Nick Haeffner in tempo per il tè

La natura di un cult record è sfuggente e curiosa. Dove sta il segreto di dischi che, mancato il successo, esercitano un’influenza sotterranea ma persistente e vantano fan che li considerano un pezzo delle proprie vite? Forse nella sconsiderata genialità che si fonde con una dimensione “moderatamente collettiva”, intrecciando la coperta di Linus sotto la quale ci riconosciamo tra carbonari salvati da un pezzo di vinile. Anche per questo tanti ricordano la neopsichedelia con profonda emozione e vi racconteranno che una parte di quel movimento approdò su lidi sixties mai esistiti. Che colse lo spirito di un’epoca vissuta di riflesso, rendendola una faccenda attuale.

Accadeva dappertutto, da Los Angeles a St. Albans, Hertfordshire. Colà Nick Haeffner (classe 1959) cresce con Beatles e Stones, Leonard Cohen e Incredible String Band, Led Zeppelin e Fairport Convention. A sedici anni imbraccia la chitarra da autodidatta e a venti scrive canzoni per sé e per tali Clive Pig & The Hopeful Chinamen. Il concittadino Phil Smee, che dirige la piccola etichetta Waldo’s, li affianca in scuderia ai punkettari The Bears e quando costoro diventano Tea Set, Nick entra nei ranghi come chitarrista. Una session per John Peel attrae l’attenzione di Hugh Cornwell degli Stranglers e la EMI finanzia un singolo. Nondimeno, l’inesperto quartetto e un Hugh troppo meticoloso dilapidano il budget in un mezzo disastro e il gruppo si scioglie.

 

Fortuna vuole che Nick mantenga i contatti con Smee, frattanto specializzatosi nel recupero di manufatti anni Sessanta con il marchio Bam Caruso: questi soppesa i brani ed espande la visuale del ragazzo passandogli dischi di John Cale, Captain Beefheart, Nick Drake, Van Dyke Parks, Beach Boys. Nei medi ‘80 Phil decide di arricchire il catalogo con qualche novità e un 33 giri di Haeffner è la scelta più naturale. Le registrazioni sono spalmate su nove mesi, approfittando dei ritagli di tempo e facendo di necessità virtù con pochi amici e il produttore Brian Marshall. Chiare le idee e sufficienti i mezzi, nel 1987 The Great Indoors può stupire da gioiello che, ben presente la new wave, distilla i DNA di Ayers, Barrett e Drake pur non fermandosi lì e costruendo un universo a sé, indenne al tempo e alle mode. Un universo difficile da raggiungere fino allo scorso anno, quando la spagnola Hanky Panky ha ripubblicato il disco in un doppio CD colmo di rarità e inediti. 

Il piatto forte restano comunque i dieci brani originali, che dalla copertina in perfetto stile psichedelico conducono lungo un’arcadia eccentrica da osservare a occhi spalancati. Tutti e tre, ovviamente. Ci si perde dentro strumentali bucolici (la bossanova omonima; You Know I Hate Nature, che scivola da Bryter Later con ironia) e l’irresistibile pop acidulo di The Sneaky Mothers e The Master risvegliandosi con l’Africa mutant alla Brian Eno di Breaths – cover degli Sweet Honey On The Rock – e una Don’t Be Late in cui un Barrett rasserenato capeggia i Love; e se in Furious Table i Can trafficano con storture wave-funk, i Devo albionici di The Earth Movers precorrono Jacco Gardner. Un delizioso aroma di britishness aleggia ovunque e più che altrove nei due apici collocati quasi in chiusura, il lisergico bignè beatlesiano Back In Time For Tea e l’acusticheria malinconica Steel Grey.

 

Tutto molto bello e che si perderà nel nulla. Le vendite dell’album bastano giusto a pareggiare i costi, il nostro eroe tiene pochissimi concerti e a inizio 1988 la Bam Caruso fallisce. Subentra la Demon, non interessata a un seguito del quale esistono già il titolo (uno spiritoso Dali Parton), alcuni demo e l’ipotetica supervisione di Andy Partridge; peccato, perché quanto riaffiora dalla ristampa meritava una sorte diversa. Dopo una comparsata con gli Psychic TV, invece, Haeffner accantona la musica e termina gli studi. Fino all’estate 2017 insegna arte e cinema all’università, scrive saggi e cura mostre, poi lascia il lavoro e nel 2019 ecco un disco nuovo, significativamente intitolato A New Life Awaits You. Bene, ora che Nick è tornato, vado a mettere su la teiera e preparare torte e pasticcini. Tra poco arrivano i nostri chuckaboo Alice e il Cappellaio Matto. Da gentleman, ci tengo a fare bella figura.

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Mark Mulcahy, stella brillante

La vita non è stata gentile né equa con Mark Mulcahy. Quest’uomo ha scritto canzoni splendide in un gruppo che, fedele al nome, ha compiuto miracoli per una platea che dire ristretta è puro eufemismo. Ma ciò è ancora niente. Nel 2008 Mark perdeva la moglie restando con due figlie piccole e per soccorrerlo economicamente alcuni colleghi allestivano Ciao My Shining Star, un benefit album di riletture del suo repertorio. Per avvicinarvi ai Miracle Legion partite tranquillamente da lì: garantisco che cercare gli originali e innamorarsene sarà questione di un attimo.

Quello sarà il vostro dorato biglietto di accesso a un club che annovera Michael Stipe, Ryan Adams, Nick Hornby e diversi altri fedelissimi di nobile rango pronti a giurare su una bellezza che mescola folk-rock, new wave, emozioni. Se la ricetta sembra familiare, è perché i Miracle Legion furono una versione meno criptica dei primi R.E.M. e oggi si ergono a simbolo di tanti che come loro seppero rinnovare il passato, trovandosi loro malgrado lontano dai riflettori. Non dovesse bastare, per sua stessa ammissione Thom Yorke vide mutato da costoro l’approccio al cantato e alla scrittura.

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Ragazzi di provincia folgorati dal punk, nei primi Ottanta gli amici Mark Mulcahy e Raymond “Mr. Ray” Neal suonano batteria e chitarra in diversi gruppi di New Haven, Connecticut. Quando decidono di scrivere assieme, il primo tira fuori quaderni pieni di parole, si piazza al microfono e la strana coppia funziona. Nel 1983 i due adottano la ragione sociale definitiva, una delle cento copie del demo A Simple Thing plana sulla scrivania di “Sounds” e per uscire dalla cantina serve una sezione ritmica. Detto, fatto. Un altro anno e la Incas del manager Brad Morrison stampa The Backyard, sfavillante mini-LP che dipana nostalgia e ricordi su intrecci chitarristici, passo squadrato, una voce profonda e tremolante.

L’innodica title-track, una meditativa Say Hello, l’inquieta Butterflies e il notturno acustico Stephen, Are You There? conquistano il cuore e i critici ma il seguito si fa attendere parecchio. Un concerto dopo l’altro, i ragazzi affinano intesa e repertorio, poi firmano con la Rough Trade e nell’87 Surprise Surprise Surprise poggia su strutture complesse e arrangiamenti dediti all’intarsio malinconici mid-tempo (Country Boy, Mr. Mingo), ballate accorate (Truly, Little Man), gioielli come la cantilena in ripartenza Paradise, il crescendo Wonderment, la fenomenale psych-wave di All For The Best. Dopo l’EP Glad, però, i Miracle Legion sono di nuovo Mark, Ray e basta.

The Backyard

Senza perdersi d’animo, i due vanno in tour con gli Sugarcubes e registrano in perfetta solitudine Me And Mr. Ray. Mossa azzeccata, ché il robusto minimalismo si addice alle cupezze di Pull The Wagon e all’ipnosi di And Then?, alla filastrocca You’re The One Lee e al country-rock The Ladies From Town, a una Sailors And Animals visionaria e a una vibrante Gigantic Transatlantic Trunk Call. Oltre la cerchia degli appassionati non lo nota nessuno, Rough Trade fallisce e nel 1992 i Miracle Legion tornano un quartetto passando alla Morgan Creek, una casa cinematografica californiana decisa a trarre profitti dal boom indie. Supervisionato da John Porter, già in regia con gli Smiths, Drenched avrebbe qualche possibilità grazie alle raffinate Snacks And Candy ed Everything Is Rosy e alle luccicanze Little Blue Light, Sea Hag e Out To Play.

Per ragioni ignote l’etichetta non lo promuove, abbandonando i Nostri fino al 1996 del commiato autoprodotto Portrait Of A Damaged Family. Poi Neal si trasferisce in Scozia per amore e Mark adotta la sigla Polaris per i brani del programma televisivo The Adventures Of Pete & Pete. Qualche tempo dopo la tragedia cui accenno in apertura, Mulcahy viene raggiunto dall’amico su un palco britannico e voilà. Il “Record Store Day” 2016 saluta la ristampa di Portrait Of A Damaged Family, quell’estate la reunion è ufficializzata con una tournee e riassunta la primavera seguente dal live Annulment. Per non farsi mancare nulla, sappiate che intanto quel bel tipo di Mulcahy ha rimesso in pista anche i Polaris. Tanta tenacia andrebbe infine premiata, non credete?