La storia della musica popolare è attraversata anche da artisti che in qualche modo riescono a modellare la malasorte. Bill Fay è uno di loro. Ed è uno per il quale il termine superculto sembra cucito su misura, essendo rimasto patrimonio di pochissimi fino al nuovo millennio, allorché David Tibet e fan divenuti valenti discepoli come Jim O’Rourke, Marc Almond e Jeff Tweedy lo riportavano sotto i riflettori. Si poté così constatare l’attualità e il peso del suo folk-rock ombroso e progressista, sia grazie alle ristampe dei primi due LP che alla coppia di lavori del “ritorno al futuro” editi lo scorso decennio dall’americana Dead Oceans. Tutta di alto profilo la discografia di costui, benché smilza in ragione della trentennale assenza dalle scene causata dall’annullamento del contratto con la Deram. Consegnato nel ’71 il Dylan post-apocalittico del magnifico Time Of The Last Persecution, l’etichetta licenziava Bill per le scarse vendite e lui, in tutta risposta, mollava lo showbiz e si guadagnava il pane da impiegato.
Non smetteva di scrivere, suonare e incidere, per fortuna. E per fortuna, prossimo alle settantasette primavere, è ancora tra noi a gioire di un po’ di gloria. Sorge allora spontaneo un parallelo con Michael Chapman: simili destini, l’acuta trasfigurazione del folk, una fiera determinazione che li sorregge e li guida. Caratteristiche che ritroviamo anche in Countless Branches, album che il cantautore londinese pubblica oggi e che del tutto nuovo non è. Poi spiego meglio, ma ora mi preme sottolineare che con esso si celebra mezzo secolo da un altro trentatré giri, cioè l’omonimo esordio di Fay rievocato in foto promozionali che trasportano al qui e ora lo scatto di copertina e, più simbolicamente, in un titolo significativo come “rami infiniti”, che mi piace pensare alluda alla tradizione – al folk! – che cambia restando se stessa.
Dicevo di un piccolo distinguo: la scaletta proviene dal taccuino degli appunti del songwriter, tuttavia parole e melodie sono di nuova ispirazione. Ancora sfuggente dopo tutti questi anni, l’uomo sarebbe da applaudire anche solo per l’intelligenza e la caparbietà del gesto, non fosse l’esito emozionante più che mai. La decina di pezzi offerta da Countless Branches (cui è da aggiungere una manciata di versioni elettriche, ripescaggi e inediti dell’edizione “deluxe”) trova nell’essenzialità e nell’estrema concisione la ragione d’essere. Confermati Joshua Henry in regia e il cast di strumentisti, i toni sono minimali e raccolti, gli ambienti occupati dal pianoforte, da una chitarra scarna e dalla voce dolente di Bill. Sistemata un’occasionale batteria qui e laggiù un lieve tocco di archi e fiati, l’arredo rimane comunque improntato allo stretto necessario per non distrarre dall’intensità delle composizioni.
Di conseguenza, non risultano affatto intimorenti la delicata afflizione di Salt Of The Earth, l’ipotesi di un Oh Mercy cameristico realizzata in Time’s Going Somewhere e How Long, How Long e una Your Little Face che veste Will Oldham con la stoffa dell’ultimo Cohen. La spiritualità e l’espressività che trattengono sono qualità rare, come sottolineano la dolceamara In Human Hands e gli “inni sommessi” Filled With Wonder Once Again e Love Will Remain, la pura commozione di una One Life da giovane Tom Waits e il laconico intimismo di I Will Remain Here e della title-track. Un avviso: più che con “semplici” canzoni, qui abbiamo a che fare con pagine di prezioso crepuscolarismo d’autore. Il consiglio è di custodirle con cura, perché ve ne innamorerete seduta stante.