La fuga di Paul

Fatto numero uno: alcuni appassionati di rock sono come i tifosi che sbandierano le proprie talebane certezze al bar sotto casa. Confesso che, in anni giovanili nei quali l’apertura mentale un po’ difettava, pure io sono incappato in qualche oltranzismo ed è un peccato, siccome con l’ombra del mezzo secolo dietro l’angolo so di aver perso ore di gioia. Fatto numero due: dai primi della classe pretendi il massimo e per questo la critica ha randellato il McCartney solista senza pietà. Spesso con ragione, ché è dura mandar giù le silly songs da spot del deodorante e certi LP utili a sonorizzare centri commerciali. Eppure, sotto la ruggine e le sdolcinatezze, trovi del buono e finanche dell’ottimo: parlando di 33 giri, calo un tris sfrondando di abbozzi e ridondanze sia l’omonimo debutto che il successore Ram e aggiungendo Chaos And Creation In The Backyard.

Nel mezzo ci sono gli Wings, parentesi di gruppo paravento per dimostrare che si sapeva ancora collaborare. Perché Paul è tante cose: sperimentatore curioso e rocker di razza, melodista stellare e promotore di buone cause. Uno che fa cento cose e se qualcosa non riesce, ok lo stesso: domani è un altro giorno. Perché se nasci sotto il segno dei Gemelli sconti un po’ la bipolarità, ma al momento giusto sai zittire chiunque. Poco alla volta, oltre al successo commerciale è giunta così anche la rivalutazione critica. Non so quanto interessi a un uomo di terza età che, signorilmente, affronta una vita che lo ha privato anzitempo di due amici – nonché compagni del Sogno che cambiò il mondo e che, spezzandosi, lo mandò in crisi – e dell’adoratissima moglie.

Paul

Nonostante tutto, Paul conserva il lampo negli occhi e nel sorriso. Ne sono felice e anzi commosso. Ora di recarmi a Canossa, adesso, raccontando nello spazio che resta di un disco da aggiungere senza esitare a quelli testé citati e fare poker. Non semplice la genesi di Band On The Run, ma le difficoltà temprano l’artefice e i risultati: gli Wings – Sir Paul, la consorte Linda, i chitarristi Denny Laine ed Henry McCullough, Danny Seiwell alla batteria – sono alla vigilia della terza tappa di un viaggio sin lì poco convincente. Approfittando della defezione di Seiwell e McCullough, si vola a Lagos, Nigeria, con l’intenzione di usare gli studi locali della EMI. Non proprio lo stato dell’arte questi ultimi, ma tra una rapina subita e un confronto con Fela Kuti si completa il lavoro entro la fine dell’estate ‘73.

Paul fa quasi tutto da sé e, citando il Fiumani, fa molto più di tre: trova un moderno pop-rock curato nei dettagli e pieno di intuizioni, energia, passione. Non butti via nulla, qui: non l’omonima mini suite che apre i giochi avvolgente ma inquieta per esplodere anticipando l’innodica malinconia dei Grandaddy; non una sinuosa, muscolare e irresistibile Jet tra glam e premonizioni di XTC; non il delicato etno-folk Bluebird, il roots-rock battente Mrs. Vandebilt e Let Me Roll It, che su uno strascicato errebì invia messaggi (arrangiamento e voce la rendono una potenziale outtake di Plastic Ono Band) a Lennon. Il quale si complimenterà per il disco e sarà un primo appianare il clima di polemiche creatosi nell’immediato post-Beatles.

BOTR

Non da meno un lato B dove scorrono l’asciutta ballata Mamunia, la No Words scritta con Danny Laine mediana tra Rubber Soul e Abbey Road, l’articolato omaggio Picasso’s Last Words (Drink To Me) che, come fosse opera di un Van Dyke Parks d’oltremanica, scivola imprendibile tra acusticherie, jazz da rive gauche, rimandi ad altri pezzi dell’album e sapiente orchestrazione. Resta ancora la “disco-rock” alla Roxy Music, stranita e colpita al cuore dal synth, di Nineteen Hundred And Eighty-Five: a fondo corsa, chiusa su un’ulteriore citazione della title-track esorta a ripartire da capo e un po’ sale il dubbio che Band On The Run sia una specie di concept.

Del resto parlano chiaro il titolo e una copertina dove il gruppo è colto da un riflettore mentre cerca di evadere dal carcere. Il tema è: scappare. Chissà se dal fardello del recente passato, dallo show business o da un’esistenza che tanti pretendevano fosse “come prima” ma lui no, perché non avrebbe avuto senso. Mi piace pensare che Paul abbia esorcizzato lo spirito di quella band con un disco: ovvero, con un cerchio che gira su se stesso. E che abbia sigillato il cerchio con un’identità artistica infine consacrata alla propria (im)perfetta solitudine.

Pubblicità

Vaselines: perché low-fi?

A volte serve tempo per vedersi riconoscere dei meriti. Magari deve tessere le lodi un nome “importante” ed ecco cani e porci saltare sul carro. Così va il mondo, amen. Dando per scontato che chiunque conosca Unplugged dei Nirvana, sottolineo che solo un vero punk come Kurt Cobain poteva inserire in scaletta una serie di brani altrui che erano atti di riconoscenza e amore: accanto al Leadbelly straziato e straziante, a dei Meat Puppets conclamati classici e a un Bowie elevato a nuova e altra Immortalità, ecco una ballata vibrante e innodica sino ad allora patrimonio di pochi cultori. Tra luce di quelle candele, Jesus Doesn’t Want Me For A Sunbeam è cosa Maiuscola. Di tale “pubblicità”, Eugene Kelly – autore del brano e, con Frances McKee, anima dei Vaselines – ha tuttavia beneficiato solo in termini di royalties, senza oltrepassare il culto.

Eppure il leader dei Nirvana (ipse dixit: “i miei compositori preferiti al mondo”) non fu l’unico a trarre ispirazione: nell’elenco vanno inclusi la K Records, Beat Happening, Sebadoh e un’ampia fetta del low-fi statunitense dei ‘90. Di conseguenza, anche chi in epoche più vicine ha memorizzato il manuale “C86”, per esempio Veronica Falls (che dei Vaseslines hanno inciso una cover) e le Girls prefissate Dum Dum e Vivian. Influente  Eugene Kelly lo è. In un modo sommerso che si confà a lui e all’amico Stephen Pastel, l’altro scozzese portabandiera del guitar-pop amabilmente ruvido e citazionista dei secondi anni Ottanta.

Vaselines

Corre l’anno 1986 quando in un pub edinburghese Eugene e Frances fondano i Vaselines, raccogliendo più tardi alla batteria l’altro Kelly, Charles, e il bassista James Seenan. L’amico Stephen ha messo su l’etichetta 53rd And 3rd (ah, Ramones!) e gli offrono la prima session in studio, Son Of A Gun. Brano spettacolare che farà scuola per verve melodica, minimalismo tagliente e ruvido, possiede un’espressività brada e schietta che mostra un embrione dei Nirvana – il feedback iniziale, quel canto annoiato, l’aprirsi del ritornello – mentre le ancelle dell’ottimo EP porgono folk elettrificato e una canzone di Divine (!) in salsa techno-pop garagista.

Il successivo 7” Dying For It approfondisce invece il legame con i Velvet Underground (sia per il tramite generazionale di Psychocandy che per il versante torbidamente quieto) in Molly’s Lips e nell’originale Jesus Doesn’t Want Me For A Sunbeam, in punta di viola e cuore aperto. Da avere anche l’album Dum Dum – che dicevo su ragazze e ispirazione? – che nell’89 varia gli schemi con le tastiere (Slushy) e anticipando lo yé-yé da motociclisti dei Raveonettes (Monsterpussy), dandosi al countrybilly (Oliver Twisted) e a filastrocche disturbate (The Day I Was A Horse), incrociando i fratelli Reid e i Television Personalities (Bitch, Dum-Dum), strapazzando polaroid della California (Lovecraft) e del Greenwich Village (Let’s Get Ugly).

the way of

La storia (inclusa quella d’amore tra Eugene e Frances) finisce nella settimana in cui l’LP è nei negozi. I Vaselines si ritrovano solo nel 1990 per aprire la data cittadina dei Nirvana. Due anni e Incesticide recupera le Molly’s Lips e Son Of A Gun nirvaniane, la Sub Pop paga pegno con la raccolta The Way Of The Vaselines e Kelly torna con gli Eugenius, dopo che il 12” Flame On a nome Captain America ha causato beghe legali con la Marvel. Oomalama si adatta all’epoca con suoni induriti e una produzione più cristallina, recupera l’EP incriminato e chiude il cerchio rifacendo Indian Summer di Calvin Johnson. Non male, però vende poco e si chiude bottega dopo un mini dal vivo e il mediocre Mary Queen Of Scots.

Avanti veloce sul trascurabile seguito fino all’estate 2006, quando la coppia torna per un concerto di beneficenza. Altri due calendari via dal muro e, con un’altra sezione ritmica, gli spettacoli proseguono sempre meno in sordina, apici la prima data americana (a Hoboken: mi piace credere che gli Yo La Tengo fossero in prima fila) e la festa del ventennale della Sub Pop. Seguono l’antologia Enter The Vaselines, il Primavera Sound, l’All Tomorrow’s Parties e un paio di album – Sex With An X (Sub Pop, 2010); V For Vaselines (Rosary Music, 2014) – nei quali ritrovo le psicotiche nenie e i ruvidi babà pop che risuonano lungo l’ultimo trentennio indie. Mica male per degli artigiani, no?

Amichevolmente vostri, Charlatans

Nel rock aiuta moltissimo ragionare in retrospettiva, perché il distacco cronologico permette di rileggere serenamente i fenomeni e (ri)contestualizzare mode e tendenze. Prendiamo il “Madchester sound”: cosa resta, trent’anni dopo? L’esempio di crossover assoluto e l’attitudine sono impresse forti e chiare, certo, ma se parliamo di album, il cesto non è esattamente colmo. Vero che fu un momento ‘pop’ e quindi fulmineo, basato più su singoli e 12”, comunque… Ecco a voi Screamadelica, Capolavoro assoluto nell’ultimo anno dei Capolavori assoluti. Poi Pills ‘n’ Thrills And Bellyaches degli Happy Mondays, altro passaggio obbligato che portò in classifica l’accidia e il cinismo dei poeti di borgata.

L’esordio degli Stone Roses? Splendido oltre ogni dire, ma con la pista da ballo e l’ecstasy c’entrava giusto di striscio, essendo in realtà uno degli ultimi Capolavori del pop chitarristico indie anni Ottanta e perciò una cerniera tra epoche. L’elettronica policroma degli 808 State, beh, anch’essa una grandiosa faccenda parallela. Vengo al punto aggiungendo un 33 giri che all’epoca la stampa britannica esaltò e che oggi mi colpisce per come osserva da una nicchia dorata ciò che lo ha seguito.

charlatans

Tranne i primi EP, se chiedete a me nessun altro lavoro dei Charlatans vale l’esordio del 1990, quel Some Friendly che cattura l’attimo di cui sopra sottolineando come spesso il più fulgido pop d’oltremanica derivi dalla commistione con la black music. Le radici dello stile sensuale e comunque dotato di un piglio sostenuto della formazione del West Midlands (il cantante Tim Burgess, carismatico e dall’adeguato physique du role; le tastiere di Rob Collins e la chitarra di Jon Baker; la ritmica con Martin Blunt al basso e Jon Brookes, batterista morto di tumore al cervello nel 2013) stavano in antesignani come Brian Auger, Graham Bond Organization, Spencer Davis Group. E nei Prisoners, cult-band dalla quale proveniva un altro coevo sdoganatore dell’organo Hammond, James Taylor.

Parlano chiaro lo strumento padroneggiato da Rob Collins – scomparso pure lui: nel ’96, in un incidente automobilistico – e lo scintillante singolone The Only One I Know, recuperato all’epoca sulla versione CD. Tuttavia i ragazzi non erano dei meri revivalisti: il loro errebì ad alta seduzione era sintonizzato sulla contemporaneità e più che altrove negli echi di jingle-jangle da R.E.M. maturi dell’inno Sproston Green, nella moderna pelle nera di Believe You Me e Polar Bear (ai Charlatans la house di Chicago piaceva assai: anni dopo, Burgess canterà con i Chemical Brothers e costoro sforneranno un eccellente remix di Patrol) e nei ‘60 ricordati con garbo e acume in White Shirt.

some friendly

I Ciarlatani insomma furono baggy poco e bene, nondimeno freschezza e personalità ci guadagnarono comunque. Alla deboscia il quintetto preferiva rattristarsi (Then), lanciarsi tra le pieghe di una morbida neo-psichedelia squisitamente albionica (You’re Not Very Well, Sonic) e trovare un groove cautamente danzabile mentre erano in “viaggio” e viceversa. In Some Friendly l’alchimia funziona dall’inizio alla fine e sarà l’unica volta, poiché subito ci saranno defezioni, sfighe e casini vari che vi risparmio.

La vicenda arriva sino all’attualità attraverso vicissitudini, ma soprattutto tramite una sequela di album piuttosto carini, quale più e quale meno impreziositi da occasionali zampate e buoni spunti. Detto ciò, non mi sento di definirli imperdibili. Consiglio invece di investire tempo e denaro su Same Language, Different Worlds del 2016, dove Tim Burgess e Peter Gordon collaborano omaggiando intelligentemente il Bowie berlinese e quel gran Genio di Arthur Russell. Volete un tris? Procuratevi Melting Pot, eccellente raccolta datata ‘98 dall’ottima scelta di brani e siate felici. Il crogiolo dei Charlatans sarà stato talvolta un pochino confuso, ma al suo meglio era brillante assai. E lo resta tuttora.