Brividi e mal di pancia in pillole, 2

Ryan Adams – Wednesdays (Pax-AM)

Lo so: Wednesdays era stato reso di pubblico dominio alla fine del 2020 in forma “liquida”, ma siccome per certe cose sono all’antica considero ancora valida la pubblicazione fisica, che nello specifico risale allo scorso marzo. So anche che di Ryan Adams si è disquisito parecchio in ragione di pessime vicende legate ad abusi e molestie che lo segneranno a vita con tutto quel che ne consegue sul prosieguo della sua carriera. E sono al corrente che nel frattempo Adams ha pubblicato un altro disco meno riuscito, che rappresenta il pannello centrale di una trittico rimaneggiato per i problemi di cui sopra. Annotato ciò, senza dimenticare che l’essere umano può non viaggiare alle medesime altezze dell’artista e bisogna farsene una ragione, a me è il secondo che interessa. Mi interessa dire che considero Wednesdays tra i vertici della sua vasta produzione e uno dei migliori dischi dell’anno in ambito “Americana” e dintorni. Uno dei più intensi, anche: raccolto, malinconico e tuttavia generoso di melodie e delicatezza anche quando flette i muscoli, scorre privo di cedimenti dall’iniziale I’m Sorry And I Love You dove Neil Young si crede John Lennon al suggello di morbida circolarità Dreaming You Backwards. Anche se il resto non vale meno, menzione d’obbligo anche per la Band sudista di Birmingham, il folk struggente di Mamma, la crepuscolare I’m Sorry And I Love You. Per me, basta e avanza. Soprattutto, questo è ciò che conta.

John Murry – The Stars Are God’s Bullet Holes (Submarine Cat)

Tre mani di carte e nessuna sconfitta per chi nel 2013 consegnava con The Graceless Age uno fra i dischi più struggenti del decennio. Anche all’altezza del difficile terzo album – baciato da un titolo magnifico come “le stelle sono i fori di proiettile di dio” – un quarantunenne infine sereno continua a scavare in una personale idea di cantautorato. Tuttavia non si sottrae alla regola secondo la quale l’artista felice centra il bersaglio con meno precisione: supervisionato da John Parish – misurato, il suo “tocco, ma avvertibile – il rock d’autore di Murry qui lascia entrare un po’ di luce però convince solo in parte. Ad esempio, nelle Oscar Wilde (Came Here To Make Fun Of You) e Ones + Zeros da American Music Club rilassati, nel Greg Dulli maturo evocato da Perfume & Decay, nei Lambchop dei bei tempi con coda ambient noise del gioiellino Die Kreutser Sonata, nell’alveo elettro-rock che avvolge Yer Little Black Book, nel glam da Beck sotto codeina di You Don’t Miss Me. Canzoni di buon peso che portano via metà di una scaletta completata con un breve siparietto strumentale, una discreta cover di Ordinary World e un pugno di episodi sotto l’elevata media cui siamo stati finora abituati. Ne deriva una transizione in tutti i sensi onesta per un cavallo di razza con meno lividi sull’anima ma pur sempre capace della zampata di classe. Anche se The Graceless Age era un’altra e ben più memorabile faccenda, si merita sette più e una pacca sulla spalla.

St. Vincent – Daddy’s Home (Loma Vista)

Con i dovuti distinguo, St. Vincent è diventata una versione “concreta” di Bjork. Nel senso che, senza (s)cadere nella fredda autoreferenzialità, possiede l’abilità di sorprendere restando riconoscibile e di trafficare con il pop sullo spartiacque tra innovazione e immediatezza. Lo fa con la disinvoltura di chi sette anni or sono entrava con un favoloso album omonimo – lei assisa sul trono: legittimamente – in una maturità. Una, non “la”. Perché con i camaleonti si hanno sempre delle sorprese e infatti Daddy’s Home, dichiaratamente ispirato ai primi anni Settanta, sterza verso sonorità più “organiche”. Stavolta la ragazza sorprende fingendosi convenzionale, sistemando a monte del gesto una sofferta scintilla autobiografica e tenendosi stretta la convinzione che costruirsi una personalità significa anche cucire tra loro diversi passati. Tuttavia, mentre guarda dentro e attorno a sé, per qualche motivo inciampa in episodi piuttosto opachi sotto il profilo compositivo o che hanno una certa aria da esercizio di stile. Non succede nel funk alla Bowie sotto botta colombiana di Pay Your Way In Pain, nel groove sinuoso di Down, nel gospel urbano e acidulo The Melting Of The Sun e in una manciata di apprezzabili slalom tra Prince, Beck e P.J. Harvey. Materiale sufficiente a tamponare le incertezze e confermare un talento imprendibile e imprevedibile. Un talento per il quale il futuro è sempre un ipotesi fino al prossimo ch-ch-ch-change.

Teenage Fanclub – Endless Arcade (Pema)

Quando scrive che il tempo è un bastardo, Jennifer Egan ha assolutamente ragione. Incurante di tutto, lui dà ma più che altro prende – anzi: strappa – senza chiedere il permesso. Amici, giorni, ricordi… Ecco: anni fa, ai gruppi rock non era concesso di invecchiare e loro stessi lo facevano con scarsa grazia. Nondimeno, a un certo punto i “vecchi” hanno iniziato a dare giri di pista alle nuove generazioni, per lo più incapaci di infondere vita nei loro esercizi di stile. Questi i confini entro cui si muove l’undicesimo album dei Teenage Fanclub, il primo senza il bassista Gerard Love. In quella che da sempre era una democrazia, dal punto di vista compositivo l’assenza del pilastro si palesa in toni ancor più malinconici e meditati, sui quali ha influito in buona misura anche il recente divorzio di Norman Blake. Abbassato il volume e ridimensionati i distorsori, il gusto melodico ispirato alle “quattro grandi B” – Byrds, Badfinger, Beatles, Big Star – veste un folk-rock urbano cucito da quelle armonie vocali e contrappuntato dalle tastiere del nuovo arrivato Euros Childs, già nei favolosi Gorky’s Zygotic Mynci. Forme ed esecuzione sono perfette per atmosfere crepuscolari e dolceamare che dispiegano la maturità autoriale con fare discreto e si impongono con gli ascolti. Come fossero discorsi di vecchi amici attorno al fuoco, si incamminano sulla via che porta al club dei cuori infranti. Bastardo o meno, c’è un tempo per ogni cosa.

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