I Clash escono di scena

Facciamo un gioco: si chiama “fingiamo che” ed è una versione a fin di bene della cancel culture. Consiste nel deliberare che alcuni dischi non siano mai usciti e che alcune carriere si siano concluse diversamente. Un fantasticheria non fa danno a nessuno e probabilmente rende per qualche minuto la vita più sopportabile. Un caso eclatante? Eccolo: l’ammasso di monnezza intitolato Cut The Crap non è mai esistito, la schifezza (“crap”) è stata tagliata (“cut”) sul serio e i Clash si sono sciolti al vertice, la sera della vigilia del carnevale di Notting Hill.

Vi piace? Fingiamo anche che la speculazione delle case discografiche sia punibile per legge. In questo modo Combat Rock avrebbe compiuto quarant’anni il 14 maggio scorso senza lo strascico della relativa “edizione speciale” disponibile in svariati formati (la cassetta! Un 45 giri a tiratura limitata!! I gadget!!! Minchia, che ridere…) che aggiunge una dozzina di inediti scelti dai membri superstiti. Il sentore, infatti, è di occasione sprecata che restituisce solo in minima parte il what if nascosto dietro il quinto album dei Clash.

Come è noto, l’idea originaria era di pubblicare un (altro) doppio dopo un triplo salto nel futuro. Roba da spaccare le gambe a chiunque, ma non all’ultima gang in città che, alle spalle alcune session londinesi, a fine ’81 entra agli Electric Lady Studios di New York per incidere Rat Patrol From Fort Bragg. Al quadro bisogna aggiungere due settimane di favolosi concerti nella Grande Mela con la Sugarhill Gang e Grandmaster Flash, le prove in uno squat londinese, il tour in Oceania ed estremo oriente. A casa iniziano le discussioni, il doppio viene accantonato e il missaggio affidato da Rhodes a Glyn Johns: scorcia ed elimina, si riduce tutto a un LP dal titolo diverso .

All’epoca il punk è un ricordo, eppure la sua anima idealistica vibra in chi ha mutato il corso della musica e della cultura popolare però non vuole sedersi sugli allori. Più punk di tutti e tra i più Grandi di sempre, i Clash hanno intrapreso un’evoluzione che li ha condotti dalla garageland al mondo. Un percorso dove ogni mossa – dettata da muscoli, istinto e cuore – reagisce alla precedente: il punk codificato nell’esordio, il tentativo di scavalcamento Give ‘em Enough Rope, la formidabile sintesi London Calling che intanto si apre alla Giamaica e alla musica nera, il superamento delle colonne d’Ercole con Sandinista!

Quale allora il ruolo di Combat Rock? Sulle prime parrebbe un ritocco della parabola del gruppo, il cui retroterra multiforme e complementare emerge nettamente. In realtà, le canzoni gettano ponti su un futuro che non sarà e, con stupefacente disinvoltura, colgono nuovi fermenti – il nascente hip-hop su tutti – per incorporarli in un composito DNA. Ne deriva un tessuto viepiù cangiante che al rock e alla blackness mescola folk, free jazz, atmosfere filmiche, ricerca etnica. Di nuovo, la fusione non scade in confusione: anzi, incarna l’essenza dell’uscita di scena dei Clash.

Perché alla fine ogni speculazione, diceria e congettura è spazzata via da brani policromi, trascinanti, capaci di “leggere” l’ascoltatore come di esaltarlo e sedurlo. Ci trovate Londra e Kingston, New York e il Vietnam, Scorsese e Coppola, poesia e umorismo. E parecchio altro, tra cui una fiducia commovente nel potere della musica che contribuisce a rendere fresco, oltre che bellissimo, quanto è compreso tra gli estremi del rockabilly morriconiano Know Your Rights e del quadretto in stile Randy Newman Death Is A Star.

Parliamo di un Bo Diddley modernizzato chez Motown (Car Jamming), di singoli perfetti che recapitano apocrifi Stones (Should I Stay Or Should I Go) e irresistibili boogie disco (Rock The Casbah), di stralunate rivisitazioni del reggae che insegnano trucchi a Damon Albarn (Red Angel Dragnet, Atom Tan), di fantastici incubi che condensano Apocalypse Now pensando già ai campionamenti (Straight To Hell), di electro-funk-rap stradaiolo e raffinato (Overpowered By Funk), di jazz libero in un’umida giungla (Sean Flynn), di filastrocche che dipanano satira e storia (Inoculated City), di dub costruito su lirismo e bassi squassanti (Ghetto Defendant, ospite nientemeno che Allen Ginsberg).

Incredibile ma vero, il riscontro commerciale è clamoroso grazie anche dal traino Rock The Casbah composto in gran parte dal batterista Topper Headon, nel frattempo caduto preda dell’eroina e sostituito. Qui l’inizio della fine: a supporto degli Who, nelle arene americane le crepe tra Joe e Mick divengono voragini, questi è cacciato e ci vorrà tempo per riappacificazioni e pubbliche ammende. Però – ricordate? – abbiamo fatto un patto, voi e io. Tutto questo non è mai successo: i Clash si sono salutati nel 1983 con un abbraccio e un sorriso, sapendo di aver compiuto la loro missione. Sapendo, per questo, di poter vivere da qui all’eternità.

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Il futuro dietro l’angolo: Fontaines D.C.

Uno dei mali peggiori del giornalismo musicale è il vizio di affibbiare etichette come “i nuovi Tizi” o “il nuovo Caio” e, in parallelo, di eleggere salvatori di un rock spacciato come defunto da trent’anni abbondanti ma in continua rigenerazione. La cosa ha complicato non poco la carriera – quando addirittura non ha tarpato le ali – a diversi artisti, caricandoli di eccessive attese e/o di un ruolo del quale non andavano in cerca. Un malcostume, lo si dica. E si dica che la tendenza a scovare hype a ripetizione si è acuita nell’era di internet, allorché tutto viene bruciato in pochi giorni quando non in poche ore. Per coloro ai quali interessa approfondire, il tempo e la familiarità aiutano invece a modellare la prospettiva, a ragionare e ponderare i giudizi. Insomma: i dischi vanno ascoltati e sentiti più volte, anche solo per rispetto verso chi li fa. Se siete frequentatori di questo blog, sapete che qui è così che funziona.

Venendo al punto, mi sono accostato libero da preconcetti al disco “del momento”, ovvero Skinty Fia dei Fontaines D.C. Fatto numero uno: il quintetto dublinese possiede talento in misura più che bastante a farsi notare. Fatto numero due: in anni di riciclo a oltranza, omologazione sfrenata e attenzione fin troppo rivolta soltanto al suono, i ragazzi scrivono canzoni che possono durare. Se sei tutto chiacchiere e velleità, nel giro di un paio di album diventi una macchietta tipo gli Oasis, ma non pare sia il caso dei Fontaines D.C. Tuttavia i Gallagher tornano utili per chiamare in causa lo spirito che aleggia su Skinty Fia, cioè il nume tutelare condiviso rappresentato dai La’s di Lee Mavers.

Il cantato di Grian Chatten poggia infatti su quella tonalità insieme emotiva e indolente, aspra però melodica, sempre sul rasoio di una stonatura che non arriva mai; da par suo, la penna contiene inchiostri che profumano di fine anni Ottanta, di quando i Sixties rappresentavano un patrimonio da cui attingere senza timori reverenziali e da “correggere” con il post-punk. Se proprio volete un altro punto cardinale, gli House Of Love calzano a pennello e chi ha una certa età non avrà bisogno di ulteriori spiegazioni.

Al netto di ogni riferimento, Skinty Fia possiede spessore compositivo, sicurezza e personalità tali da segnare un vertice per la formazione. In tal modo sigilla un cerchio, poiché tre dischi in altrettante stagioni comprimono su una nota alta un preciso decennio di storia del pop come solo nella nostra epoca è dato. E per il futuro, si vedrà. Intanto è il presente che conta e sistema i vertici nel memorabile indie wave gregoriano In Ár gCroíthe Go Deo e in una fragorosa ma cupa Nabokov.

Nel mezzo, una scaletta di impeto ragionato, rigore formale e standard quasi altrettanto elevato: I Love You porta con sé l’ipnosi stordente di Bossanova, i DNA di Mavers e Guy Chadwick sono tutt’uno nel gioiellino Jackie Down The Line e nella malinconia tesa di How Cold Love Is, lungo la sensualità cristallina di Roman Holiday cogli qualcosa di Echo & The Bunnymen. Se Big Shot e Bloomsday ipotizzano gli Stone Roses in vesti shoegaze, The Couple Across The Way è un folk crepuscolare e stranito e la title-track incede danzereccia ricordando i Campag Velocet ma pure i tardi Cure. La netta impressione è che, nel mentre diventano grandi, gli irlandesi possano presto sedersi tra i Grandi. Consideratelo un augurio.