Moffs: cose lisergiche dall’Australia

Australia, anni ’80. Una generazione esce dal punk immaginando il day after e, come chiunque in giro per il globo, inventa un ibrido di tradizione e contemporaneità. In un panorama colmo di band talentuose, nutro affetto particolare per i Moffs, che non si accontentarono di applicare la filologia a Chocolate Watchband, Standells e compagnia. Con intelligenza concepirono invece una psichedelia davvero “neo”, che dei fab sixties recuperava estetica e sonorità, ma soprattutto l’atteggiamento moderno e libero con cui acid-rock, esotismi, progressive e new wave erano fusi in un linguaggio atemporale proprio perché figlio di epoche diverse.

Conoscenza della storia e apertura mentale appartengono a Tom Kazas (cantante/chitarrista di origine greca che attualmente si cimenta con la folktronica cosmico danzabile nei Loonaloop) sin dagli inizi del decennio, allorché bazzicava la scena “mod” di Sydney con l’amico bassista David “Smiley” Byrnes (dopo i Moffs è stato nei Lazarus, ha pubblicato un LP solista e ora fa il produttore). Nel 1983 incontrano il tastierista Nick Potts e i Moffs – storpiatura umoristica di moths, “falene” – nascono quando arriva l’esperto batterista Alan Hislop.

moffs green

Dopo alcuni mesi trascorsi a scrivere, i quattro iniziano a tenere concerti su concerti. In studio entrano una prima volta per le sei ore notturne bastanti a registrare il nastro – non sfugga l’ironia del titolo – 11 To 5. Dall’insieme già assai maturo emergono l’organo rutilante e la chitarra surf di Horto, l’azzeccatissima cover di Tomorrow Never Knows, l’estasi acid-pop Get The Picture. Una delle cinquecento copie stampate atterra sulla scrivania del prestigioso marchio Citadel, che nella primavera ’85 accoglie il gruppo e non sarà più abbandonato.

Fiducia ripagata come meglio non si potrebbe: otto miglia più su – dove l’aria rarefatta riecheggia Another Girl, Another Planet e Here Come The Warm Jets – il gioiello Another Day In The Sun sistema tasti liquidi e chitarre e incorniciare un’indimenticabile melodia e un passo ipnotico e marziale, mentre Clarodomineaux fotografa Barrett che flette i muscoli e folkeggia. Il 45 giri giunge in cima alla classifica indie nazionale incassando il plauso di John Peel e “Bucketfull Of Brains”, ma l’insoddisfatto Potts sbatte la porta e oggi lo trovate in progetti anticonvenzionali chiamati The Gruntled e Wayward.

look down

L’arrivo di Mick Duncan sigilla l’annata e un “mini” omonimo dove la meravigliosa Look To Find sistema El Syd nei Byrds, A Million Year Past lo trasporta sul Bosforo, I Once Knew e The Meadownsong porgono stiloso psico-prog e I’ll Lure You In avvolge in aromi di California e brughiere. Altra prima piazza più capolino nei Top 20 generalisti, nondimeno il tour seguente lascia sul campo Alan e Mick, rimpiazzati dal Byrnes minore, Andrew, e da Damon Giles. Nel maggio ‘87 Flowers/By The Breeze recapita un discreto vecchio brano e pregiato viluppo elettroacustico volto a oriente.

Dimissionario Damon, si rischia lo scioglimento, tuttavia il fan Scott Barnes porta l’entusiasmo che in autunno sfocia nel 7” della leggiadra The Traveller e del Re Cremisi lisergico di Quaker’s Drum. Lungo il primo trimestre 1988 i ragazzi si concentrano sulle registrazioni del sospirato LP e gli dice benissimo. Labyrinth racchiude puro Genio, dilatando con gusto e senso della dinamica rari strutture e atmosfere in transito dal tenue al concitato. Svettano l’articolata visionarietà di Tapestry, i flessuosi incastri di I Am Surprised, la malinconica The Grazing Eyes, il miraggio che si accende in cavalcata Desert Sun, una progressista e filmica Stealing Cake To Eat The Moon e non vale di certo meno il resto.

the collection

Pagina fulgida del grande romanzo psichedelico, Labyrinth sarà anche il canto del cigno. Alla Citadel non hanno fondi per un giro europeo che possa espandere il bacino di utenza e aumentare le vendite, così i Moffs, stanchi di tribolazioni e magri riconoscimenti, traccheggiano tra dissapori vari consegnando l’ultima gemma in una rilettura di Eight Miles High. Significativamente, si separano nell’89 mentre il “nuovo hard” sta divorando incensi e collanine. La loro dimensione di culto è custodita alla perfezione in The Collection, doppio CD Feel Presents che nel 2008 recuperava l’integrale discografico ed era motivo di una breve reunion “live”. Anche questo è stile, care lettrici e cari lettori. Adesso, tutti insieme, turn on, tune in, drop out!

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Quando John Hiatt cavalca da re

Avrete notato anche voi che quasi nessuno si sottrae dal rimarcare quanto la vita faccia schifo. Fossimo un filo più empatici verso le altrui sciagure, forse vedremmo certe nostre quisquilie dileguarsi come neve al sole. C’è da provarci, almeno, mentre ci nutriamo l’anima con dischi, libri e film. Pensando a Mr. John Hiatt trovo queste banali annotazioni quotidiane perfette, poiché la coppia di LP che ne rappresenta l’apice ha alle spalle un percorso drammatico. Benché di tali sofferenze rechino i segni poco più che in tralice, Bring The Family e (in misura assai minore) Slow Turning sono pura catarsi sonora e anche lì sta tanta della loro bellezza.

Una bellezza che ha consegnato al plauso di critica, colleghi e fan un nome viceversa sconosciuto al grande pubblico. Non le sue canzoni, però. Tra i tantissimi che lo hanno interpretato o riletto sfilano Bob Dylan, Eric Clapton, Willy De Ville, Bonnie Raitt, Joe Cocker, Willie Nelson, Emmylou Harris, Iggy Pop. Consideratelo un risarcimento – inclusi i meritati diritti d’autore: di sola gloria non si vive – per ciò che l’uomo nato a Indianapolis nel 1952 ha patito.

old hiatt

Da bambino John perde a breve distanza un fratello maggiore suicida e il padre per malattia. Trova conforto in Presley, Cohen e Dylan come in Otis, Mississippi John Hurt e Odetta, appoggiando insomma il folk al soul e al blues e, sventuratamente, appoggiando alla bottiglia il ragazzo impacciato e grassoccio che a diciotto anni molla tutto e va a Nashville. Per venticinque dollari la settimana scriverà conto terzi duecentocinquanta brani, compresa la Sure As I’m Sitting Here nel ’74 hit dei Three Dog Night e lasciapassare per un contratto con la Epic. L’era del ghost writer termina rivelando già il destino: Hangin’ Around The Observatory e Overcoats piaciucchiano giusto alla stampa e tanti saluti.

A spasso per un lustro, Hiatt si trasferisce in California, ascolta Elvis Costello e Graham Parker, riconosce un idem sentire e raccoglie intuizioni preziose. In coda al decennio passa alla MCA, ma Slug Line e Two Bit Monsters cadono nel vuoto. Siamo al 1982: Across The Borderline, vergata con Ry Cooder e Jim Dickinson, fa sì che David Geffen lo assoldi. Pasticciato da Tony Visconti All Of A Sudden, spetta a Riding With The King (in parte supervisionato da Nick Lowe e inciso con i Rockpile) rendere una prima giustizia laddove Warming Up To The Ice Age segna la fine della corsa.

family

Il colpo è durissimo. Lasciate moglie e figlia, John prende a distruggersi con alcool e droghe e ce la farebbe di sicuro, non fosse che la consorte si uccide e qualcosa scatta. Con la piccola Lily oggi cantautrice, Hiatt torna a Nashville, si ripulisce e butta giù Canzoni intessute di autobiografia. Quando è ora di offrirle al mondo, Lowe chiama Jake Riviera della britannica Demon: stanziati trentamila verdoni, chiede a Hiatt chi desideri in studio. “Ry Cooder, Nick Lowe, Jim Keltner” la risposta e la formazione che in quattro giorni incide Bring The Family.

La passione e l’onestà confessionale di un’anima redenta, un’ugola da nero modernamente bianco e la misurata maestria dei musicisti asservono una penna in stato d’assoluta grazia, dal trascinante rhythm’n’rock Memphis In The Meantime alla sublime dichiarazione pianistica Have A Little Faith In Me, dall’acustico cantar d’amore Learning How To Love You alla Your Dad Did raffinatamente sfrontata nel citare Street Fighting Man, dalle accorate Lipstick Sunset e Stood Up alla gioia di una Thank You Girl sull’asse Stones/Creedence/Springsteen e del MacManus in combutta con Jagger e Richards per Thing Called Love, dal sinuoso Al Green candeggiato di Alone In The Dark al crepuscolo Tip Of My Tongue.

 younger hiatt

Più che canzoni, sono ritratti di un individuo che ha attraversato l’inferno, si è cucito le ferite da sé e, ragionando con maturità sul più elevato dei sentimenti, ha scolpito un capolavoro. Ovvio che il confronto con il comunque pregevole successore Slow Turning sia privo di senso. Non potendo contare sul dream team di cui sopra, Hiatt si affida all’esperto produttore Glyn Johns e ai Goners, formazione guidata dal chitarrista Sonny Landreth che lo accompagna anche sul palco. Tra oasi blues e gospel, attinge da Exile On Main Street e Willie And The Poor Boys sfumando l’urbano nell’agreste (la title-track, Drive South, Trudy And Dave) e alternando la briglia sciolta (Tennessee Plates, Ride Along) a magnifiche ballate (Icy Blue Heart, Feels Like Rain).

Il ciclo si chiude sul bello stile di Stolen Moments e il mediocre tentativo chiamato Little Village di ripetere nel 1992 l’intesa con lo studio legale Cooder, Keltner & Lowe. Da allora John ha consegnato un gruzzolo di lavori mica male e qualche zampata degna del fuoriclasse, uscendo spesso e volentieri dal suo ranch in Tennessee per suonare dal vivo. Stasera si esibirà in un giardino liberty adibito a parco pubblico che dista mezz’ora da casa mia. Sapete dove trovarmi.

Joni Mitchell sui prati sibilanti

Non se la passa benissimo, oggi, la Signora del canyon. Dopo la poliomielite di gioventù e le più recenti artriti e parassitosi allucinatorie, tre anni fa la rinvenivano incosciente tra le mura domestiche a causa di un aneurisma cerebrale dal quale si sta ancora riprendendo. Le auguro ogni bene e non avete idea di quanto faccia piacere leggere che ha rifiutato l’autorizzazione a un biopic con protagonista Taylor Swift (a tutto c’è un limite, sì) e che, fotografata per una campagna pubblicitaria, ha chiesto che sul viso le lasciassero ogni ruga. A qualunque età, un peperino è un peperino… Pazienza se dal 1991 del lampo isolato Night Ride Home, soffocata da rancori e amarcord, Joni Mitchell pubblica poco e male: c’è stato un tempo in cui plasmò il cantautorato femminile con inarrivabile maestria e tanto basta, al cuore e alla Storia.

Joni smoking

Da sempre l’artista canadese maneggia anche pennelli e colori. La cogli, una mano che sgocciola alla Pollock e ipotizza un Hopper umanista in canzoni spesso concepite come quadri o – insegna la metafora dell’epocale Blue – come tatuaggi. In questo fiume di colori che trattengono qualcosa di noi e che assieme a noi invecchiano, per un certo periodo Joni si è cimentata con l’astrattismo ottenendo i risultati migliori al primo tentativo, l’ingiustamente trascurato The Hissing Of Summer Lawns. Che questo LP sia oggetto di adorazione da parte di critici attenti ed eminenti colleghi – per non far nomi: Prince, Kate Bush, Bjork – significa molto alla luce di un linguaggio troppo fuori dagli schemi per il 1975 in cui vide la luce.

hissing cover

Oggi, che al dopo-rock abbiamo fatto l’abitudine, si può apprezzare in pieno il diretto successore di Court And Spark, baciato da un notevole successo che fu fonte di insensate accuse di commercializzazione. Punta sul vivo, Joni rispose con i fatti. Convocati i fidi L.A. Express e qualche ospite (“Skunk” Baxter, Larry Carlton, James Taylor, Nash e Crosby) cavò dal cilindro un post-songwriting di fascino ambiguo e curatissimo nei dettagli. Uno stile che, similmente all‘Africa traslocata sullo sfondo metropolitano della copertina, si dipana con spirito lynchiano (la foto interna ritrae l’artefice in un’amniotica piscina, con un aspetto che non sai se rilassato o inerte) lungo le dissonanze del quotidiano. Di conseguenza la musica richiede attenzione e ripetuti passaggi per svelare strutture scagliate oltre le convenzioni da un saldo centro di gravità e da una forza comunicativa affatto comune.

Joni by Norman-Seeff

Questo sono la cover di Centerpiece che improvvisa emerge e poi riaffonda nella stranita Harry’s House, una In France They Kiss On The Main Street che veste di West Coast il fluido jazz-rock degli Steely Dan e The Jungle Line, che omaggia Henri Rousseau – toh: un pittore! – e preconizza Julia Holter e Volta tra sibilar di moog e tamburi Burundi. Se la tensione sfiora il pelo dell’acqua in Eddie And The Kingpin e Don’t Interrupt The Sorrow vaga nei tropici, la melanconia avant-pop di Shades Of Scarlett Conquering e dell’omonima trama di ritmi e fiati risponde alla sonata meticcia The Boho Dance e al cristallo folk Sweet Bird. Quando tutto termina sull’ambient gospel per voci e sintetizzatore ARP – meraviglia da far invidia a Brian Eno – di Shadows And Light, capisci che chi chiedeva altre Raised On Robbery stava negando alla Mitchell il diritto di evolversi. Sorridi e ricominci da capo, sedotto e ipnotizzato.

Sull’onda della fama, in novembre The Hissing Of Summer Lawns debutta al quarto posto in classifica ma precipita subito. Non se ne preoccupa minimamente la Nostra, appena passata – cito testualmente – “dal reparto hit a quello dell’arte” in virtù di un’opera sul serio perfetta ma non troppo, cioè quel tanto che basta a centrare un’arguzia mai autocompiaciuta. Attraversati i prati estivi, Joni Mitchell si metterà in viaggio sulle “strade blu” d’America e nell’anno del bicentenario concepirà Hejira. Sarà l’ultimo suo Capolavoro.