Poco meno di un anno fa annotavo che dei bassisti bisogna fidarsi eccome. Alla lista di talenti esposta qui potete aggiungere Paul Webb e rimediare a una grave distrazione della quale faccio pubblica ammenda. Pensare che dal 2002 lo splendido Out Of Season – pubblicato con lo pseudonimo Rustin Man assieme alla divina Beth Gibbons – non ha mai preso polvere sugli scaffali… Lo stesso dicasi per gli ‘O’rang, ensemble “aperto” allestito nei medi Novanta con un altro fu Talk Talk, il batterista Lee Harris, dove Webb – tirando da novello Teo Macero le fila di ore spese a improvvisare – sfogava nei brillanti Herd Of Instinct e Fields And Waves la passione per dub, reggae, krautrock ed etnicismo.
Non sto divagando, tranquilli. Preparo solo il terreno per una lode al suo secondo album solista fresco di pubblicazione. Un’occhiata al calendario evidenzia che, tra una missiva e l’altra, costui si prende un bel po’ di tempo. Nell’era del presenzialismo a vanvera e dell’esasperazione produttiva, pesa i vocaboli. E, diversamente dall’ex caposquadra Mark Hollis, ha deciso di continuare a parlare.
Bene, bravissimo, ché Drift Code – realizzato mentre l’eclettico in punta di piedi cresceva le figlie nel quieto Essex – è splendido e sfaccettato al pari del predecessore. Dice molto una genesi dilatata, condotta registrando un composito bric-à-brac strumentale tramite diversi microfoni sistemati nel suo studio casalingo per donare all’insieme identità e respiro. In tasca i santini di Robert Wyatt e Peter Hammill e coadiuvato da Harris e pochi altri ospiti, l’uomo è infine uscito dall’antico granaio in cui abita e lavora (una sorta di moderna Wunderkammer) con un bucolico enigma intessuto di rock, folk, jazz, psichedelia, progressività.
Però col senno del post e atmosfere che oltremanica definiscono eerie. Elementi che si fondono al “non detto sonoro”, alla sapiente stratificazione e al gusto per l’intarsio rivelatore di chi ha contribuito a The Colour Of Spring e Spirit Of Eden (loro benedicono il tutto, alla giusta distanza) in un meraviglioso a sé. Un mosaico che con personalità incastona schegge del passato e, sotto i toni seppiati e malinconici evocati dalla copertina, svela un’essenza policroma. Pensatelo insieme antico e moderno, familiare e alieno come il Tardis di “Dr. Who”. Poi salite a bordo e lasciatevi trasportare senza esitare.
In caso contrario vi perdereste una favola inquietante che, con una grana vocale al crocevia art tra il primo Bowie e i succitati Robert e Peter, dipana canzoni di ricercata sobrietà. Canzoni traboccanti fascino come l’iniziale Vanishing Heart, ipotesi di un David pre-Ziggy intento a trasfigurare il soul a Canterbury; come una Judgement Train da Can che si rilassano in un club jazz; come la spoglia lamina acustica All Summer che a fondo corsa obbliga ripartire da capo.
Con lo scopo di tornare infinte volte su trentotto densi e intensi minuti, soffermarsi sulle sfumature e imprimere nella memoria ogni episodio: dalla morriconiana ugola femminile che in Brings Me Joy risale il greto di Rock Bottom ai Pink Floyd pigri di Meddle magistralmente rivisitati per The World’s In Town, dai Love smarriti nella brughiera di Our Tomorrows allo stridente, malevolo funk Light The Light, dall’intermezzo ambientale Euphonium Dream alla sinfonietta Martian Garden cosa sola di Van Der Graaf Generator e Soft Machine. A rendere l’ineffabile un po’ ho provato, nondimeno la Bellezza di Drift Code va oltre ogni tentativo di spiegazione. Come se fosse sempre stata nascosta in noi, pronta a svelarsi, è qualcosa di raro e vivo, di (im)puro e necessario. Qualcosa da amare incondizionatamente. Regolatevi.