Brividi e mal di pancia in pillole, 3

Big Thief – Dragon New Warm Mountain I Believe In You (4AD)

In un’epoca complicata come questa è fondamentale permettere a un gruppo di crescere senza caricarlo di ruoli che spesso finisce col rifiutare. Diciamolo: il rock non ha bisogno di salvatori e, come ogni altra forma d’arte, è vivo e vegeto anche se ha conosciuto giorni migliori. Ma del resto neppure noi stiamo una favola, dunque… Venendo al punto, se nel 2019 Two Hands segnava un notevole progresso per l’idea di Americana osservata con lenti post-indie della formazione guidata da Adrianne Lenker, adesso si coronano ambizioni e tragitto con un disco “importante”. Alla faccia dell’ascolta-e-getta, vi sfilano venti brani – su un totale di quarantacinque, registrati in diversi momenti e località degli Stati Uniti – per qualcosa che possiede i crismi della summa estetica.

Mi piace credere che il fervore creativo sia servito a impedire a un mondo prossimo al tracollo di intromettersi, perché la bellezza ci salverà. Forse. Di certo tiene viva la speranza e rende migliori i giorni. Cosa della quale i Big Thief sono consapevoli e lo stesso dicasi per le dinamiche umane che intrecciano al talento e per una maturazione da applaudire. Mai un momento fiacco o di routine in un lavoro compatto e allo stesso tempo policromo da centellinare con pazienza, così che la segnalazione di questo o quel brano è legata all’umore del momento. Oggi – domani chissà – scelgo le Throwing Muses alle prese con la ballata country in Change e una dolceamara Certainty, la robusta circolarità di Little Things e il moderno madrigale Heavy Bend, il nightmare pop di Blurred View e l’agreste Red Moon, la leggiadra No Reason e l’acusticheria Promise Is A Pendulum. Ora tocca a voi: spegnete tv, computer, telefono e fatevi accarezzare l’anima quanto più spesso potete. Ne vale davvero la pena.

Elvis Costello – The Boy Named If (EMI)

Elvis Costello è un Genio dall’inarrestabile logorrea e di questo suo piccolo difetto è al corrente, se in tempi ormai lontani – si era alla metà degli anni Ottanta – ammetteva pubblicamente di aver scritto troppe canzoni. Considerate che da allora Declan Patrick Aloysius Macmanus non se n’è stato con le mani in mano (anzi…) e traete le vostre conclusioni. In attesa che consegni un equivalente di Time Out Of Mind, quattro anni or sono mancava di pochissimo il bersaglio con il pop insieme solido e ricercato di Look Now. Stilisticamente più vario benché inferiore sotto il profilo compositivo, The Boy Named If si assesta comunque una tacca sopra quel Hey Clockface uscito nell’esatto mezzo, inscenando un sofisticato gioco di riferimenti a momenti specifici della carriera costelliana e della storia del rock.

Giusto per gettare sul piatto qualche nome, ecco gli Who e il Sir Douglas Quintet stabilire le coordinate per This Year’s Model, un Tom Waits ammorbidito presiedere alla policroma eccentricità di Spike, certi echi di soul dagli occhi blu rimandare a Punch The Clock, il pop barocco però minimale ricordarci che Imperial Bedroom è un capolavoro senza età. Tolte alcune lungaggini e l’inevitabile pizzico di mestiere, dalla girandola di (auto)citazioni emergono la malinconia della pianistica Paint The Red Rose Blue e del commiato Mr. Crescent, una title-track articolata e vigorosa, la marcetta tra New Orleans e la Londra del 1967 The Man You Love To Hate, l’orecchiabile tambureggiamento The Death Of Magic Thinking, una Penelope Halfpenny argutamente, sfacciatamente à la McCartney. Nonostante l’iperproduzione e gli esercizi di stile, il Signor McManus è uno che le canzoni sa scriverle eccome. Cosa buona e giusta tenerlo a mente.

Jake Xerxes Fussell – Good And Green Again (Paradise Of Bachelors)

Sempre un momento importante quello in cui decidi di camminare con le tue gambe. Un frangente dove trovi chi agisce d’istinto, chi soppesa e chi sente che è ora. Esempio recente Jake Xerxes Fussell: tre gli album prima di concedere una parca manciata di brani autografi, perché come accade nella pittura giapponese anche qui si diventa artisti dopo un processo di imitazione. In realtà, si tratta di una rispettosa e approfondita indagine di modelli, che vengono studiati con passione onde afferrarne i segreti e l’essenza. Per questo il chitarrista – e da oggi anche songwriter – del North Carolina ha affrontato le radici sul campo andando dritto alla fonte. Da bravo figlio di musicologi, ha seguito le orme dei genitori ma anche dell’enciclopedia vivente Ry Cooder, perché nella musica popolare non vi è inchiostro che non derivi dalla mescolanza di altri che lo hanno preceduto.

Di conseguenza, in Good And Green Again l’antiquariato sonoro finisce allorché si soffia via la polvere da manufatti preziosi per raccontare l’attualità: il passato non serve da semplice paravento, ma viene intrecciato con abilità stando alla giusta distanza cronologica. Parlano chiaro una splendida The Golden Willow Tree che si riallaccia alla tradizione albionica, la pacatezza vocale con qualcosa di Jim O’Rourke nel tono che canta storie e dipana emozioni, le atmosfere in prevalenza avvolgenti, gli intrecci elettroacustici, le misurate decorazioni degli arrangiamenti. Tutto classico però mai scontato o banale in una scaletta scintillante, che si impone alla distanza vantando altri apici nel delicato traditional Carriebelle e nel favoloso commiato Washington. Musica perfetta per attraversare l’inverno e, magari, spingersi già verso le classifiche di fine anno. Grazie, brother Jake.

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Soul of a man: Syl Johnson

Non è colpa mia. Mica sono uno iettatore, che vi credete: “sfortuna” è solo un nome che usiamo per esorcizzare gli scherzi del destino. Però, sentite qui: alla fine dello scorso mese mi accingevo a programmare una nuova serie del blog dedicata alla musica nera, che ho chiamato “Soul Shots” prendendo in prestito il titolo di una collana di antologie tematiche edite dalla Rhino nei tardi Ottanta. Come primo pezzo (in realtà terzo, essendo gli altri “retroattivi”) avevo deciso di spendermi su un nome che non si cita molto spesso. Mentre buttavo giù appunti e riascoltavo dischi, Syl Johnson lasciava questa terra all’età di anni ottantacinque a breve distanza dal fratello maggiore Jimmy, bluesman di vaglia. Mi è tornato in mente il periodo in cui scrissi di Vic Chesnutt e Alex Chilton e loro morirono poco dopo. Ho ricordato le affettuose prese in giro del direttore Federico Guglielmi e dei colleghi di “Extra” e de “Il Mucchio”.  

Tuttavia la sfiga non esiste eccetera eccetera. È la vita che è così: un blues che componiamo ogni giorno, una nota alla volta, e lungo il percorso saltano fuori faccende che non sai spiegare. Venendo al punto, se l’universo black è per voi una passione, saprete chi è Syl Johnson. In caso contrario, per spiegarlo al volo basta la canzone che nel 1970 lo consegnava alla storia: Is It Because I’m Black? Scritta riflettendo su secoli di angherie dell’uomo bianco, è un manifesto di orgogliosa, profonda disperazione che a tratti apre un barlume di rivalsa e speranza; sette minuti e mezzo di soul immerso in cupe acque blues che afferrano il cuore e non lo mollano più, la ritmica di una fissità che ti avvolge, le chitarre che sferzano meste oppure scorticano l’anima, una voce che appartiene a ogni nero che soffre. Da sempre, ma non per sempre.

A un indimenticabile capolavoro riletto da Ken Boothe e campionato dal Wu-Tang Clan, Sylvester Thompson non arriva di punto in bianco. Nato nel 1938 (ma altre fonti dicono due anni prima) a Holly Springs, Mississippi, trasloca con la numerosa famiglia a Chicago, seguendo il padre che ha mollato i campi di cotone per la fabbrica. Siamo nel 1950: il vicino di casa è un tredicenne che passa le giornate in veranda suonando la chitarra, il suo nome è Sam Maghett e sarà noto come Magic Sam. Anche il nostro ragazzo suona la chitarra, entrando nel giro blues cittadino come Jimmy e un altro fratello bassista, Mack. Grazie a Shakey Jake Harris, zio del Magico Sam, dal ’55 è richiestissimo e appare al fianco di Junior Wells, Howlin’ Wolf, Jimmy Reed e molti altri.

Durante una session per la Vee-Jay gli offrono di incidere da solista. Syl torna a casa, scrive un paio di brani e confeziona un demo in una di quelle cabine per registrare la voce su vinile all’epoca ancora popolari. Quando è sull’autobus, per strada l’occhio gli cade sugli uffici della King. Qualcosa gli dice di scendere alla fermata più vicina e offrire il vinile a Ralph Bass. Questi lo ascolta e chiama il suo capo Syd Nathan a Cincinnati. Ragazzo, hai un contratto discografico, però devi cambiare nome e voilà. Nel triennio 1959-1962 incide quattordici facciate per la sussidiaria Federal, ma non si smuove granché fino al ’67 e all’approdo alla Twilight, che cambia nome in Twi-night tenendo a battesimo due LP e una manciata di singoli.

Il Syl Johnson imprescindibile – soulman di stampo sudista, eppure innegabilmente urbano – sta lì e più che altrove nella raccolta Charly del 1993 Is It Because I’m Black?. Sta ovviamente nel brano omonimo e nella pepita stile Stax della malandrina Dresses Too Short, nel James Brown relativamente rilassato di Different Strokes e nella travolgente hit Come On Sock It To Me, nel dilatato funk metropolitano Right On e in quello viceversa sinuoso e trapunto di ottoni Walk A Mile In My Shoes. Ci trovate un’esuberanza a mezza via tra Otis Redding e Mr. Dynamite (Going To The Shack, Get Ready, I Feel An Urge), seduzione ribalda con impresso sopra il marchio “made in Memphis” (Same Kind Of Thing), anticipazioni del miele di Philly (One Way Ticket To Nowhere, Kiss by Kiss, Thank You Baby), funk che non fa prigionieri (I’ll Take Care Of Homework), cartoline spedite a Curtis Mayfield (Concrete Reservation) e a Isaac Hayes (I’m Talkin’ ‘Bout Freedom). Un ben di dio, insomma.

Nel frattempo ha preso corpo un rapporto di amicizia e collaborazione con Willie Mitchell, che occasionalmente ha spedito Syl in studio con la house band che ascolteremo nei dischi di Al Green. Naturale che nel ’71 l’artista si accasi alla Hi, centrando di lì a quattro anni un bel successo con Take Me To the River, straclassico vergato da un Green in bilico tra sacralità e sensualità assieme a Mabon Hodges. Di quel periodo costituisce un buon compendio l’esplicativa The A Sides, laddove negli anni Ottanta Johnson pubblica per il suo marchio Shama, apre una catena di ristoranti e la nazione hip-hop campiona a più riprese Different Strokes. Nel 1992 Syl viene a saperlo, intenta e vince cause per i diritti d’autore, torna a incidere. Quieti anni, gli ultimi sono illuminati dal box antologico The Complete Mythology e dal documentario Syl Johnson: Any Way the Wind Blows e il resto è cronaca. A contare, in ogni caso, è la storia dell’anima di un uomo. Perché se l’anima di qualsiasi uomo ha un colore, quello è il blu. Altrimenti, qualcosa di più scuro.