I Bad Brains distruggono Babylon

Per chi ne fu testimone in diretta, l’arrivo dei Bad Brains dovette somigliare parecchio a una calata di alieni. Dove si erano mai visti neri Rastafariani dal retroterra fusion suonare così selvaggi e frenetici? Furono un miracolo di rabbia, potenza e abilità esecutiva e un rivoluzionario esempio di ibridazione, e pazienza se l’incapacità di gestirsi ha impedito loro di incassare il dovuto allorché Red Hot Chili Peppers, Fishbone e Living Colour sbancavano. Succede spesso ai precursori e del crossover ascoltiamo succulente anteprime in I Against I e Quickness, lavori ottimi e comunque inferiori all’epocale Rock For Light col quale gli stessi autori si sono confrontati per tutta la carriera. Da non credersi, pensando che a metà Settanta si parte da Washington D.C. con il muscolare jazz-rock dei Mind Power!

Nel ’77, ai fan di Bob Marley che apprezzano Black Sabbath e Return To Forever l’amico Sid McCray (scomparso lo scorso settembre, cantò per poco nel gruppo) spiega che oltremanica e a New York stanno accadendo cose importanti. Folgorati, i quattro – H.R. ovvero Human Rights, nato Paul Hudson nel 1956 a Liverpool da madre giamaicana e padre americano; Dr. Know, A/K/A Gary Miller, chitarrista di due anni più giovane; Darryl Jennifer, bassista classe 1960; alla batteria Earl, fratello minore di Paul – pescano dai Ramones il nuovo nome. Se “bad” è da intendere in senso positivo secondo lo slang afroamericano, non vi è nessuna superbia in ragione di un personale e travolgente punk intervallato da oasi reggae e accompagnato da una filosofia di vita, il “Positive Mental Attitude”, che anticipa lo Straight Edge.

Tuttavia, sul crinale tra due culture i ragazzi causano screzi e risse che li rendono dei reietti in città. In tutta risposta, nell’estate 1979 registrano un demo agli studi Inner Ear appena inaugurati da Don Zientara: tra l’omaggio ai Sex Pistols che ti aspetti e quello inatteso ai Can, quanto radunato nel ‘96 su Black Dots dispiega lo stile che dal vivo spazza via i Damned, con cui si fa amicizia partendo per Londra ma restando bloccati in dogana senza passaporto e smarrendo l’equipaggiamento. Rientrati a New York senza un soldo, i Bad Brains si esibiscono con strumenti presi a prestito e fissano su nastro l’incendiaria Pay To Cum. Falsa partenza: Paul ha problemi di droga che risolve infervorandosi per il Rastafarianesimo.

Il gruppo in stallo, a smuovere le acque provvede il ristoratore Mo Sussman, che finanzia un 7” con il capolavoro di cui sopra e mette a disposizione una fattoria dove i Bad Brains passano mesi a suonare e fumare erba mentre altre incisioni (riesumate nel ’97 in The Omega Sessions) non li soddisfano. Tre anni e l’album latita. Si punta sulla Grande Mela: i concerti al CBGB’s non sfuggono a Neil Cooper, uomo degno di fede che prima di fondare l’etichetta ROIR ha lavorato per il governo di Haile Selassie. Dal gennaio 1982 la cassetta Bad Brains – reperibile in CD come Attitude: The ROIR Sessions – custodisce ipnotici reggae (I Luv I Jah, Leaving Babylon) e assalti fulminei e impetuosi ma sempre calibrati (Sailin’ On, Banned in D.C., Don’t Need It). Il problema è lo zelo religioso che sconfina nell’omofobia e il frontman che cerca di sterzare risolutivamente verso la Giamaica.

Sia lodato in eterno Ric Ocasek, che nel 1983 interviene producendo il magnifico Rock For Light. Fuori su PVC, recupera con esecuzione e qualità audio superiori una parte del materiale ROIR, porge le flessuosità in levare di Rally ‘Round Jah Throne, The Meek Shall Inherit The Earth e I And I Survive e trascina negli inni Attitude, Destroy Babylon e Big Takeover, costruiti come il resto della scaletta su vocalità acuta e ritmi implacabili, chitarre lancinanti e ricercata compattezza. Il clamore si spegne quando H.R. manda alle ortiche una trattativa con l’Elektra e pensa alla carriera solista. Inevitabile la separazione, interrotta nell’86 dal moderno e policromo hard-rock funkeggiante di I Against I pubblicato dalla SST.

Buone le vendite anche grazie a un video della title-track trasmesso su MTV, gli Hudson danno di matto e sono rimpiazzati da Taj Singleton e da Mackie Jayson. Firmato con la Caroline, Singleton si rivela non all’altezza e H.R. torna a reincidere testi e cantato di Quickness, che nel 1989 spiana la strada alla black rock coalition. La storia si ripete: i Bad Brains si sfaldano nuovamente e i Novanta testimoniano uno stillicidio di cambi d’organico e mediocrità artistica. Medesima solfa nel terzo millennio con in più i malanni in parte risolti di H.R. e Miller. Ciò detto, possa Jah proteggere questi vecchi e ingrigiti leoni il più a lungo possibile.

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Judy, Jerry e la cometa

Dei primi Settanta si sottolineano la fuga nel privato e il tramonto del sogno hippie. Il che è vero, com’è altrettanto vero che le cose iniziano a prendere una brutta piega già alla fine al decennio favoloso, quando – l’estate dell’amore un lontano ricordo – il sistema reagisce introducendo tonnellate di eroina e dichiarando fuorilegge l’LSD. Mentre in America ci sono rivolte e cadaveri ovunque, la musica cavalca l’onda emotiva. C’è chi riporta indietro le lancette a prima che la psichedelia esplodesse e guarda le radici con il senno del poi, chi organizza fughe su utopiche astronavi ribelli, chi getta messaggi in bottiglia via dalla pazza folla.

Vale la terza opzione per Judy Henske, Jerry Yester e Farewell Aldebaran, gioiello cosparso di polvere celeste con a monte una serie di congiunzioni per l’appunto astrali, tanto per cominciare l’amore tra due talenti. Soprannominata da Jack Nitzsche “la Regina dei Beatniks”, lei ha annullato la distanza tra Lenny Bruce e il Greenwich Village con High Flying Bird, 33 giri che nel 1964 anticipa i Byrds sul traguardo della commistione tra folk e rock. L’anno prima ha sposato Jerry, già nel Modern Folk Quartet e presto sostituto di Zal Yanovsky nei Lovin’ Spoonful. Quando costoro si sciolgono, produce gli Association del fratello Jim e l’immenso Tim Buckley di Goodbye And Hello e Happy Sad.

Nel ‘68 coniugi e neonata salutano New York e traslocano nella San Fernando Valley in un “coast to coast” dai risvolti professionali, siccome a gestire la Henske è Herb Cohen, pappa e ciccia con Frank Zappa. Il Baffo suggerisce alla ragazza di incidere per la sua etichetta Straight e qui entrano in gioco il caso e una buona dose di pragmatismo. Insieme a Yanovsky, Jerry sta supervisionando un LP di Pat Boone nello studio hollywoodiano di costui e decide di usarlo per mettere su nastro quanto ha composto con la consorte. Insieme ad alcuni amici – spiccano David Lindley e Solomon Feldthouse dei Kaleidoscope, l’alchimista Paul Beaver, Jerry Scheff, Larry Beckett – lavorano per mesi riascoltando il risultato la sera, tra una carezza alla figlia e una al gatto.

Per allestire le tessiture più adatte alle metafore poetiche di Judy, Yester si destreggia tra strumenti tradizionali e, con l’esperto Beaver, gestisce un arsenale di tastiere e aggeggi elettronici. Infine lo Zeitgeist è colto con un fantastico “a sé” che scommetterei memorizzato a dovere da Stereolab, Broadcast e compagnia, laddove l’unico possibile paragone coevo è con gli United States Of America. Eclettico nel dispiego di stili, Farewell Aldebaran – titolo pescato a caso nella “Encyclopaedia Britannica” da una Judy febbricitante – trova l’unità nell’indole sperimentale, in un clima di ansia (nemmeno troppo) latente, nel livello altissimo delle canzoni e nell’ugola che le intona, vibrante carezza metallica che mescola Odetta, Janis Joplin, Nico e Grace Slick.

Così il minaccioso rock avvolto in visioni di blues doorsiano Snowblind sfila accanto alla giostra sunshine pop Horses On A Stick e l’ombroso (post) folk Lullaby risponde a una St. Nicholas Hall da Nico che canta Leonard Cohen. Se Three Ravens è un dolce barocco guarnito con misura, la circolare Raider porta Neil Young e il raga sugli Appalachi e la teatrale Charity getta un pallido raggio di sole. In One More Time si aggirano spettri jazz, l’inno Rapture affascina a passo di spiritual bianco e la title-track sfiora l’ineffabile. Sistemata in chiusura, è una ballata inquieta e inquietante che scintilla come una cometa lungo folate di Moog e mellotron, il cuore malinconico e un canto d’altri mondi ottenuto sommando strati su strati di sovratoni.

Bellezza eccentrica, sublime e senza tempo al pari di un album del quale nel 1969 pochi si accorgo tranne il solito John Peel. Il culto cresce tra ristampe illegali, i panegirici di Richie Unterberger e la sospirata edizione ufficiale, pubblicata dalla Omnivore nel 2016. Tornando agli anni ’70, Judy e Jerry formano i più convenzionali Rosebud e poi divorziano. Poiché amo gli “happy end”, voglio credere che stiano ancora assieme felici e contenti in un altro universo. E che sia stata quella ruggente cometa ad accompagnarli là.