Musica per le mezze stagioni: Tudor Lodge

In tempi di speculazione meglio ribadirlo: la rarità di un manufatto discografico non costituisce necessariamente garanzia di valore artistico. Semmai è più probabile il contrario, poiché certi furbacchioni sono soliti costruire mitologie di cartongesso a fini speculativi. Venendo al punto, mentre scrivo queste righe un originale Vertigo, numero di catalogo 6360043, dell’omonimo album dei Tudor Lodge vi costa settecentocinquanta euro. Attenzione: per una copia “VG”, e scordatevi la “mint” se non possedete una Mastercard Black. Siamo oltre la decenza, insomma, considerando che le ristampe sono reperibili a prezzi ragionevoli sia in vinile che in CD.

Tenendo sempre ben presenti le teorie di Sigmund Freud sul collezionismo, a me interessa il succo e cioè la musica. Eccezione che conferma la regola, Tudor Lodge ne offre di squisita e ascrivibile al folk albionico che, tra anni Sessanta e Settanta, era oggetto di felici contaminazioni da parte di chi lo mescolava al rock e chi ne scandagliava il lato oscuro, di chi si lanciava in viaggi acidi e chi, come i Nostri, inseguiva una purezza pastorale possibile solo nell’immaginazione. In quella favolosa ricerca di equilibrio si osservavano le radici da diverse prospettive ed ecco perché il filone tuttora rappresenta una viva fonte di ispirazione: perché significava tornare indietro mentre si progrediva e viceversa.

Vale oggi come nel turbolento ’68, allorché il duo voce/chitarra di Reading composto da John Stannard e Roger Strevens trae il nome – quasi: il locale si chiamava Tudor Tavern – da un pub cittadino. Di lì a un annetto Lyndon Green subentra a Strevens e, tempo altri dodici mesi, la formazione si stabilizza con la cantante e flautista americana Ann Steuart. Battuto palmo a palmo il circuito folk, approdano a Londra e, grazie ai buoni uffici del manager Karl Blore, firmano per la Vertigo. Il 33 giri di cui sopra vede la luce nel 1971 in una strepitosa confezione, svelando arazzi di plettri acustici intessuti sulla sezione ritmica dei Pentangle e su misurati intrecci di fiati e archi.

Il resto ce lo mettono melodie gentili, armonie vocali altrettanto e un “ricercato minimalismo” che da ossimoro diviene realtà. Benché figlio della propria epoca, Tudor Lodge vanta infatti un particolare sapore che qualcuno ha definito twee folk: ci sta, se parliamo di dolcezza che non stanca, di incantesimi bucolici senza eccesso recuperati in tempi relativamente più recenti da band affini come Shelleyan Orphan e Mirò, di un’aura da stagioni di mezzo che non ci sono più. Soprattutto, se parliamo della The Lady’s Changing Home che varia la ricetta ricorrendo a un pizzico di elettricità in più, di una rilettura di Kew Gardens del collega Ralph McTell, della sofisticata, un filo malinconica delicatezza che promana da It All Comes Back To Me e Recollection, da Nobody’s Listening e I See A Man.

Se gli scintillanti madrigali folk-pop Would You Believe?, Help Me Find Myself e Forest giustificano in pieno il paragone con i Belle And Sebastian, l’incantata e incantevole Two Steps Back suggerisce un’ipotetica Joni Mitchell britannica e Willow Tree parte oscura per dipanarsi cameristica. Tutto molto bello, ma che finisce nel solito modo: la promozione dell’etichetta è carente e il disco non vende. Pochi soldi e tanta stanchezza, Annie se ne va e con la sostituta di lusso Linda Peters, pronta a intraprendere una favolosa carriera con il marito Richard Thompson, i Tudor Lodge completano un tour in Olanda e nel 1972 si dividono. Dai primi anni ’80 si sono susseguite rimpatriate con un’altra cantante e John ha proseguito fino alla morte, sopraggiunta nel marzo 2020. In un beffardo scherzo del destino, l’ultima incarnazione dei Tudor Lodge aveva da poco pubblicato un album dal titolo Life Goes On

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Son House riporta tutto a casa

Prima di essere un genere musicale, il blues risiede nel profondo dell’anima. È una condizione che ereditiamo senza quasi rendercene conto finché non ci si para di fronte in tutta la sua ineluttabilità, e proprio per questo costituisce materia perfetta di/per mitologie ed epopee. Talvolta, anche di storie che piace raccontare perché sono belle e riconciliano con il mondo come quella che vi apprestate a leggere, un tassello scintillante del mosaico dove i visi pallidi si ricongiungono ai Maestri in una serie di scambi reciproci. Una vicenda molto simile alla sceneggiatura di un film che, se venisse girato, inizierebbe la sera del ventitré giugno 1964.

Un maggiolino Volkswagen rosso si ferma davanti a un condominio di Greig Street a Rochester, nello stato di New York. Dall’auto scendono tre esperti di blues al colmo dell’eccitazione. Possiamo capirli, dato che stanno per incontrare una leggenda e terminare la ricerca che dal sud li ha condotti nella contea di Monroe. A loro pare incredibile che l’uomo seduto sulle scale abbia incrociato la chitarra con Charlie Patton, e ancor più che nel ‘43 sia giunto sulle rive del lago Ontario per lavorare in fonderia, fare il cuoco e il portantino alla stazione. Adesso è lì: un pensionato quieto e distinto che li osserva, domandandosi cosa vogliano.

Si chiama Eddie James House Jr., lo conoscono come Son House ed è un gigante come i contemporanei Charley Patton e Robert Johnson, rispetto ai quali ha però avuto la fortuna di vivere dopo l’epoca d’oro del country blues prebellico. Il suo stile è un polveroso, scuro intreccio di amore e morte, di sofferenza e fede. Un lamento granuloso e ancestrale, un patrimonio culturale e umano racchiuso in canzoni che furono raccolte negli anni Trenta dalla Paramount e, un decennio e rotti più tardi, da Alan Lomax. Canzoni che potete – anzi: dovete – ascoltare e la maniera più semplice è procurarsi un CD del 2004 intitolato A Proper Introduction To Son House: Delta Blues.

Vi ruberà subito il cuore chi nasceva nel 1902 in Mississippi da un musicista col vizio dell’alcolismo. I genitori si separano che “Son” ha otto anni e già canticchia: trasloca con la madre in Louisiana, a New Orleans sposa una donna più vecchia e sgobba nella fattoria del suocero fino al 1922. Il matrimonio in frantumi, diventa pastore episcopale ma lo cacciano presto perché donnaiolo e schiavo della bottiglia. In giro a bere, vede un tizio imbracciare la chitarra, resta folgorato e se ne procura una. Chissà che non stringa anche un patto con il diavolo, considerando che entro poche settimane è sufficientemente provetto da esibirsi nei juke joint.

Qui la faccenda prende una piega sul serio romanzesca: durante uno scontro a fuoco in un locale, Son fa secco chi lo ha ferito a una gamba. Dei quindici anni ingiunti a Parchman Farm ne sconta due, dopo di che finisce a Lula, in Mississippi, diventando amico di Charley Patton e suonando con lui. Nel 1930, la Paramount chiede a Charley altri 78 giri, ascolta House e cattura nove pezzi: tranne uno, vengono pubblicati con vendite modeste e tuttavia suscitano l’entusiasmo di Alan Lomax. Nel 1941, House (frattanto rimaritatosi) guida trattori nelle piantagioni, è contattato da Alan per un paio di memorabili sessioni, poi si sposta a Rochester e chiude con la musica. Rieccoci alla sera di inizio estate nella quale Nick Perls, Phil Spiro e Dick Waterman lo incontrano. Quest’ultimo propone di tornare sulle scene offrendosi nel ruolo di manager e House, incredulo e assolutamente ignaro del suo status, accetta. C’è però un problema: da decenni non tocca lo strumento e ha persino dimenticato il repertorio. Gli comprano una National nuova di zecca e Alan Wilson – futuro fondatore dei Canned Heat – lo aiuta a rimpadronirsi del passato con pazienza e dedizione.

Ve lo dicevo che è una bella storia, no? A fine anno Son tiene concerti, incide l’imperdibile Father Of The Folk Blues e appare su “Newsweek”. Nel circuito dei festival folk e delle università, uno che mai si era esibito per i bianchi (si) racconta e, senza saperlo, srotola un cordone ombelicale fino all’oggi. Fino a Forever On My Mind, disco che recupera una delle suddette esibizioni uscito lo scorso marzo su Easy Eye Sound, l’etichetta gestita da Dan Auerbach dei Black Keys. Siate grati a lui e a Waterman, che all’epoca metteva da parte i nastri dei concerti che ha infine deciso di rendere pubblici. Da ammiratore del bluesman, Auerbach ha svolto il compito con competenza, ripulendo le bobine di uno spettacolo tenuto in Indiana di fronte a una cinquantina di riverenti testimoni. Un pugno di classici assoluti in un’atmosfera intima e vibrante, provi i brividi di quando sei al cospetto della storia, dell’arte e del loro reciproco inseguirsi e svelarsi. Privo di qualsiasi filtro, è cinéma vérité sonoro da avere senza “se” e “ma”. Perché qui non troverete l’anima di un uomo, ma quella che appartiene a tutti noi. Troverete una voce vicina più presente che mai. E così sia.