Futurafrica: Jon Hassell incontra i Farafina

Le etichette a volte sono odiose più dei paragoni. Provate ad appiccicarle agli artisti e loro faranno spallucce o vi guarderanno di traverso. Comunque un male necessario il tentativo di incasellare i dischi, che quando non sfora in ridicolaggini buone solo a soddisfare l’ego di chi le conia risulta piuttosto utile per spiegare un suono con le parole. Impresa comunque ardua, ve lo garantisco. Così come è difficile ingoiare senza una certa nausea il termine “world music”. Questione di prospettive, ecco: in America Lucio Battisti sta in quella sezione e su questo lato dell’oceano c’è Caetano Veloso. Fisime? Mica tanto, se uno dei messaggi “forti” dell’ultimo trentennio è il crossover proiettato oltre categorie e generi.

Volendo cercare la nascita per così dire “ufficiale” di questa attitudine, è ai Capolavori Sandinista! e Remain In Light che bisogna rivolgersi. Tra gli ospiti d’eccezione del secondo figurava Jon Hassell, poliedrico trombettista e compositore statunitense che vanta un ruolo importante di indagatore delle sonorità – perdonatemi una comoda scempiaggine… – “non occidentali”. Progettato e realizzato con l’altro genio Brian Eno nel 1980 in Fourth World, Vol.1: Possible Musics, il concetto stavolta sì sensato di musica del quarto mondo resta affascinante e ingegnoso.

Jon Hassel

Lo stesso dicasi per Flash Of The Spirit, collaborazione con i Farafina che chiudeva in modo perfetto la fusione fra spiritualismo atavico e tecnologia umanista. Vedeva originariamente la luce nell’88 e questo mese torna nei negozi grazie alla tak:til, marchio parallelo di quella Glitterbeat che molto va facendo per promuovere un meticciato sonoro sul serio contemporaneo. L’occasione è ghiottissima, perché sono musiche stupendamente possibili anche quelle messe su nastro a metà degli Ottanta, in un biennio nel quale si iniziava a respirare apertura mentale e con-fusione anche sulla scorta del lavoro compiuto da Peter Gabriel e di uno snodo fondamentale come Graceland di Paul Simon.

Supervisionati da Eno e Daniel Lanois, reduci non casuali dai panorami fisici e aeriformi di The Joshua Tree, i cinquanta minuti di Flash Of The Spirit consegnano un visionario post-jazz in bilico tra elettrico e cosmico che, memore di Terry Riley, si cimenta con ipotesi di ambient poliritmica. Sulla carta un controsenso e in realtà pura magia poiché l’operazione fu uno scambio alla pari dove l’occidentale non indossa i panni del turista o del colonizzatore ma si confronta umile e curioso con materie altre.

Flash-of-the-Spirit

Questioni di prospettive, scrivevo poco sopra: al proposito vale la pena ricordare l’iniziale scetticismo mostrato dall’ensemble del Burkina Faso verso il progetto. Per superarlo bastò entrare in studio e dialogare partendo dal proprio retaggio fino a incontrarsi in una terra non ancora mappata. I tamburi, le voci, il flauto e il balafon dell’ottetto africano costruiscono impalcature agili e solidissime, sulle quali sono poggiate tastiere atmosferiche e soprattutto una tromba che scivola da echi di Bitches Brew ai microtoni della tradizione indiana passando per My Life In The Bush Of Ghosts.

Benché rielaborato in sede produttiva avvalendosi della tecnologia digitale, il risultato non è freddo né cerebrale. Questa è musica da fruire nell’insieme che si porge nel contempo astratta e materica e che anche nei momenti più complessi ipnotizza, accarezzando lo spazio e respirando armoniosa. La sua inclassificabilità appartiene ai tempi in cui viviamo e al mondo ideale che disegna nella mente: un mondo felicemente contaminato, policromo, privo di barriere. Per questo motivo Flash Of The Spirit è una disco da conoscere e una lezione di vita, oltre che di stile. Ascoltare per credere.

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L’apocalisse secondo Eugene McDaniels

Negli Stati Uniti, il passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta porta con sé un senso di sconfitta più profondo che altrove. L’establishment ha spazzato via i sogni di una generazione, “Tricky Dicky” Nixon siede alla Casa Bianca e la controcultura è in ritirata. Se i bianchi si rifugiano nel privato, i Fratelli oppongono una ricerca di identità che mescola mitologia, storia, utopia e cinismo. La musica si adegua, passando da un soul progressivamente inaciditosi al funk metropolitano. Sly Stone informa che una rivolta è in corso e un altro Maestro che l’America divora la propria gioventù. Tempi tribolati finiscono per produrre Arte suprema, siccome Classici del calibro di Shaft, Curtis e Cosmic Slop rappresentano solo la punta di un iceberg d’ebano sotto il quale trovi tanti altri dischi strepitosi e vicende che sono romanzi. Vicende che raccontano il popolo – concedetemi un’ultima citazione – più scuro del blu(es).

Sentite qui: addirittura Spiro Agnew in persona telefonò all’Atlantic per imporre il ritiro di Headless Heroes Of The Apocalypse dai negozi a causa dei testi. Presumendo che nell’intelligence lavorasse gente assai “hip”, sarebbe divertente avere una foto del vicepresidente americano intento ad ascoltare Eugene McDaniels… Ovvio che tutto ciò affossava un LP divenuto di culto e una fonte di sampling per la nazione hip-hop, così che i vinili d’epoca girano a cento euro e rotti. Tranquilli: la ristampa digitale è reperibile senza problemi. E vi dico anche che a questa gemma in tutti i sensi oscura non potete rinunciare se amate Curtis Mayfield, Funkadelic, Jimi Hendrix e… Tim Buckley.

gene

Non sbucava dal nulla, Eugene, e la sua parabola artistica segue in buona parte l’evoluzione della black music. Nato a Kansas City nel 1935, cresce a Omaha (Nebraska) cantando in chiesa e imparando sax e tromba. Da adolescente, “Gene” mette su un gruppo vocale e frequenta il conservatorio, ma a un certo punto va con i Mississippi Piney Woods Singers in California e decide di stabilirsi colà. Assieme al Les McCann Trio frequenta i jazz club, firma per la Liberty e due singoli e un album cadono nel vuoto. La svolta giunge a inizio ’61 grazie al produttore Snuff Garrett: ispirata a Jackie Wilson, A Hundred Pounds Of Clay raggiunge il terzo posto di “Billboard”. Un bel colpo, tuttavia le uscite seguenti pagano pegno eccetto Tower Of Strength, scritta con Burt Bacharach e planata alla quinta piazza.

McDaniels inanella altri hit minori finché a metà decennio il suo stile vocale inizia a essere superato; inefficace un passaggio alla Columbia, in seguito all’assassinio di Martin Luther King si stabilisce in Scandinavia. Scrive, matura una coscienza civile e rientra in madrepatria a fine anni ’60. Nel fosco quadro di cui sopra, l’artista che ora si fa chiamare “The Left Rev. Mc D” spunta un contratto con la Atlantic e nel febbraio 1970 Outlaw porge un soul-rock a bagno in funk e jazz, in country e stramberie che è buona prova tecnica di capolavoro. Entro dodici mesi Headless Heroes Of The Apocalypse (non) consegna l’uomo agli annali, perfezionando la commistione tra generi e insistendo su una critica sociale lucida ma pure poetica, umoristica.

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Una copertina inquietante e la dedica all’amica Roberta Flack sono facce complementari di questo genio bizzarro, attorniato da strumentisti di rango – sensazionale la ritmica Miroslav Vitous/Alphonse Mouzon, cortesia dei Weather Report – e abile nel tramutare palesi riferimenti in qualcosa di inclassificabile. Lungo una quarantina scarsa di minuti sfilano The Lord Is Back, gioiello indeciso tra Curtis Mayfield e Jimi Hendrix, il sinuoso post-gospel Jagger The Dagger cosa sola di Dr. John e George Clinton, le Lovin’ Man e Headless Heroes che asciugano Isaac Hayes all’osso conservando swing e sensualità. Susan Jane apre una benvenuta oasi folk in (acid) jazz che la felpata però tesa Freedom Death Dance spedisce dalle parti di Fred Neil e Buckley padre; Supermarket Blues ipotizza un nervoso Bob Dylan alle prese col funk e The Parasite (For Buffy) chiude con una fluviale ballata dalla coda free.

Non resta molto altro da dire, tranne che il diktat governativo – ehi, Spike Lee, hai mai pensato di girarci un film? – segna il defilarsi di Eugene. Il quale scrive e produce conto terzi, è campionato da Beastie Boys, A Tribe Called Quest e Organized Konfusion e nell’estate 2011 si spegne sereno, circondato dall’affetto della terza moglie e di sei figli nel buen retiro del Maine. Sia gloria a chi con largo anticipo disegnò l’apocalisse oggi tra noi.