Trees: nel giardino fatato

Di norma assai acuto, il critico americano Richie Unterberger adotta un’eccessiva severità verso i Trees, descrivendoli sulla “Allmusic Guide” come una formazione che non aveva problemi a scimmiottare l’approccio dei Fairport Convention. Umilmente dissento e annoto che, a fronte del palese debito ispirativo, ci sarà un motivo se – da Françoise Hardy ai Flying Saucer Attack passando per All About Eve e Damon & Naomi – essi sono oggetto di devozione e rilettura. Nei risvolti ombreggiati che separano il culto e la media notorietà, quei due loro LP pubblicati a pochi mesi uno dall’altro dentro il tramonto dei Sessanta sono veri classici.

Lontani dalla mera imitazione, l’onda lunga del folk-rock – tanto per non far nomi, i Trembling Bells devono averli ben presenti – li restituisce sotto forma di un bellissimo paradosso che avvolge la freschezza in seducenti aromi d’epoca. Ragion per cui il neofita non dovrebbe faticare a innamorarsi della meteora che nacque mezzo secolo fa in quel di Londra. Amici di amici, Tobias Boshell (basso, chitarra, piano e principale autore quando non si attingeva – e accadeva sovente – dalla tradizione), i chitarristi David Costa e Barry Clarke, il batterista Unwin Brown e la studentessa di recitazione e danza Celia Humphris iniziano a suonicchiare.

trees

Qualche concerto basta a persuadere la CBS e nell’aprile 1970 The Garden Of Jane Delawney segue con personalità le orme di Unhalfbricking. Dilatati arazzi elettroacustici à la West Coast, una vivace sezione ritmica e l’ugola cristallina di Celia disegnano le folkedeliche She Moves Through The Fair e Lady Margaret e la vibrante Nothing Special, laddove il brano omonimo inscena un barocco triste, The Great Silkie e Glasgerion vantano sapiente articolazione, Epitaph è spoglia e accorata e Snail’s Lament un disteso commiato. I tour con nomi eccellenti (Fleetwood Mac, Fotheringay, Pink Floyd) lungo primavera ed estate rafforzano la coesione e a fine anno On The Shore si ritaglia un posto nella storia sin da una copertina inquietante in tipico stile british (per gli amanti del trivia, la ragazzina fotografata nel londinese Hill Garden da Storm Thorgeson della Hypgnosis è la figlia di Tony Meehan degli Shadows).

Ispessito l’intreccio tra voce e strumenti, i Trees conquistano con l’innodica Soldiers Three, le sferzate di Murdoch e una meditativa, splendida Polly On The Shore. Non valgono però meno l’unione tra intuizioni classicheggianti e furia elettrica di While The Iron Is Hot, una corale Fool, la nebbiosa mestizia di Geordie, gli echi kraut e raga incastonati sulla modernissima Streets Of Derry. Capolavoro assoluto i dieci fenomenali minuti d’estasi e tensione – colti nottetempo al primo tentativo! – della Sally Free And Easy scritta da Cyril Tawney.

on the shore

Nonostante altri palchi prestigiosi, siffatta manna non va lontano dal punto di vista commerciale: lo stallo causa attriti con l’etichetta, il gruppo si scioglie e il tentativo di ripartire nel ‘73 fatto da Celia, Barry e David non ottiene risultati. Costa si guadagnerà il pane come grafico, Clarke vendendo gioielli e Unwin (scomparso nel 2008) insegnando; Tobias presterà il proprio talento a Kiki Dee, Barclay James Harvest e Moody Blues mentre la Humphris, diventata annunciatrice per la metropolitana e ripresi gli studi, riaffiorerà con Dodson And Fogg e Judy Dyble, infine lasciando questa terra all’inizio del 2021.

Dei Trees non sentiremo più parlare fino ai tardi ’80, in occasione delle prime ristampe del catalogo e di Trees Live, scarso bootleg italiano per il quale il gruppo non ha visto un soldo. A conferma di quanto certe sonorità possano… radicarsi dove mai penseresti, nel 2006 i Gnarls Barkley campioneranno il groove di Geordie nella title-track di St. Elsewhere. Permettetemi di chiudere glissando quanto più signorilmente possibile sulla On The Shore Band, recentemente allestita da Boshell e Costa. La Bellezza, è noto, non ha bisogno di vane postille.

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Grant, Robert e tutti quelli che conosciamo

Ci sono mille maniere di vivere e spesso sono loro a scegliere (per) noi, illudendoci del contrario. Nella storia dei Go-Betweens non vi è mai stato nulla che possa essere ricondotto alla convenzionalità, per la semplice ragione che non si trattava “solo” di un gruppo. Se chiedete al critico preparato e serio, vi spiegherà con dovizia di particolari che sono stati una delle formazioni che ha raccolto meno in rapporto a quanto seminò, fondendo new wave e sixties-pop in una sfoglia emotiva da intellettuali in netto anticipo sugli Smiths.

L’appassionato puro e semplice, confermando tutto ciò, vi dirà che la band guidata da Robert Forster e Grant McLennan era qualcosa di unico. Il fantastico frutto di un’amicizia nata all’università e interrottasi tragicamente. Ed è soprattutto di questo che Robert parla in “Grant & Io”, memoriale fresco di pubblicazione in Italia per Jimenez Edizioni: dell’intreccio di due vite, osservato da quella rimasta qui mentre il peso dell’altra cresce ogni giorno.

Grant e io

Si tratta di letteratura, insomma. Robert – oltre a essere un eccelso songwriter – scrive di musica sulla rivista “The Monthly” con lo stile partecipato e attento che ritrovo qui. Lo stile che scandaglia i meccanismi dell’industria e le nervature di canzoni e album, che spiega l’ineffabile chimica tra due menti, che trasporta altrove nel tempo e nello spazio tenendoti al suo fianco. Di conseguenza, il primo consiglio è: comprate “Grant & Io” e leggetelo d’un fiato. Se non siete fan dei Go-Betweens, lo diventerete subito; se invece li seguite da sempre, già l’avrete divorato e allora vi abbraccio fraternamente.

L’altro consiglio: tenete a portata di mano i fazzoletti, perché ci si commuove. Per lo slancio di speranzosa gioventù e un divertito cinismo che trascolora in disillusione davanti allo showbiz; per il tempo che passa, con le occasioni perdute e la felicità di tornare a suonare insieme; per la forza che serve ad affrontare “il” distacco. Per addii, arrivederci, bohème, famiglia, litigi, sfascio. Per quel quiet heart che manca come l’aria.

R & G

Il tono rimane tuttavia sempre puntuale ma lieve, anche quando i protagonisti si incamminano su brutte strade. Scelta perfetta dettata dalla profondità dei sentimenti, che scatena empatia e commozione. Così l’epilogo, inevitabilmente amaro, tratteggiato in capitoli di bellezza malinconica che per l’autore immagino siano stati qualcosa di simile a una terapia o a una catarsi.

Nelle prime pagine, costui immagina che del libro si tragga un film e ne propone l’inizio. Non vi rovino la sorpresa, limitandomi ad annotare che ognuno può terminare quella pellicola come crede: il materiale non manca. Il mio finale è ambientato a Brisbane. C’è un uomo di mezz’età che all’alba cammina su un ponte, scelto non per caso. Guardandosi attorno tra le lame del sole nascente, in quel momento capisce che anni prima un gruppo proveniente da quei luoghi gli ha cambiato l’esistenza. Dissolvenza sulle note di Cattle And Cane. Grazie infinite, Grant & Robert.

Stili di vita attivi e neuropsichedelia

Prima o poi i Polvo sarebbero arrivati. Nel senso che qualcuno doveva pur trovare il filo conduttore tra psichedelia, post-punk e math-rock. Di suo mettendoci poi l’approccio al contempo sfuggente e ansiogeno in un cocktail tuttora freschissimo e lanciato oltre steccati cronologici e stilistici. In sostanza, l’unica caratteristica che rende databile – attenzione: non datata – questa cult band per eccellenza è la commistione di generi tipicamente anni ‘90.

Una libertà servita ai chitarristi/cantanti Ash Bowie e Dave Brylawsky per conferire attualità al concetto di espansione della mente e aggiungersi alla dinastia di coppie impegnate nei trip più visionari: John Cipollina e Gary Duncan, Jerry Garcia e Bob Weir, Tom Verlaine e Richard Lloyd, Thurston Moore e Lee Randaldo, Guy Kyser e Roger Kunkel. Eccoli, i nostri nerd preferiti, che studiano fino a tarda notte i testi sacri e in laboratorio mescolano l’immaginifico sentire urbano dei Television con le strutture labirintiche dei Mad River, le muscolari acrobazie aritmetiche e un’Asia della mente. Tu chiamala, se vuoi, neuro-psicodelia.

polvo in a car

Non a caso il duo strinse amicizia all’università di Chapel Hill (North Carolina: la fiorente scena locale sarà celebrata dai Sonic Youth in Dirty) sulla base della comune ammirazione per le pagine del catalogo SST volte a fondere hardcore punk e rock progressista. Assoldati il bassista Steve Popson e il batterista Eddie Watkins, nel 1990 iniziano a trafficare con curiosità intricate e dissonanti sull’autoprodotto 7” Can I Ride, tuttavia spetta al successivo Vibracobra convincere l’ex compagno delle superiori Mac McCaughan a volerli su Merge. L’esordio Cor-Crane Secret esce in piena sbornia grunge, dunque figurarsi se nel ‘92 al mondo interessa un disco che decostruisce Marquee Moon e Daydream Nation rimettendone insieme i cocci. Ottimo il riscontro critico, il pubblico resta – e resterà – confinato agli intenditori che distinguono il talento dalla stramberia fine a se stessa.

Dodici mesi dopo, Today’s Active Lifestyles sistema il baricentro attorno a sinuosi tintinnii di corde e armoniche dissonanze, all’equilibrio strumentale e all’ansia estatica che apparterrà a certe frange dell’universo emocore. A metà del guado, gli EP del biennio ‘94-‘95 Celebrate The New Dark Age e This Eclipse smussano qualche asperità rimanendo fedeli alla linea. Il gruppo cede alle lusinghe della Touch And Go nel 1996, ringraziandola col botto: Exploded Drawing è una giostra che, coerentemente al titolo, espone le parti che la compongono senza perdere di vista l’insieme. Soprattutto, è un capolavoro di cui si ricordano in pochissimi.

exploded drawing

Se Fast Canoe è compendio estetico di potenza in guanti di velluto, Light Of The Moon disegna una cartolina western lynchiana e Street Knowledge sparge esotici lampi acid-wave; alla In This Life che collega i pieni ’60 ai tardi Settanta risponde la parodia power-pop The Purple Bear. Abbondanza che sbiadisce davanti a When Will You Die For The Last Time In My Dreams, epopea che decolla su squarci di psichedelia bucolica approdando a isterici martellamenti lungo una via di schegge fumiganti. Lo sforzo esige un dazio: ci si prende una pausa durante la quale Brylawski insegue orientalismi sonori in India mentre Ash si rifugia nei mediocri Helium con la fidanzata Mary Timony.

Nel 1997 si ritrovano (tutti tranne il defezionario Watkins: brutta notizia la sua morte nell’aprile 2016) per Shapes e un classicismo non privo di senso dell’avventura che – alla batteria il più lineare Brian Walsby – sancisce la prima chiusura della vicenda. Complici le partecipazioni a importanti festival, i Polvo tornavano dieci anni or sono con Brian Quast dietro pelli e piatti. In Prism fotografava un gesto più che dignitoso imitato nel 2013 da Siberia, nulla aggiungendo però neppure togliendo alla grandezza e insomma vi sono state rimpatriate ben peggiori. Ciò che davvero conta è l’eredità di Exploded Drawing. La scia stordente che sta attraversando lo spazio e il tempo, pronta a tornare chissà quando, sotto chissà quale forma. State all’erta.