“Credi che la vita sia comunque degna di essere vissuta? Lo spero… beh… è una domanda veramente dura, hai fatto bene a lasciarla per ultima… come saprai soffro di depressione da sempre. Però c’è così tanta bellezza da scoprire e la vita è quello che possediamo. Proprio dietro l’angolo possono esserci meraviglie a portata di mano. Adoro tutto ciò e cerco di metterlo nelle canzoni. E’ la forza che mi sorregge e che credo si rifletta nei miei dischi. Sì… è tutto lì, nelle rivelazioni.”
Ultimamente mi capita di pensare che per davvero, citando Jennifer Egan, il tempo sia un bastardo. Però sa anche dirsi galantuomo, se parliamo di Arte. Nel senso che scorre imperturbabile, ma qualcosa di noi resta mentre ci arrangiamo a vivere. Il che significa anche scegliere una strada e, pur sapendo che non sarai l’unico a percorrerla, fregartene. E incamminarti. Sono trascorsi dieci anni da che intervistai Vic Chesnutt per “Extra”, poco prima che decise di farla finita, e il succo di quei discorsi lo leggete nello scambio di battute sopra riportato.
Nella mia, uh… “carriera” è un momento ineguagliato e ineguagliabile, anche se non ho più riascoltato la cassetta con la nostra chiacchierata. Il nastro è rimasto in un’altra casa e in un’altra vita, che mancano come può mancare ogni cosa che lascia il segno. I dischi, tuttavia, ho iniziato a riascoltarli solo dallo scorso luglio. Qualcosa è scattato e ho capito che nel frattempo si erano portati via un pezzo di me; adesso, un decennio tondo dopo, quel pezzo lo stanno restituendo. In punta di piedi, gli album tornano a popolare i miei giorni e insieme alterniamo lacrime e sorrisi.
E siccome i cerchi ogni tanto si chiudono, è di stretta attualità la pubblicazione per Jimenez di “Non fare stronzate, non morire”, memoir lucido e commovente scritto da Kristin Hersh. Leggetelo: vi farà male ma bene. Come le Canzoni di quest’uomo, che figura tra i più grandi songwriter di sempre perché ha cantato la vita. Ha colto le rivelazioni nascoste nel quotidiano, in lui, in noi. Ha preso gomitoli di emozioni e li ha srotolati in brani che sono una coltellata al cuore e ci ricordano di essere vivi. Di curare la memoria, perché altrimenti fingiamo di vivere. Non sia mai.
Di quel pomeriggio ricordo in particolare che, terminata la conversazione telefonica, Vic era fisicamente nella stanza. Per la forza di ciò che aveva detto e di una musica larger than life. Così che, riflettendo su quella giornata di novembre e sugli accadimenti successivi, mi sale una commozione incontrollabile, però anche una voglia di Bellezza eterna che apre gli occhi e spinge ad abbracciare il mondo. Sul gesto con il quale l’artista georgiano pose fine ai suoi giorni non esprimo giudizi. Nessuno dovrebbe. Il suicidio è una questione privata. E benché ci sforziamo di ignorarlo, il blues pesa in spalla dalla nascita e alcuni non lo reggono. Siamo umani e dobbiamo mostrare umanità. Così sia.
Preferisco pensare agli amabili resti. A Canzoni meravigliose, sincere da schiantarti il cuore e figlie della franchezza e dell’umiltà dei veri Grandi. A un concerto milanese del marzo 2009, chiuso investendo Everybody Hurts di un’aura liberatoria tuttora conficcata in chi c’era. A quella voce, sottile e insieme robusta come un filo che ondeggia al ritmo del vento. A una poetica intima che si trasforma in sentire universale, per descrivere la quale sono stati tirati in ballo con piena ragione Franz Kafka ed Emily Dickinson. Insomma: Vic Chesnutt non era nato per categorie ferree. Apparteneva a un’epoca antica e a essa si sarebbe ricongiunto. Era un cantore accompagnato da un’ombra.
Non mi riferisco al flirt con la morte che lui stesso cantò: intendo l’enigma che conquistava consegnando un rebus da risolvere. Sembrava di non averlo perfettamente a fuoco, lui che come pochi si è lanciato oltre il muro tra performer e pubblico e svaniva dentro la musica, austera al punto da non poter levare una nota, un sospiro, un accordo. Tutto stava – starà per sempre – nella sua chitarra logora e nelle sue corde vocali: pathos e conforto, rabbia e tristezza, sogni e ricordi. Ultimamente penso alla luce che non si spegnerà mai, anche se ci ha negato la gioia di un happy end. Mi ripeto che di un uomo si conservano i gesti e le parole che ha regalato agli altri, non quelli che ha tenuto solo per sé. Grazie infinite, Vic.