Amarcord… fragole e una cassetta

Se è vero – lo è: eccome – che abbiamo tutti un blues da piangere, è altrettanto innegabile che ognuno conservi nel ricordo il proprio big bang sonoro. Intendo il giorno in cui le cose sono cambiate. Il giorno nel quale la ‘nostra’ musica ci è entrata nella vita mettendo il resto in un angolo. Parlo del fantastico attimo in cui le canzonette alla radio, il pallone e le ragazzine che non vogliono uscire con te perché devono lavarsi i capelli spariscono in un lampo. Ogni cosa inghiottita e poi sputata via da quei pezzi di plastica nera. Eccetto i libri di scuola, per me. Perché in qualche bizzarro modo che non saprei definire, ero sicuro che avrei ritrovato brandelli e cocci e schegge del pop nella letteratura, nell’arte, nella storia.

Sapevo che Rimbaud e Shakespeare sarebbero tornati in altre forme. Perché a quindici anni e mezzo, quando nel cuore degli eighties arriva novembre, ti schiaccia contro il muro. Tu, la tua bicicletta e il liceo linguistico che costa a papà e mamma sette camice di fatica. Meno male che te la cavi bene e un domani ti sarà utile per guadagnare il pane quotidiano. Ma non solo, no. Scoprirai che l’inglese servirà a innamorarti con intensità ancor più folle di una manciata di minuti favolosi, di vite altrui che sentirai tue.

Ma dicevo: novembre. Un giorno apparentemente qualsiasi a metà di una settimana qualsiasi. Pedalo nel freddo tornando da scuola: sulla via di casa, un amico più vecchio che già frequenta la quinta in un altro istituto mi attende per darmi ciò che ho chiesto. Una Sony C90 sulla quale ha inciso la “raccolta blu” dei Beatles di proprietà del fratello. Da fonti certe avevo appreso che si trattava di un passaggio obbligato e ho sempre avuto fiducia in chi ne sa più di me. A consegna avvenuta, parcheggio in cantina e salgo le scale con una certa smania, perché chissà cosa ho nella tasca del giaccone. Un tesoro? Una delusione? Durante il pranzo guadagno tempo, come se per paura stessi rinviando il momento.

A un certo punto mi butto. Nella cameretta porto un caffè, perché con i vizi ho cominciato presto. Mi siedo sul letto. Affido il nastro al registratore. Parte l’organetto cigolante e colante miele lisergico di Strawberry Fields Forever. All’improvviso, qualcuno ha aperto una diga nel deserto nebbioso della pianura padana. Come se dentro di me e attorno a me il mondo fosse passato dal bianco e nero al technicolor. In tre secondi netti. Per il resto del primo ascolto di una tra le mie dieci canzoni preferite di sempre ero lì, ma ero altrove. Anzi: era il qui e ora ad essersi trasformato in una corsa a rotta di collo lungo ogni curva – improvvisa, inattesa – di una musica che non avevo mai sentito. Ma che (di nuovo: ero già sicuro al cento per cento, senza riuscire a spiegarlo) era sempre stata dentro di me in attesa di rivelarsi.

Un’epifania, insomma. Oppure un battesimo psichedelico, come lo avrei definito tempo dopo con la cognizione di causa offerta da decine di testi sacri opportunamente consumati e centinaia di dischi passati sullo stereo, che arrivò la primavera successiva e in parte ancora posseggo. Quella immersione in un’acqua multicolore ancora la provo con ogni nuova scoperta, uguale però diversa. Lascio che mi porti giù verso campi di fragole. Se possibile, per sempre.

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