Brividi e mal di pancia in pillole, 6

Built To Spill – When The Wind Forgets Your Name (Sub Pop)

Autunno di ritorni eccellenti e almeno sotto questo profilo il 2022 qualche buona notizia la riserva. Siccome la vita è breve però a volte bella, basta un nuovo LP dei Built To Spill per sentirsi rinfrancati, anche in virtù del passo più rallentato col quale da You In Reverse Doug Martsch pubblica dischi, simile alle visite di carissimi amici che incontri di rado ma senti ogni giorno. Sono quelli che meritano stima, fiducia e amore perché non sbagliano una mossa, che si tratti di reinventare il rock chitarristico classico tramite una chiave indie o maturare con canzoni colme di emozione. Una garanzia, l’uomo che a sette anni da Untethered Moon si ripresenta – per la prima volta su Sub Pop, accompagnato da due membri dei brasiliani Oruã – con materiale autografo avendo frattanto proposto pagine di Daniel Johnston.

Chiamatela suggestione, eppure la tenera svagatezza di Daniel sembra trapelare da filastrocche favolosamente appiccicose e tristallegre che impastano Pavement, Dinosaur Jr., Flaming Lips e Neil Young come Gonna Lose, Understood, Spiderweb e Never Alright, dall’esuberante roots-rock che si trasforma in sarabanda psichedelica della conclusiva Comes A Day, da una Rock Steady che sorprende con groove morbido e coda dub, dall’acidula ballata Fool’s Gold e dall’alveo melodico delle riflessive Elements e Alright. Tanto per cambiare, tutte canzoni imperdibili. Tanto per cambiare, un modo di intendere e praticare la musica che va scomparendo e che l’eroico Doug mantiene vivo con una fede commovente. Favoloso.

Beth Orton – Weather Alive (Partisan)

Anche soltanto per il modo in cui scandisce le uscite discografiche, a Beth Orton non si può non voler bene. Ancor più dopo averci fatto attendere sei anni per un album di toni tenui e seppiati che rappresenta un’oasi di pace in un’epoca triste e buia. Un’epoca nella quale la speranza deve comunque rimanere viva e aiutarci a reagire nel modo più sicuro che conosciamo. Nello specifico di una cantautrice, sedersi a un vecchio pianoforte comprato da un robivecchi per scrivere via dalla pazza folla, al riparo nel capanno del giardino. Ed è così che, a un certo punto, quando credi di aver scandagliato certe profondità per te stessa, comprendi che la faccenda sta diversamente. Che quelle canzoni – Brian Eno docet –onorano il tuo “errore” come un’intenzione nascosta.

Ecco: Weather Alive sorge dall’intimità di chi lo ha composto e, coraggiosamente, si porge da unicum che richiede impegno e dedizione. In punta di piedi, un folk di chiaroscuri dall’anima jazz – riletto alla luce di un minimalismo che profuma di modernità classica – avvolge l’ascoltatore dentro tepori di piccole ma in fondo grandi gioie quotidiane. Per questo non puoi fare a meno di una title-track da Nick Drake che si crede Mark Hollis, della sottile pacatezza di Unwritten e Arms Around A Memory, della crepuscolare Friday Night e della languida Forever Young, della Lonely dolente come a Cat Power non riesce più e della Joni Mitchell che ringiovanisce in Fractals e Haunted Satellite. Ci sei mancata, Beth, e parecchio.

Laura Veirs – Found Light (Bella Union)

Anche se sul momento non te ne rendi conto, nella fine di qualcosa si nasconde pur sempre un inizio. Quando ti separi da qualcuno che hai amato, è naturale ripensare a sé e all’accaduto prima di ripartire da capo. Magari, come nel caso di Laura Veirs, ciò avviene attraverso una catarsi spontanea e un lavoro che si inserisce nella tradizione dei dischi scivolati fuori da un cuore spezzato, dai giorni in cui l’amore fa male però bene. Giorni dove alla fine rinasci, anche se è il percorso che conta davvero. Nello specifico, Found Light rappresenta una reazione al divorzio con Tucker Martine, apprezzato produttore per Decemberists, Jayhawks e la stessa Laura.

Ragion per cui, qui, tira per lo più un’aria diversa: per forza di cose più meditativa benché mai cupa, consegnata con l’aiuto dell’abile Shahzad Ismaily a un tessuto sonoro essenziale ma pure assai curato. Soprattutto, è perfetto per come pone in risalto l’emotività di folk traslucidi in vena di jazz come Autumn Song, Naked Hymn e My Lantern, della Ring Song che sgocciola un pianoforte circolare, dell’avvolgente bruma elettronica Signal, della scarna meditazione Sword Song. Per tacer di una New Arms insieme corale ed eterea, del violino che serpeggia in coda a Time Will Show You, dell’amara filastrocca T&O. In inglese, il titolo del disco può significare sia “luce trovata” che “Laura Veirs ha trovato la luce”. Date le premesse, mi pare assolutamente azzeccato.

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