Volare tra i colori con i Breathless

Una presenza ricorrente su questo blog, i Breathless. Presenza che mi auguro risulti gradita a lettrici e lettori quanto lo è a me, che con cadenze irregolari ho l’onore di ospitarli. Ogni volta c’è un motivo valido e a questo giro il più valido in assoluto, dal momento che dopo dieci anni dal bellissimo Green To Blue la formazione britannica si ripresenta con See Those Colours Fly, un disco nuovo di zecca foriero di novità. Tanto per cominciare, il mitico produttore americano Kramer si è occupato del missaggio; poi, la bassista Ari Neufeld si è fatta carico anche delle ritmiche per via di un grave incidente stradale che ha coinvolto il batterista Tristram Latimer Sayer.

La buona notizia numero uno è che Tristram si sta gradualmente riprendendo. La due: davanti a una situazione drammatica, il gruppo ha risposto a testa alta e, pensando che il modo migliore per sostenere l’amico fosse continuare a lavorare all’album, con calma – di mezzo, ovviamente, ci si è messo anche il lockdown – ha provato a uscire dalla propria aurea confort zone. Eccoci infine alla terza buona notizia: la missione è stata compiuta recapitando un disco che offre una versione viepiù onirica di uno stile ampiamente collaudato – a farla breve: splendida sintesi di post-punk e psichedelia – che, tra molte altre cose, rappresenta l’invenzione dello shoegaze. Senza perdere di vista l’anima eterea ma allo stesso tempo saldamente ancorata a terra, qui i Breathless si porgono in una chiave marcatamente minimale, dilatata e ambientale.

cover art: Jay Cloth

L’economia di mezzi e arrangiamenti sottolinea un’inalterata forza evocativa, sostenendo una scrittura sempre di alto livello attraverso stratificazioni strumentali, drone, ritmi e trame che coniugano organico e sintetico con spontanea efficacia. Sono canzoni che respirano e posseggono spazialità, quelle costruite come d’abitudine su intrecci di corde e tastiere e impreziosite dall’inconfondibile, magnifica voce di Dominic Appleton. Da parte sua, Kramer (in curriculum altri pezzi da novanta come Galaxie 500 e Low) cesella dettagli e concorre con misura a una musica immaginifica come poche altre. E, quel che più importa, a composizioni come la sognante Looking For The Words e una sospesa My Heart And I, come l’ambient wave tra romantico e gotico The City Never Sleeps e il capolavoro assoluto – Nico che si aggira tra i panorami di Meddle? – della visionaria e policroma I Watch You Sleep.

Non vale meno il resto di un programma con l’aspetto di un film da seguire con gli occhi della mente, dalla mestizia riflessiva squarciata da timidi raggi di luce di The Party’s Not Over e Let Me Down Gently a una più movimentata We Should Go Driving per la quale i Beach House farebbero carte false, passando per la Somewhere Out Of Reach che trasporta gli ultimi Joy Division in una dimensione priva di tragedia e le architetture sinuose, leggiadre e conturbanti di So Far From Love. Sempre al di sopra dei tanti epigoni, i Breathless regalano un ennesimo balsamo per l’anima. In tempi tribolati e tristi, See Those Colours Fly è da tenere a portata di orecchio, ma soprattutto stretto al cuore.

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Brividi e mal di pancia in pillole, 5

Thomas Dollbaum – Wellswood (Big Legal Mess)

Cocci del sogno americano: soprattutto di questo tratta la ruvida, scarna poesia di Thomas Dollbaum, cresciuto in Florida e domiciliatosi a New Orleans sette anni or sono. Ottenuto un master in letteratura, si guadagna il pane costruendo case nel frattempo scrive canzoni e, durante il blocco forzato della pandemia, inizia a fissarne alcune su nastro con l’amico Matthew Seferian. Calmatesi quel poco le acque, un pugno di sodali si unisce alle registrazioni in un hotel della Big Easy e ne risultano otto fotografie seppiate di quotidianità allo sbando, di personaggi che si arrangiano con il mestiere di stare al mondo. Collocate le storie da qualche parte tra Raymond Carver e Hubert Selby Jr., la musica commenta e sostiene con un taglio indie roots che fonde un giovane Springsteen a Richard Buckner e David Berman, mentre un timbro vocale profondo – però sommesso e seppellito nel mix – svela un osservatore delle esistenze altrui. Il moderno songwriter umanista lavora infatti sul contrasto tra delicatezza sonora e scabrosità del racconto lasciando aperto uno spiraglio di speranza. Sta esattamente lì una parte del fascino, laddove il resto ce lo mettono passione, arrangiamenti rigorosi ma curati, una calligrafia per nulla banale con apici nell’amarognola Work Hard, in una God’s Country insieme squadrata, sinuosa e acidula, nel mesto e traslucido inno Strange, nella meditativa Break Your Bones. Benvenuto, ragazzo.

Dream Syndicate – Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions (Fire)

Argomento spinoso, le reunion. Mentre Wire e Feelies dispensano classe, nella maggioranza dei casi assistiamo a baracconate patetiche o almeno così è per me. Ma proprio perché al mondo c’è posto per tutti, mi tengo stretto chi annoda il passato e, guardando oltre, maneggia l’equilibrio sul quale poggia l’arte rock. Per i Dream Syndicate del nuovo secolo la questione era che fare dopo lo splendido The Universe: proseguire con la sperimentazione o ritornare alle canzoni? Siccome tertium non datur, la seconda opzione prevale in un album che negli episodi migliori offre cose belle e policrome come il classico mid tempo alla Wynn avvolto in echi ipnotici Where I’ll Stand, come una Beyond Control dal groove krauto e le atmosfere crepuscolari, come il Lou Reed di inizio ’70 modernizzato di The Chronicles Of You e tramutato in Neil Young nella ballata urbana Hard To Say Goodbye. Un’abbondante tacca sotto il resto, dal pop-rock Damian che cita Tom Petty faticando a decollare allo stiloso garage Straight Lines, passando per le routinarie When You Come Around e Trying To Get Over, una My Lazy Mind adeguatamente pigra e sudista, i Roxy Music di Stranded che si affacciano in Lesson Number One. A conti fatti, Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions non si muove né avanti né indietro, ma di lato: a voi stabilire sia un pregio o un difetto. Argomento spinoso, le reunion…

Nina Nastasia – Riderless Horse (Temporary Residence)

La vita spesso gioca dei gran brutti tiri. Ne sa più che qualcosa la cantautrice americana Nina Nastasia, di ritorno sulle scene dopo quasi tre lustri con Riderless Horse, un album che alle spalle ha una storia drammatica responsabile sia del suo intimo significato che della prolungata pausa. Il disco porta con sé il peso della morte del marito Kennan Gudjonsson, suicidatosi dopo che la loro relazione era andata in frantumi. Cose che non dovrebbero mai succedere, ma alle quali cerchi di dare un senso meglio che puoi: ad esempio, esorcizzando la tragedia con la musica, che in questo modo finisce per essere il porto sicuro dove rientrare dopo una navigazione in mari di sofferenza. Per questo motivo affronti ciò che è stato e ciò che è con amici fidati – Steve Albini, Greg Norman – e una manciata di canzoni all’insegna della purezza nuda e confessionale. Canzoni nelle quali il senso di colpa si accompagna alla consapevolezza che bisogna comunque andare avanti. Canzoni da ascoltare d’un fiato, come fossero una lettera intessuta di lacrime e sorrisi. Ciò nonostante, risaltano la filastrocca Just Stay In Bed, una Nature prossima a Kristin Hersh, la dolce tensione di Ask Me e Go Away, una cristallina The Two Of Us, il rabbrividente lamento Trust. Tra ricordi, rimpianti e rinascita, una voce amarognola di disarmante leggiadria e arpeggi acustici si/ci tagliuzzano il cuore per farne coriandoli. E chissà che presto il cielo non si schiarisca.

Tomberlin – I Don’t Know Who Needs To Hear This… (Saddle Creek)

La bolla social talvolta regala qualche bella sorpresa. Spulciando le liste di ascolto degli amici puoi imbatterti in nomi che non conoscevi e provare la gioia di quando setacciavi le recensioni sulla tua rivista preferita, con il vantaggio di non dover attendere settimane per toccare con orecchio ed ecco che quest’epoca avvilente qualche merito lo ha. Lo stesso vale per la (relativamente) recente ondata di cantautrici, un panorama assai interessante e composito quanto a stili ed età dove Sarah Beth Tomberlin – per comodità Tomberlin: classe 1996 domiciliata a Louisville, Kentucky, in tempi lontani tra gli epicentri del post-rock – non incarna un’altra Angel Olsen o la nuova Sharon Van Etten. È di più e di meglio, la ragazza, che arriva al secondo album in quattro anni mostrando una personalità significativa e trafficando con scheletri folk attuali sui quali innesta inquieta ambient urbana (Easy), elettronica umanista (Memory), spezie jazz (Unsaid, Collect Caller) e favolose ballate dal retrogusto acido (Stoned). Questi gli assi calati da un album che si mantiene su livelli altrettanto elevati nella delicatezza mai scontata di Born Again Runner, Tap e Sunstruck, in una Happy Accident malinconicamente muscolare, nella laconica Possessed e nella dolce ma svagata Idkwnth. Per quanto mi riguarda, Sarah Beth, sei una rivelazione. E ti dico che abbiamo tutti bisogno di ascoltare questo disco incantevole.