Company Flow: cronache del dopobomba hip-hop

Una tra le qualità dell’arte che più apprezzo è la capacità di rigenerarsi attraverso un rapporto costruttivo con le radici. In altre parole, saper preservare lo spirito della tradizione allorché la forma viene adatta al qui e ora o a futuri che saranno. Una ricetta che permette inoltre di durare negli anni, questa, come dimostrano decine di dischi che amiamo. Confesso di nutrire un’ammirazione particolare per i Company Flow. Potrò mai ringraziarli abbastanza El-P (AKA El Producto, turbolento viso pallido che sulla carta d’identità porta scritto Jamie Meline), Leonard “Mr. Len” Smythe e Justin Ingleton ossia Bigg Jus?

Intanto provo a rammentare come liberarono l’hip-hop dalle secche milionarie del funk più melenso e delle parodie gangsteriste. Di come il loro talento riconsegnò la creatività a un underground visionario e sperimentale che puntava al progresso del rap e non a un crasso autocompiacimento. Idee chiare e obiettivi altrettanto, El-P e DJ Mr. Len si conoscevano alla festa del diciottesimo compleanno di Meline, alla quale Smythe era stato invitato a metter dischi. Avviato il progetto nel 1993, registravano per la Libra il singolo Juvenile Techniques e Bigg Jus lo apprezzava al punto che, da amico impiegato presso l’etichetta, diventava elemento stabile della formazione.

funcrusher

Era con lui che nel ’95 si metteva mano a Funcrusher, album autoprodotto e autofinanziato in trentamila copie esaurite in un lampo. Otto brani – sette saranno ripescati sul successore – che catalizzano l’attenzione di numerose etichette, tra le quali si sceglie la Rawkus perché l’unica ad accettare condizioni inaudite: la proprietà di master ed edizioni più la metà dei guadagni netti. Un tappeto rosso sul quale nel ‘97 questi tre moderni re magi poggiano l’hip-hop mutante di Funcrusher Plus. Un linguaggio che demolisce convenzioni e cliché tramite paesaggi sonori inquietanti e inquieti senza rinunciare al groove, per quanto storto e irregolare.

Su di esso è disegnata un’apocalisse quotidiana costruita con rumori subliminali e disturbi di sottofondo, jazz obliquo (Bad Touch Example, Krazy Kings) e venature orientali (il sitar che percorre The Fire In Which You Burn), orrori latenti aspersi di oppiacea laconicità (8 Steps To Perfection, Last Good Sleep) e funk post-atomico (Legends, Vital Nerve, Collide/Intrude). Musica per un “Blade Runner” girato da David Lynch, se vi piace l’idea.

coflow

Il presente sospeso sopra l’incertezza e affrontato con senso della realtà e umorismo (“Anche quando non dico nulla, è pur sempre un bel modo di usare dello spazio negativo” snocciola El-P in The Fire In Which You Burn) è l’altra fonte cui i ragazzi attingono per restituire eloquenza e argomenti d’avanguardia mai forzati, anche per quanto riguarda produzione e scratching. Tra la complessa fluidità degli incastri, clangori industriali e la sorprendente rapedelia di Lune TNS emerge la forza del meticciato. Capisci che Meline restituisce a modo suo lo stile appreso da adolescente per le strade del Queens, mentre i concittadini afroamericani mescolano la conoscenza del passato con la determinazione a trascenderlo.

La magia durerà giusto il tempo di guadagnarsi gli annali, dopo di che Bigg Jus se ne va. La compagnia si scioglie – seguiranno sporadiche reunion, ma soltanto dal vivo – all’inizio del nuovo millennio dopo lo strumentale Little Johnny From The Hospitul. Sotto ai riflettori soprattutto El-P, intestatario a inizio anni zero del favolosamente oscuro e stordente Fantastic Damage e oggi dispensatore di stile e creatività con gli ottimi Run The Jewels, nonché fondatore del marchio Definitive Jux, che ha tenuto a battesimo il genio visionario di Cannibal Ox e si è occupata della ristampa del capolavoro qui magnificato. Massimo rispetto.

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Fiori sotto la casa dei Public Image Limited

La vita è strana. Beato chi ci vede un percorso coerente e uno straccio di senso. Come direbbe Julian Cope, è un caos elegante. Per questo a volte è meglio lanciare sassi dentro lo stagno e vedere che succede: contare i cerchi, oppure guardarli finché non diventano sempre più sottili fino a sparire dalla vista. John Lydon non ne poteva più del punk e del pupazzaro McLaren: secondo pel di carota, quella rivoluzione doveva far nascere cento nuove musiche e non cento copie dei Sex Pistols. Strappati i fili con cui Malcom, povero illuso, credeva di poterlo controllare, se ne andò ad allestire un suo progetto che mostra come John Non-più-marcio già avesse nella testa il post-rock.

Per forma, attitudine e spirito, siccome battezzò la nuova avventura Public Image Limited giocando con la percezione di noi che hanno gli altri e l’idea che un gruppo musicale potesse essere concepito e gestito come un’azienda. Prima di perdersi e poi ritrovarsi, infilerà il Capolavoro Metal Box tra altri due LP sensazionali che tuttora lasciano a bocca aperta, il terzo in ordine cronologico ancor più del primo.

Flowers Of Romance

Più che l’ingresso nei Top Twenty britannici seguito alla pubblicazione nella primavera 1981, di Flowers Of Romance stupiscono l’attualità e la forza con le quali risponde a un momento difficile. Perso un membro fondatore e un fondamento del suono con l’abbandono del bassista Jah Wobble, non senza un certo cinismo Lydon e il chitarrista Keith Levene serrano le fila e cambiano pelle un’altra volta con Martin Atkins, batterista presente solo in tre brani. Gettate un paio di settimane in tossici cazzeggi allo studio The Manor, assieme all’ingegnere del suono Nick Launay (poi convocato da Phil Collins grazie alla sapienza con la quale qui registra la batteria) si torna a Londra a sperimentare.

Tenendosi stretta la forma canzone tranne che nel conclusivo e sfocato delirio Francis Massacre, Flowers Of Romance sposta l’asse sulla ritmica. Resa irriconoscibile una chitarra comunque defilata e sistemato in un angolino il basso, tamburi e percussioni salgono al proscenio mescolandosi a echi mediorientali, sintetizzatori Prophet, orologi da polso amplificati, registrazioni televisive e molto altro. Da trame stratificate però minimali si libera una bestia che all’inizio non capisci cosa sia né cosa voglia. Qualcosa che – al massimo e vagamente – può ricordare una versione parecchio velenosa del Peter Gabriel di Intruder.

PIL

Poi quell’animale ti parla. Flowers Of Romance si conficca nel cervello con inesorabile calma, perché è allo stesso tempo subliminale e concreto. Qui piomba addosso come un mattone e là accarezza con rasoi di velluto, persuadendo che il genio autentico decolla dai propri limiti con pochi mezzi ma un’infinità di idee. Idee che dal krautrock e da Captain Beefheart si/ci spingono dritte nella contemporaneità di fan dichiarati come i Liars. E che scintillano nei martellamenti da muezzin in paranoia di Four Enclosed Walls e Under The House, nel groove sbilencamente efficace di Track 8, in una Phenagen ondeggiante tra teatro della crudeltà e trasfigurazioni etniche.

Laddove la title-track, nenia mista di gotico e gitano che vide la luce anche su singolo, è la faccenda con maggior parvenza di normalità e Hymie’s Him tratteggia una ambient brumosa parecchio inquieta(nte), Banging The Door gonfia i Can di sarcasmo e vetriolo e Go Back gira come una rugginosa, ipnotica giostra. Pionieristico, selvatico e visionario, Flowers Of Romance risulta perfetto nella sua (lievissima) imperfezione. Mi ricorda certi variopinti pesci tropicali che ti osservano dalla vasca, mentre per un attimo pensi che forse il vero prigioniero sei tu. Ma no, dai. Deve essere un’allucinazione. Oppure un’altra Immagine Pubblica.

Ian Hunter, golden aged rock ‘n’ roller

Da ragazzo seguivo i Mott The Hoople lungo il paese saltando sul treno senza pagare. Era un periodo meraviglioso: tutto ciò che volevo era suonare la chitarra. Nient’altro.” Il giovanotto cui devo la citazione la suonerà eccome, quella chitarra. Così bene da superare Maestri coi quali, galantuomo, saprà sdebitarsi. Di lui avrete certo sentito parlare: si chiama Mick Jones. I Mott The Hoople facevano questo effetto a chi poté viverli, poiché erano – Kris Needs dixit – “the people’s band”, il gruppo della gente e per la gente che rispettava il pubblico perché da là veniva e ne andava fiero. E ottenne un agognato riscatto percorrendo una via tortuosa portando con sé appassionati e colleghi.

Tra questi, altri hanno raccolto la fiaccola come Morrissey, Grant Lee Philips e Michael Stipe, fan terminale che all’epoca di Lifes Rich Pageant modellò il look su Ian Hunter e che ha citato i Mott in Man On The Moon traendone ispirazione per Monster e New Adventures In Hi-Fi. Devozione e interesse perdurano, come dimostrato dai recenti box Mental Train: The Island Years 1969-71 e From The Knees Of My Heart: The Chrysalis Years, incentrato sul biennio ‘79-‘81 del solo Hunter. In fondo, ditemi come si fa a non voler bene ai Mott The Hoople: canzoni romantiche e argute, dignità conferita al glam e trucchi insegnati al punk sullo sfondo di una brillante “terza via” tra la dimensione art dei Roxy Music e la sognante sensualità bolaniana. Cuore, muscoli e poesia che si fondevano parlano tuttora a chi sa ascoltare.

Motts

Pensare che gli inizi non furono granché… A metà ’60, tali Doc Thomas Group “vantano” un LP di cover registrato in Italia e concerti sulla riviera romagnola. Chiusa la parentesi, Peter “Overend” Watts (basso), Dale “Buffin” Griffin (batteria), Mick Ralphs (chitarra) e il cantante Stan Tippins accolgono l’organista Verden Allen diventando i Silence. Vanno a Londra e nessuno se li fila finché Ralphs irrompe nell’ufficio del produttore Guy Stevens – vedi alla voce London Calling – sbattendogli un demo sul tavolo. Detto, fatto: band assunta alla Island senza Tippins (da qui fedele tour manager), ribattezzata come sappiamo e raggiunta da un nuovo cantante, Ian Hunter Patterson. Tra cinque e dieci primavere più degli altri, ha famiglia e un passato in fabbrica ma adora Jerry Lee Lewis, Little Richard, Bob Dylan e scrive, canta e pesta sul pianoforte.

In una settimana del ’69 è pronto l’esordio omonimo che mostra il felice bipolarismo tra il rock stradaiolo di Ralphs e le ballate stile Blonde On Blonde scritte da Ian. Il sessantaseiesimo posto in madrepatria cagiona la tournee che sfocia in USA, influenzando a fine decennio un Mad Shadows dove foga e introspezione si bilanciano poco anche per l’incapacità a catturare in studio la potenza di spettacoli in cui la band chiede solo una sterlina per l’ingresso, introduce di nascosto i kids più accaniti e li accoglie sul palco. Punk? Sì, grazie. Intanto in Wildlife Guy latita e si sente, l’attitudine incompromissoria procura rogne e idem il divorzio del frontman. La rabbia è trasmessa a giovani che mettono a soqquadro la Royal Albert Hall e canalizzata in Brain Capers, che recupera terreno con il rientrante Stevens.

hunter

I Nostri sono comunque messi alla porta e toccano il fondo a Zurigo, esibendosi in una stazione di benzina dismessa. A scioglimento deciso, il tifosi di lunga data David Bowie propone un contratto Columbia più l’inedita Suffragette City: Hunter e soci chiedono Drive-In Saturday e ci si accorda su All The Young Dudes. Buffo che uno degli inni glam passi alla storia grazie a una gang di proletari etero, ma del resto tali erano anche i Ragni Marziani, a conferma che quell’epopea fu un teatro di sottintesi e con-fusione, del rivelare il gioco per smontarlo e rimontarlo. Per questo immagino Malcom McLaren che prende appunti in un’estate albionica del 1972 in cui il brano sale al terzo posto. Pochi mesi dopo, nell’LP omonimo Bowie produce e perfeziona l’altrui talento in un’atmosfera di colta decadenza urbana.

Aperto con la dichiarazione di intenti della velvetiana Sweet Jane, è imperdibile e fascinoso nei Roxy lividi di One Of The Boys e nel commiato orchestrale Sea Diver, nell’hard stiloso e asciutto Ready For Love/After Lights e nel Lou Reed storto e blues di Momma’s Little Jewel, in una Jerkin’ Crocus profumata d’asfalto bagnato e nella viziosa Sucker. L’inatteso clamore sgretola i rapporti: nel ‘73 Morgan Fisher subentra alle tastiere. Uscito di scena Ziggy, Mott reagisce con la trascinante raffinatezza di All The Way From Memphis e Honaloochie Boogie, il sensazionale “proto post-punk” Violence, le sculettate à la Jagger di Drivin’ Sister e la meditativa Ballad Of Mott The Hoople. La diaspora però non si arresta: Ralphs forma i Bad Company, rimpiazzato da Luther Grosvenor/Ariel Bender quando in lizza c’erano Joe Walsh, Ronnie Montrose e Tommy Bolin.

dudes

Nonostante qualche eccesso, l’anno seguente The Hoople piace per le epidermiche The Golden Age Of Rock & Roll, Roll Away The Stone e Born Late ‘58, una Crash Street Kidds che omaggia gli Sparks anticipando gli Only Ones, la dylaniana Trudi’s Song. Ci si imbarca nell’ennesimo giro concertistico – primi rockettari a invadere Broadway: ancora i Clash prenderanno nota – riassunto da Live, incendiario preludio al 45 giri spectoriano Foxy Foxy e alla celebrativa Saturday Gigs. Ultimi guizzi, ché mi resta ancora da riferire di Mick Ronson che scalza Bender, del capobanda che si chiude in ospedale con l’esaurimento nervoso, poi esce e inizia la carriera solista. Degli altri che tirano a campare come Mott fino al ’76, poi diventano British Lions e infine spariscono.

Di Hunter sono da avere almeno You’re Never Alone With A Schizophrenic del ’79, con Mick più mezza E-Street Band,  Short Back n’ Sides, dove due anni dopo sempre Jonesy supervisiona un magico mix tra London Calling e Sandinista! Welcome To The Club, superba fotografia dal vivo. Le strade dei Mott The Hoople si incroceranno sporadicamente con le voci sulla rimpatriata fino all’autunno 2009, quando la formazione quasi completa tiene alcuni concerti a Londra. Il tutto esaurito fa sì che un evento in teoria unico sia replicato, malgrado il decesso di Griffin nel gennaio 2016 e di Watts un anno e rotti dopo. Pur disapprovando, capisco il tentativo di esorcizzare Crono. I veri rocker sono umani che l’Arte trasforma almeno per un giorno in Eroi. Felice compleanno, Mr. Hunter.