Ci voleva Geoff Barrow per farmi vedere la luce. Tranquilli, nessuna crisi mistica di mezz’età: si tratta del sospetto e delle perplessità con cui accolgo certe band contemporanee che, pur dotate di talento, falliscono in qualcosa. Ora quel qualcosa ha dei tratti definiti ed è in parte riconducibile al vuoto dentro l’anima e il cuore delle nuove generazioni. La scintilla è stata il tweet provocatorio ma ampiamente condivisibile pubblicato alcuni giorni fa dal fondatore dei Portishead.
Parlando dei Black Midi, giovanissimi suoi connazionali che in tanti portano in palma di mano, Barrow ha sibilato un “Riassumono tutto ciò che vi è di sbagliato nelle scuole di musica” e d’improvviso quelle parole hanno spazzato via un po’ di nubi che mi offuscavano la vista. Ringrazio perciò l’amico Ettore Craca – vi confido un segreto: a lui devo anche il nome di questo blog – per la notizia, per il dibattito che ha sollevato e le riflessioni che vado qui a sintetizzare.
Non ho niente contro i Black Midi, così come non ho niente contro un’altra formazione emblematica della nostra epoca come gli Housewives. E sono certo che neppure Barrow li detesti. Semmai, non li sente. Non è questione di gap generazionale: Schlagenheim offre un suono interessante, idee, una tecnica esecutiva notevole. E poi? E poi basta. Spero di non risultare paternalistico quando affermo che questo famolo strano non sa di vita vissuta e, benché apprezzabile, tenta di stupire senza anima. Da un post-rock iper riccardone, insomma, emerge l’estetica di una generazione spasmodica e spesso superficiale. E fa riflettere anche che siano dei giovanissimi a incappare nel virtuosismo, quando quello è stato per lo più prerogativa di musicisti più attempati. Come se il punk fosse stato ribaltato per qualche bizzarro scherzo prospettico.
Ecco. Se lo stile non conquista, almeno spinge a ragionare. Ad esempio, sulla percezione del reale di chi ha affrontato e affronta un’esposizione a tecnologia e media che non conosce precedenti; di chi, in ragione di ciò, ha tutto a portata di mano e non sa cosa siano la magia e il mistero della scoperta. Le emozioni latitano perché i ragazzi non ne avvertono la necessità, trattandole in fondo con l’annoiata bulimia con la quale affrontano tutto il resto. Quanto alla famigerata vita vera, Instagram e Snapchat li proteggono finché il grande nulla sbatterà giù le pareti delle loro camerette virtuali, lasciandoli a fare i conti con la brutale materialità dell’esistenza. Da soli.
Chi ha una certa età ricorderà benissimo nottate insonni a inseguire la radio e tradurre testi, battute di caccia in negozi dove conoscevi gente e scambiavi opinioni, lettere scritte a mano alle etichette… Di quella fatica a ottenere e di quelle imprese romanticamente naif serbiamo giusta nostalgia, perché quando ascoltare e incidere musica costava caro, noi eravamo lì. A crescere assieme ai dischi, a costruirci un’identità e diventare adulti. Da che la Rete ha preso il controllo, però, la necessità non funge più da madre all’invenzione e il suo posto è occupato da un asettico accumulo compulsivo. I risultati li ascoltiamo ogni giorno, controprove incluse (penso a Suuns e These New Puritans, che sono di generazioni immediatamente precedenti: si sente).
Da quasi cinquantenne che cerca di capire i “giovani d’oggi” e intanto ricorda quando era giovane lui, vi dico che mi piacerebbe molto vedere i Black Midi maturare. Gli auguro insomma di aprire l’anima e farci entrare aria fresca. Non parlo di quell’autenticità che, spesso malintesa o usata come paravento, non ha più significato nella popular music. No. Parlo del cinismo ottimistico e del distacco soltanto apparente, che sono forme nascoste di passione e per questo hanno mutato il corso della Storia. Parlo dello spirito che accomuna Velvet Underground, Can, This Heat, Aphex Twin e diversi altri Geni. Parlo di ciò che può salvarci. Perché un altro mondo è possibile, ma non ancora per molto.
Non solo per chi ha una “certa età”: ricordo bene le ore passate a scorrere le stazioni radio per “registrare” in cassetta le canzoni preferite (che poi alla fine erano stralci di canzone perché qualcuno ci parlava sempre sopra sul più bello). È vero, era un rapporto con la musica diverso!
Ho notato però -e con umiltà mi ci metto pure io- che la comodità dello streaming (più che altro l’infinito database), oltre all’ascolto superficiale, ha progressivamente allontanato molti di quei “analogici/nostalgici” dallo studio separato del disco -specie se nuova uscita-. In un certo senso, giustificando l’ascolto superficiale con un’eventuale mancanza di “anima” nell’opera dell’artista. C’è una sorta di dipendenza, come se il fiuto e l’esperienza di tanti e tanti ascolti negli anni, fossero sufficienti a giudicare e catalogare rapidamente un disco: in alcuni/molti casi è così, ma in altri no… perdendo per strada certi dischi, oggi più che validi…
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Sono d’accordo, in pratica quando tutto è gratis niente ha più valore.
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La base è un po’ quella, ma il discorso è assai più ampio. Principalmente, il “problema” è che le giovani generazioni arrivano alla musica del passato con un processo di ricerca spesso slegato dal contesto storico e sociale originario. Così che alla fine resta il “guscio” stilistico ma non l’essenza, il significato profondo che certi generi si portavano dietro in origine. Ad esempio, chi negli ’80 recuperava il garage rock, aveva una conoscenza della materia e “sentiva” interiormente quel mondo, magari con nostalgia, ma lo ricreava affinché non andasse perduto sia dal punto di vista estetico che etico. Oggi, per lo più, l’estetica prevale sul resto; la forma – il formalismo – sul contenuto.
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