Del Fuegos, a band of brothers

Essere consanguinei aiuta, specie se appartieni al composito universo che passa sotto il nome di “Americana”. Scorro lo scaffale e dai Felice Brothers – che come gli antesignani Everly e Louvin esplicitarono i natali comuni nella ragione sociale – risalgo ai fratelli Alvin, spina dorsale dei magnifici Blasters, e più indietro ancora ai capostipiti Fogerty. La famiglia possiede spesso una marcia in più, perché il genio è anche questione di DNA e idem la propensione a tramutarlo in armonia. A tal proposito, completo l’elenco con i Del Fuegos capitanati da Don e Warren Zanes, stelle loro malgrado mancate negli anni ‘80 fugacemente riunitisi un decennio fa con un gesto che, tra le altre cose, sapeva di sberleffo verso un successo a malapena sfiorato dal secondo album, classico di genere che incassò il plauso del Boss e dell’autore di Proud Mary.

Non per caso, siccome i ragazzi si muovevano nel solco tracciato da quei Giganti, dove pochi accordi e uno sbuffo di virile romanticismo infondono vita alla poesia del quotidiano. Singolare fino a un certo punto, quindi, che facessero base a Boston, città musicalmente ricchissima ma di norma ricordata per altro. Semmai, conferma quanto lo stile e l’attitudine blue collar siano radicati ovunque, da espressione genuina e per nulla ingenua dell’orgoglio proletario di una nazione cresciuta sull’etica del lavoro. Anche per questo il loro tradizionalismo era nuovo e benvenuto. Lo resta eccome.

Corre il 1980 quando il diciannovenne cantante/chitarrista Dan Zanes saluta la provincia del New Hampshire con il bassista Tom Lloyd e il batterista Steve Morrell. A Boston si costruiscono una reputazione e presto si rafforzano con l’altra sei corde di Warren, lo Zanes più giovane fresco di diploma. Stipati in un furgone, battono la costa occidentale, pubblicano un acerbo e autarchico 7” e rimpiazzano Morrell con Brent Giessmann. I tempi non sono favorevoli per scalare le classifiche, tuttavia permettono di mescolare le fatidiche radici in un calderone composito: Creedence e Stones, Springsteen e Petty, approccio garagista e venature rhythm’n’blues e country. Perfettamente calati in un’atmosfera urbana, i Del Fuegos scrivono quadretti di provincia appassionati come gli spettacoli live che convincono la Slash, nel catalogo della quale non sfigura affatto The Longest Day, esordio che riscalda l’autunno 1984 tramite le epidermiche Nervous And Shakey e I Should Be The One, la ribalda Backseat Nothing, una tesa Mary Don’t Change e una slanciata title track.

La produzione è nelle mani del debuttante Mitchell Froom, bravo a conservare “tiro” mentre aggiunge pennellate di tastiere e pone in risalto l’ugola roca di Dan nel Bo Diddley apocrifo di Out For A Ride, nel soul bianco Anything You Want e in quello rurale Have You Forgotten. L’esito spinge “Rolling Stone” a incensare un quartetto che tiene i piedi per terra pensando ad acquisire il pizzico di sicurezza che ancora manca. Basta poco, ché nel volgere di un anno, Boston, Mass entra dritto nel cuore e negli annali: il confermato Froom lucida con misura una scaletta immacolata dall’esplicativa Don’t Run Wild alla concitata It’s Alright passando per il fascino di Coup De Ville e le incalzanti Shame e Hand In Hand. Se Hold Us Down e Fade To Blue insieme commuovono ed esaltano, Night On The Town sistema John Mellencamp tra le pieghe di Damn The Torpedoes e i fianchi sinuosi di I Still Want You lambiscono i Top 100.

Parrebbe l’inizio dell’ascesa, anche in virtù dello spot televisivo per una nota marca di birra e il ruolo di spalla in un tour di Tom Petty. Ciò nonostante, grandi poteri e grandi responsabilità non sempre vanno d’accordo: ventiquattro mesi e Stand Up soffoca sotto arrangiamenti strabordanti e stanchezza compositiva un approfondimento del versante black sulla carta stuzzicante. Seguono la cacciata dalla Slash, il forfait di Woody e Warren e un rimpasto. Nell’89 la RCA pubblica Smoking In The Fields, calligrafia rinsavita – esemplari Move With Me Sister, Dreams Of You, No No Never – e ambienti di nuovo asciutti. Il baricentro passa dalla città alla campagna tra archi e ottoni calibrati, le Headlights e Lost Weekend in cui piano e armonica sono cortesia di Seth Justman e Magic Dick della J. Geils Band, una Stand By You che ospita Rick Danko. Non un passaggio di consegne, giacché pochi apprezzano, il decennio finisce e con esso l’avventura. Dopo lo scioglimento Dan ha proposto cose discrete con l’omonimo trio e un progetto di musica per bambini commercialmente fortunato, Warren ha messo in bacheca dischi passabili, un dottorato in arti visive e la biografia di Petty, Lloyd si è laureato in scienze ambientali e Giessmann ha fondato la Right Turn, organizzazione che combatte la dipendenza da droga e alcool.

In una bella storia in tutto e per tutto americana, sarà la miccia che accende la breve reunion: non puoi negarti a un compare per una giusta causa, ragion per cui nel giugno 2011 i Del Fuegos presenziano ai benefit bostoniani organizzati da Brent. Va così bene che visitano altre dieci città scelte per i bei ricordi, concludono il giro nella natia Concord e registrano il discreto EP di inediti Silver Star. Poi spariscono di nuovo nella vita di tutti i giorni, lasciando dietro di sé lo spirito che li ha sempre guidati e che rende indenni al tempo canzoni come non se ne scrivono quasi più. Canzoni che flettono i muscoli e accarezzano l’anima, attuali nel 1984 come nel 2012 o nel 2021 perché figlie di un’entusiastica urgenza che fonde musica e vita. Sta lì il segreto, oltre che negli affari di famiglia

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Freakout nella prateria: Eleventh Dream Day

Nell’era di Internet, se non apri bocca a ogni minuto la gente si dimentica di te mentre chi bercia continuamente spesso possiede la consistenza artistica e umana del cartongesso. Anche per questo gli Eleventh Dream Day sono necessari: parlano solo quando ritengono di avere qualcosa di rilevante da dire e assecondando l’espressività con una perseveranza e una saldezza di intenti che meritano affetto. Lo stesso che proviamo per Yo La Tengo e Walkabouts, con i quali è possibile tracciare più di un parallelo, da linguaggi costruiti mescolando passato e presente all’eterna condizione di culto e alle discografie immacolate. Senza dimenticare che anche questa vicenda ruota attorno a una coppia lui/lei: Rick Rizzo canta e imbraccia la chitarra, Janet Beveridge Bean siede alla batteria pur non disdegnando il microfono.

Si incontrano nei primi ‘80 a Louisville, Kentucky, da punk che hanno consumato Zuma (l’influenza del loner canadese verrà presto a galla) e maneggiano disinvolti folk, country e bluegrass. All’epoca la spinta propulsiva della new wave va esaurendosi e, attraverso il movimento neo-sixties, confluisce nel magma chiamato per comodità “college” e/o “alternative” rock. In quel filone i Nostri reciteranno da protagonisti ma per ora traslocano a Chicago, completano i ranghi con il bassista Douglas McCombs e la sei corde di Baird Figi, tengono concerti esaltanti mescolando Dream Syndicate, X, Television e Velvet Underground. Nel 1987 debuttano con un EP omonimo per la piccola Amoeba, discreto ma superato l’anno seguente dall’LP Prairie School Freakout: penna ed esecuzione impressionano Bettina Richards, A&R della Atlantic che avanza un’offerta subito accettata.

Tre gli assi per la major intervallati dal live Borscht e nessuno smuoverà cifre tali da consolidare il rapporto. A noi bastano e avanzano per un posto nel cuore, cominciando da un Beet che a fine decennio regala impennate stile Marquee Moon, tumulti prelevati da Fire Of Love e inchini ai Crazy Horse via Steve Wynn. Ancor più coeso di lì a ventiquattro mesi Lived To Tell, che aggiunge staffilate in punta di violoncello e folk crepuscolare, laddove nel ’93 El Moodio tira le fila del discorso dopo che Figi ha sbattuto la porta ed è stato sostituito da Matthew O’Bannon. Una prima stesura con la produzione di Brad Wood viene respinta dall’etichetta (riaffiorerà nel 2013 come New Moodio) e il disco è reinciso a New York. Incredibilmente, la genesi travagliata non scalfisce quello che molti – sottoscritto incluso; lo tallona Stalled Parade – reputano il capolavoro della formazione.

Trame espanse e piglio al contempo meditato e viscerale sorreggono una scaletta memorabile in toto: facendo torto al resto, menzione d’obbligo per una Makin’ Like A Rug da Pixies al top, per la traslucida epopea Rubberband, per il sinuoso slowcore di Honeyslide, per l’elastica e potente The Raft. Dopo tre lanci e altrettanti strike, le regole del baseball prevedono che il battitore avversario debba lasciare il campo di gioco. Tale è la sorte immeritata di chi, cacciato dall’Atlantic, si cura dei figli e prepara il rientro nel mondo indie assieme a John McEntire, con il quale intanto McCombs ha allestito i Tortoise.

Un anno ancora e la Atavistic benedice la psichedelia modernista tra asprezza e introspezione di Ursa Major, poi una pausa triennale permette a Rick di laurearsi. Janet si dà al country-folk con i Freakwater e Douglas approda con i Tortoise alla Thrill Jockey. Logica conseguenza che da fine Novanta sia l’etichetta fondata dalla Richards a ospitare il trio – Matthew ha dato forfait ed è purtroppo deceduto nel giugno 2020 – che in Eighth approfondisce la vena “post”. Separatisi nella vita, Rick e Janet hanno impieghi normali e l’etichetta assicura adeguato sostegno, ricambiato nel Duemila sistemando in Stalled Parade l’omonimo shoegaze acidulo, un Lou Reed giovane domiciliato sulla West Coast (Bite The Hand), accorate meditazioni (Valrico74, In The Style Of…) e robusti attestati di classe (Ice Storm, Interstate, Way Too Early On A Sunday Morning).

Scampate le rogne dello showbiz, da qui gli Eleventh Dream Day prediligono l’attività in studio con cadenze dilatate. Nel 2003, all’esordio solistico della Bean (attiva anche con Horses Ha; Rick vanta un paio di sortite con Tara Key degli Antietam) risponde la ristampa del primo album. Mi piace pensare che la riuscita di Zeroes And Ones sia dovuta anche alla maturità con la quale i non più ragazzi hanno osservato i loro inizi, e lo stesso vale per i successivi Riot Now! (2011), Works For Tomorrow (2015; segna l’ingresso di James Elkington, chitarrista con un’interessante carriera in proprio) e il recentissimo, splendido e relativamente più pacato Since Grazed, pubblicato solo in vinile per Comedy Minus One. Dischi che mostrano un gruppo al massimo della forma, lontano da nostalgia e cliché. Un gruppo che continua a osare tra la robustezza indie di sempre e una vocazione post divenuta ormai classica, tra rivisitazioni dei Go-Betweens e ipotesi di Jefferson Airplane nati dopo il punk, ballate sospese prossime ai Low e lezioni impartite agli Arcade Fire. Un gruppo da prendere a esempio.