Texas Instruments: radici nell’infinito

Non deve essere male vivere ad Austin. Capitale del Texas dal lontano 1839, riposa sulle rive del fiume Colorado tra laghi artificiali e colline rocciose vantando una vivace scena musicale. Caratteristica che mi permette di introdurre al volo un gruppo che prese il nome dall’omonima casa produttrice di calcolatori allorquando la new wave sfumava in una faccenda esaltante per comodità definita rock alternativo. David Woody (chitarra), Ron Marks (basso) e Steve Chapman (batteria) erano ragazzi che – similmente a tanti altri sparsi nella provincia statunitense – navigarono alla riscoperta di un passato e, nell’indifferenza del grande pubblico, seppero reinventarlo senza rendersene conto.

Folk e hard, slanci acidi e ipnosi post-punk, ammiccamenti ai Settanta e un ribollire ritmico parente dei Minutemen (omaggiati sul secondo LP rileggendo Life As A Reharsal) disegnavano i confini di un terreno spesso confinante con quello presidiato dai fratelli Kirkwood. Sarebbe tuttavia ingiusto ridurre i Texas Instruments a epigoni meno talentuosi dei Meat Puppets e/o dei Giant Sand: dai loro dischi migliori affiora un’interpretazione intrigante il giusto dell’ineffabile “estetica desertica” che trasformava miraggi in canzoni. Date loro una chance e garantisco che non vi deluderanno.

TI

Corre il 1983 quando il trio esce dalla cantina per lanciarsi a testa bassa nei locali di Austin. Ventiquattro mesi di serrata attività ripagano con la coesione e la robustezza sfoggiate dall’autarchico EP More Texas Instruments! La formazione predilige cadenze pacate e attende lo stesso lungo intervallo per esordire a 33 giri, dando nel frattempo una mano a Daniel Johnston per il nastro Continued Story. Ben ponderato, l’album omonimo (edito come il successore dalla Rabid Cat) può fondere muscoli e cervello giocando disinvolto tra impatto e raffinatezza. In un programma privo di cadute spiccano Call And Response, Prussian Blue, No Wonder I’m Confused e Girl Like You, mentre le travolgenti cover di Do Re Mi (Woody Guthrie) e A Hard Rain’s A-Gonna Fall sistemate in chiusura paiono eseguite da un Fogerty punkettaro.

Le promesse di grandezza trovano pieno compimento nell’oppiaceo, policromo Sun Tunnels, forte nel 1988 di una scanzonata You Ain’t Going Nowhere sottratta ancora a Dylan, del pigro folk Little Black Sunrise, del boogie‘n’roll modernista A Seascape Scapegoat, di una The Daily Image che strapazza il sixties pop britannico. Facce complementari della medesima, splendida moneta sono il citato tributo ai Minutemen e le scintillanti ipotesi di Hüsker Dü sotto LSD The Thing In Apartment B e Some Kinda Surprise, l’ondeggiare flessuoso di Floating Off To Greenland e una title-track che alterna estasi a impennate. Capolavoro cult? E sia.

sun tunnels

L’anno seguente il chitarrista Clay Daniel si aggiunge alla line-up mentre fervono i lavori al terzo LP. L’etichetta però fa bancarotta e Crammed Into Infinity esce su Rockville solo nell’autunno 1991, restando giocoforza schiacciato dai “pesi massimi” di una vendemmiata irripetibile. Un vero peccato perché atmosfere un poco più roots sfociano negli incantevoli folk-rock alla R.E.M. prima maniera del brano omonimo e di Hanging By A Thread, in un’articolata World’s Gotten Smaller, negli aromi blues di Big White Horse, in una She’s Not Free indirizzata sulla malinconica traiettoria che conduce da The Band agli Wilco. Altri due calendari e un passaggio alla Doctor Dream nel mezzo, Magnetic Home accusa il colpo in termini di brillantezza e scrittura, laddove il dignitoso Speed Of Sound segna la resa a metà dei Novanta.

Troppo obliqui sia per il grunge che per il movimento “No Depression”, i nostri spossati eroi si separano anche perché la multinazionale di cui sopra ha intentato causa, vinto e piantato l’ultimo chiodo nella bara. Non siamo in molti a ricordarci di loro, tuttavia (ri)scoprire i Texas Instruments è d’obbligo qualora la “tradizione reinterpretata” sia il vostro pane quotidiano. Da una sognante e tranquilla dimensione parallela, il bagliore traslucido di Floating Off To Greenland e Hanging By A Thread ribadiscono quanto la vecchia scuola indie americana costituisca un esempio di intelligenza, stile e creatività indenne allo scorrere del tempo. Avercene di gente così, oggi.

Pubblicità

Popwork orange: Campag Velocet

It’s not meant to be comfortable, because life isn’t comfortable.” (Pete Voss)

Quando si critica l’Inghilterra per certe stramberie, spesso se ne dimentica la schietta natura di isola. Di un’entità a sé, staccata dal continente ma non abbastanza da potersene dire aliena. La “giusta distanza” è anche quella che gli isolani tengono verso ospiti ai quali gradualmente si aprono per non rimanere del tutto isolati. Nonostante il grigio presente, Albione continua a essere un posto dove piangi quando arrivi e quando te ne vai. La ami, però devi abituarti a certi aspetti nel bene e anche nel male. Prendete il piatto locale che più ci piace, quella pop(ular) music figlia dell’impollinazione incrociata fra sonorità bianche e nere che oggi vive il suo “post 2.0”. Che lungo e strano viaggio è stato, vero? E che bello muoversi come Dr. Who soffiando via la polvere da certi dischi per rendergli giustizia.

Assurdo per esempio che i Campag Velocet siano culto di pochi. Proprio loro, che riassunsero un decennio al tramonto con un crossover “al quadrato” tuttora freschissimo approfittando di una particolare twilight zone (il Duemila era alle porte) dove le certezze scoloravano in nuove inquietudini. Lo trovate ancora lì, il quartetto (Pete Voss, voce; Ian Cater, chitarra e tastiere; Barnaby Slater al basso; dietro la batteria, Lascelle Gordon) che fuse Madchester, krautrock, hip-hop e shoegaze mettendo d’accordo frequentatori della pista da ballo e fan del guitar-pop. Cinici ma adorabili, immagino questi figuri intenti a schiaffeggiare quei buzzurri dei Gallagher con un tascabile Penguin di “A Clockwork Orange” e poi passare con la stessa eleganza a cose molto più serie. Tipo intrecciare intuizioni del passato in qualcosa di splendidamente personale.

fencing CV

Qualcosa di contaminato, anche, fin dalle origini in quel di Portsmouth, dove a fine ‘80 Pete e Arge fanno comunella tramite la passione per Schooly D e Public Enemy. Si spostano poi nei club londinesi e Voss tiene spiritati, eterogenei DJ set all’insegna di un’apertura mentale che torna quando nasce la band. Tratto il nome dal libro “Arancia Meccanica” e da una marca di biciclette italiane, i ragazzi ci mettono un po’ a carburare ma va benissimo così: nel novembre ’97 il 12” Drencrom Velocet Synthemesc è singolo della settimana del “New Musical Express”. Meritatamente, poiché il gioco tra esplicite citazioni da Anthony Burgess e uno stiloso assalto chitarristico apre squarci luminosi nei panorami di Metal Box. La Play It Again Sam li accoglie e To Lose La Trek graffia da bastardo di hip-hop e rock stradaiolo in anticipo sui Primal Scream di XTRMNTR. La sua minimale potenza spiega alla perfezione l’abilità con la quale i Campag Velocet armonizzano gli estremi e strapazzano cocci altrui; saldata a una scrittura di alto livello, sarà anche il basamento dell’album Bon Chic Bon Genre.

Dal 1999 questo fenomeno stringe la giugulare con un guanto di velluto. Tempo di premere “play” ed ecco un giovane Lydon che borbotta esagitato su lividi passi hip-techno nei novanta secondi della title-track e poi si concede del relativo relax capeggiando i Ride in Only Answers Delay Our Time. Se Cacophonous Bubblegum dona senso al “secondo avvento” degli Stone Roses – evocati in fogge new wave dallo strepitoso indie (acid) rock Vito Satan – in Sauntry Sly Chic gli Happy Mondays rinsaviscono con un’endovena krautfunk. Mica finita: recuperati i singoli ed espulsa l’adrenalina, si prosegue tra sapienti dinamiche, riverberi di corde e ritmi robusti però fluidi. Tra gli Slowdive in febbri baggy di Skin So Soft e l’epica Pike In My Life/Schiaparelli Cat (grossomodo: Alan Vega ostaggio dei Can), tra la dubadelia di Caught Unawares e una Harsh Shark che riempie di codeina i Two Lone Swordsmen.

BCBG

Inafferrabile, visionario e coraggioso, Bon Chic Bon Genre cresce con gli ascolti ma rimette ogni volta in gioco la familiarità con sfumature inedite. A dispetto della stampa entusiasta, se lo filano in pochi e vai a sapere perché: eccessivo acume, scarsi mezzi promozionali dell’etichetta, qualche ruvidità caratteriale. Difficile dirlo. Più semplice è annotare come ridicolizzi le schiere di brufolosi ribelli(ni) dell’ultimo ventennio, primi fra tutti quei Kasabian passati alla cassa con la versione da supermarket delle medesime intuizioni.

Tornando a bomba, attenderemo cinque anni e un nuovo contratto per It’s Beyond Our Control, convincente seguito che cosparge un post-funk bianco di detriti new wave, elettronica ruvida e lisergie danzerecce. Non smuoveva granché e, sciolta la banda nel 2005, Voss ripartiva con i The Count ma di nuovo nulla da fare. Oggi il vulcanico pazzoide è titolare di un marchio di cinture fashion e sono certo che conservi lo spirito di un tempo. Lo spirito del moderno rocker mutante che scardina cliché e formule creando bellezza duratura. Perché è quella che conta davvero, e a culo tutto il resto.