James e il potere dell’understatement

A volte il segreto sta nell’equilibrio. Nel camminare su una corda tesa senza cadere e, arrivati a destinazione, ripartire da capo. Questo il destino dei James, che lungo gli anni ’90 si infilarono nelle classifiche con un raffinato pop intessuto di post adolescenza e contaminazioni stilistiche. A suo agio nelle arene però adatto alla cameretta – l’equilibrio eccetera – perché offerto da adulti col cuore da teenager e tanta dignità che non sono divenuti patetiche macchiette. Capito, U2 e Simple Minds? Garbati anticonformisti e maestri nell’arte dell’understatement, ai James vuoi bene spontaneamente e infatti tuttora godono di un rispettabile seguito. Tuttavia non credo si tratti solo  di nostalgici: penso invece che i fan di un tempo portino i figli ai concerti e tutti si emozionino con un felice paradosso di epica intimista. Il talento insomma è fuori discussione.

Così come è fuori discussione che nell’Inghilterra degli eighties la ricerca di “nuovi Smiths” rappresentò per qualcuno una calamità. Ma siccome ogni regola ha un’eccezione, nel 1985 fu Morrissey in persona a dare risalto a un nome che nel triennio precedente aveva pubblicato la miseria di un 45 giri su Factory. Lungo e faticoso, l’apprendistato di Paul Gilbertson (chitarra), Jim Glennie (basso), Tim Booth (frontman caratteristico e ugola da Ian McCulloch più versatile) e del batterista Gavan Whelan terminava con l’invito di Moz ad aprire le date del tour di Meat Is Murder. L’occasione è sfruttata benissimo e sfocia in un contratto con la Sire. 

james

Sostituito Gilbertson con Larry Gott, nell’inverno ’86 il gioiellino Stutter vanta la regia del braccio destro di Patti Smith, Lenny Kaye, e una naivetè folk trasfigurata da echi new wave smaniosamente armonici (Why So Close, Skullduggery, Scarecrow), venature funk (So Many Ways), ispirate trasposizioni del verbo di Aztec Camera (Just Hip, Johnny Yen) e Smiths (Summer Songs, Really Hard). Bellezza di culto che offusca lo sbiadito seguito Strip-Mine, dopo il quale l’etichetta si disfa della band che si rifugia da Rough Trade per la distribuzione dell’autofinanziato live One Man Clapping. La prima piazza nella chart indie segna il commiato di Whelan, cui subentra David Baynton-Power nel quadro di un’espansione dell’organico che vede aggiungersi il tastierista Mark Hunter, il violino di Saul Davies e l’esperto Andy Diagram alla tromba.

Mossa che potrebbe istigare magniloquenza ma si rivela autentica rinascita, poiché i James si adattano con classe al “Madchester” spedendo in alto singoli ottimi come Sit Down, Lose Control e Come Home. Ciò nonostante Geoff Travis tentenna, si passa chez Fontana e nel 1990 Gold Mother cavalca verso il successo aggiungendo al menu il trascinante lirismo di How Was If For You, gli Happy Mondays impegnati di Government Walls, le avvolgenti Walking The Ghost e Top Of The World, un brano omonimo in scia ai migliori Talking Heads. Neanche ventiquattro mesi e Seven consolida fama e forma in virtù del tris spacca classifiche Born Of Frustration/Ring Them Bells/Sound, dell’accorato western Mother, del soul moderno a spasso per le brughiere Don’t Wait That Long. 

Laid

Altro giro, altra corsa. Incassata la defezione di Diagram, Brian Eno aiuta a confezionare quel Laid che considero l’apice dei mancuniani. In un clima sospeso fra pastoralità tenui e remoti scorci urbani, l’ex Roxy Music conserva l’anima della formazione mentre ne enfatizza la purezza melodica (Out To Get You, Sometimes, Say Something), il lato più riflessivo (Dream Thrum, Lullaby) e la sapienza nel gestire dinamiche (Five-O, Knuckle Too Far, P.S.) e atmosfere (Skindiving e Everybody Knows addirittura anticipano Kid A). Anche l’America infine cede, adescata da una title-track malandrina che inneggia alle gioie del sesso spopolando nelle radio universitarie.

Invece della fotocopia, l’autunno successivo Wah Wah rielabora un’ora di jam pescate da Laid e sono gli ultimi bagliori: Gott lascia, nel 1996 Tim escogita con Angelo Badalamenti il curioso Booth And The Bad Angel e attenderemo quasi un lustro per l’ispirato Whiplash. Nello sperimentare con aggiornamenti di glam, techno rumorista, jungle e ambient non vi è traccia della flessione che al passaggio di secolo mostrano  Millionaires e Pleased To Meet Me. La separazione sarà prevedibile e durerà fino al 2007, quando Tim rimette in piedi la line-up di Laid (ma intanto Gott se n’è andato di nuovo) per recapitare un pugno di album apprezzabili e non privi di zampate. Sempre un piacere averlo tra noi, il tenero Giacomo.

 

 

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