L’avrete fatto anche voi il giochino del “chissà”, vero? Chissà come avrebbero suonato i led Zeppelin con Terry Reid al posto di Robert Plant, chissà se Buddy Holly non fosse salito su quell’aeroplano e via immaginando. La chiave del what if sta nel fascino di infiniti mondi paralleli che possono aprirsi – purtroppo solo nella nostra fantasia – istigando le ipotesi più curiose e, sempre nella nostra testa, riparare i torti del destino. A volte anche nel nostro mondo si aprono dimensioni parallele, benché siano in pochi ad accorgersene. Se, per esempio, proviamo a fantasticare su un Tim Buckley d’ebano riceviamo in cambio un podio di soli vincitori: Terry Callier, Eugene McDaniels, Lou Bond. Avendo già riferito del secondo e in attesa di misurarmi con il primo, è di Bond che vado a raccontarvi per sommi capi.
Ricordo distintamente la sorpresa e lo stupore quando, una dozzina di anni fa, la Light In The Attic ristampò quell’album omonimo dalla copertina bella e significativa. Un uomo, la chitarra in spalla e un alone di fitto mistero. Uscito originariamente nel 1974, l’unico LP pubblicato da Lou era rimasto per trentasei anni materia di sampling e collezionismo. Perduto e sconosciuto, a farla breve. Eppure si tratta di un capolavoro dove sfilano sei gioielli di souledelia dilata e venata folk che profumano di eternità nel mentre restituiscono in pieno il disorientamento e il pessimismo di metà anni ‘70. Una meraviglia, perché l’artefice non volle decidere tra folk e soul, preferendo colmare gli spazi tra gli stili e le emozioni fondendo atmosfere agresti però urbane e tematiche sociopolitiche, archi lanciati verso un cielo pop, fiati che rammentano che laggiù c’è l’inferno. Troppo strano? Troppo bello, semmai.

Dura la vita di Lou – dal 1945, per l’anagrafe Ronald Edward Lewis – da quando i genitori si separano e lui, piccolissimo, viene affidato a una sequela di famiglie religiose. Conseguenza ne è che si formi sul gospel pur ascoltando parecchio country alla radio e, undicenne, convinca un operatore sociale a regalargli una chitarra. Impara a cavarci canzoni, se ne va a zonzo per l’America e, tra una peregrinazione e l’altra, entra nel business musicale grazie all’amico Bobby Miller. Nei medi Sessanta pubblica un paio di 45 giri che i fan di Northern soul custodiscono in cassaforte ed è autore per la Chess. Inquieto, fa la spola tra Chicago, New York e Cleveland tornando nella natia Memphis nel ‘71.
Adesso è un hippie nero visionario e flessuoso come una pantera, suona nei locali cittadini e si offre alla We Produce – marchio parallelo della Stax – ed ecco. Ecco una fusione di folk protestatario, soul orchestrale, stordimento stralunato e poetico. Ecco l’ugola lanciarsi in un caloroso raspare e in falsetti da pelle d’oca. Ecco la peculiarità imporsi nella Lucky Me di Jimmy Webb che accarezza il blues con gli archi alternando uggia e sorrisi, in un’autografa Why Must Our Eyes Always Be Turned Backwards che accusa con uno svagato tono Philly Sound, nell’elegia stranita un po’ alla Arthur Lee – ma farina del sacco di Bill Withers – di Let Me Into Your Life, in una That’s The Way I’ve Always Heard It Should Be che cava un avvolgente groove pop da Carly Simon. Ciò nonostante, è a suggello delle facciate che il navigatore di stelle osservate dal ghetto sistema gli apici: To The Establishment dipana una fluviale, agrodolce invettiva lungo tese galassie dell’anima approdando a ipotesi gospel di Starsailor; Come On Snob intreccia l’orchestrazione perfetta a corde vocali e d’acustica, come un Blue Afternoon in transito dal pastorale all’oltremondano.
Poi tutto va a rotoli. Nonostante le recensioni positive, la promozione è inadeguata e per problemi distributivi tra Stax e CBS il vinile nei negozi si trova a fatica. Il girovago si rimette per strada e una lunga lotta contro la depressione e dipendenze assortite lascia il segno su chi vive dove capita e in condizioni spesso precarie. A fine anni Ottanta, però, Lou Bond si ripulisce ed è di nuovo a Memphis che gira in bicicletta e si esibisce saltuariamente. Tre anni dopo la riedizione di cui sopra, ci lascia in un giorno di febbraio, splendido a sé che merita tutto l’affetto possibile. Anche se postuma, che sia fatta giustizia.
Di questo avrò letto sicuramente (probabilmente su qualche Classi Rock del Mucchio) ma non me lo ricordavo proprio. Grazie della dritta: un autentico gioiello!
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Fu recensito, certo: se ricordo bene, da Eddy Cilìa.
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