda. Scontrosa e disturbante come la copertina di Maria Mochnacz. Tuttavia la frequentazione mostra che è proprio l’assenza di orpelli a mettere in risalto l’emotività estrema e una scrittura stellare. Epocale anche per questo motivo, oltre a sfasciare il gruppo Rid Of Me ottiene un inatteso successo commerciale possibile giusto in quegli anni fantastici e folli. Ampiamente meritato e idem l’ingresso negli annali.

Legate tra loro pagine prese da Radio Ethiopia, da Diamanda Galas e da Howlin’ Wolf con il collante di un In Utero che scalpitava nella testa del fan Kurt Cobain, la ragazza consegna l’urgenza espressiva agli art-blues Hook ed Ecstasy, alla sensualità frenetica di Legs, Man-Size e 50Ft Queenie, alle incendiarie confessioni della title-track e di Dry, alla stridente sospensione Rub Til It Bleeds.

pj smart

Canzoni favolose all’epoca, oggi, tra altri venticinque anni. Con il cuore faccio quindi gli auguri a un album reso ancor più immenso e scintillante dallo scorrere del tempo. Un album la cui importanza è spiegata benissimo dalla fenomenale cover di Highway 61 Revisited, che senza timore reverenziale scaraventa Bob Dylan su una giostra di graffi e volute plumbee. Da qui basta confronti: sarà Polly Jean a essere pietra di paragone. Ruolo gestito con genio e argomentazioni da Grande, più che altrove nelle eleganti dodici battute gotiche di To Bring You My Love, nell’intimismo del pianistico White Chalk e nel post-folk militante di Let England Shake. Altri Capolavori imperdibili, pur se privi della forza travolgente di Rid Of Me. Giusto così. Nella vita, giovani e uterinamente incazzate si può essere una volta solta.

Beach House: polvere di sogni

Quando politica e pubblicità erano faccende serie, uno slogan azzeccato poteva valere oro puro. Catapultandosi per magia indietro a quell’epoca, “mutazione nella continuità” mi sembra una maniera piuttosto azzeccata di definire l’attitudine dei Beach House. Da che mosse i primi passi, infatti, il duo di Baltimora ha gradualmente stratificato e arricchito il suo linguaggio, raccogliendo suggestioni di solito un po’ trascurate dagli alfieri di un indie-pop onirico che dello shoegaze rappresenta l’attuale ramificazione.

Pregio e punto di forza che Alex Scally e Victoria Legrand hanno sempre saputo fondere a solidità di scrittura, eleganza e fascino non comuni. Merito anche di una concretezza spiccatamente americana e del trasfondere le emozioni nell’arte, così da scansare certi eccessi di intellettualismo e il distacco che impediscono a tanti nomi odierni di convincere fino in fondo. Di nuovo, il nocciolo della questione è “fare come una volta”. Prima di darmi del barbogio, però, ascoltate il loro nuovo album laconicamente (però pure significativamente) intitolato 7.

Beach House 7

A ulteriore dimostrazione che la raccolta di rarità pubblicata lo scorso anno ha chiuso un capitolo, con un’esplicita reazione ai propri trascorsi estetici i Beach House hanno rinunciato a usuali metodologie e al produttore Chris Coady. Fermamente convinti a non lasciarsi intrappolare da comodi stereotipi, hanno scritto e registrato in contemporanea, alzando i volumi e aprendo le finestre in cerca di aria fresca con l’ex Astronauta Peter “Sonic Boom” Kember e James Barone, fidato batterista che li accompagna sul palco. Gesti di maturità e di rispetto verso il pubblico da chi non si è addormentato su glorie e allori.

In teoria uno splendore, ma la realtà dei fatti? La realtà racconta una metamorfosi persuasiva, un ottimo “work in progress” lanciato sul domani, atmosfere che – avvalendosi del mix di Alan Moulder, l’eminenza grigia dietro a Loveless – avvolgono con energia inaudita i giochi di chiaroscuri ormai divenuti marchio di fabbrica.  Di conseguenza ora i Beach House suonano per lunghi tratti più classicamente “guardascarpe”.

BH by Shawn Brackbill

Comunque un bel sentire: in primis perché nel loro caso si tratta di una novità e i risultati sono ben lontani dalla mera fotocopia; poi perché carattere, suoni e piglio non servono a nascondere una penna opaca. Anzi: il maestoso inizio da Breathless apocrifi Dark Spring, la splendida collisone tra Slowdive e New Order di Dive e la sinuosa sfoglia Lemon Glow entrano di diritto tra gli apici del repertorio. Altrove episodi come Woo, Drunk In L.A. e Pay No Mind rinsaldano il cordone ombelicale col passato, scolpendolo (con estrema classe e cura, tuttavia senza leziosità né il rischio futuro di far tappezzeria in qualche serie televisiva incentrata su adolescenti suicidi…) dentro un morbido psych-pop a base di caramello e vapori e asperso di acusticherie e silicio.

Ancora: i riverberi à la Cocteau Twins de L’Inconnue vedono la nipote del compositore Michel Legrand riscoprire le radici cantando in francese e il Philip Glass poptronico della tetra gemma Black Car convive tranquillo con una dolce, elegante Girl Of The Year e con i Mazzy Star persi tra le brughiere di Lose Your Smile. Nel momento in cui noti che la conclusiva Last Ride – luminoso ossimoro di crescendo misuratamente epico che plana su una rete di chitarre aeriformi – dura giustappunto sette minuti, capisci che il caso aiuta chi rischia. E, insieme al futuro, sorride a quelli come Alex e Victoria.