Quando scrivi di musica nell’era di internet, cercare di raccontare le persone è ciò che conta. Essendo i fatti (calunnie e falsità incluse) a portata di click, porli in relazione costituisce un valore aggiunto e idem capire cosa sta dietro la biografia. Studiando le vite degli altri, rifletto su quanto di esse abiti nei dischi e a volte scopro cose spiacevoli che tratto con i guanti, poiché detesto la morbosità e le agiografie e preferisco interessarmi cosa spinge un essere umano verso determinate scelte. Pur sapendo che l’artista non appartiene a questo pianeta, è così che ci gettiamo nelle anime altrui per capire la nostra. A maggior ragione se una donna – intensa e naturale come un fiore che si apre al sole – trasforma insicurezze e massimi sistemi in emozione pura. Perché di amore e della sua assenza si scrive sulla pelle, perché la femminilità è uno stato che prescinde dal corpo, perché il destino si rivela giorno per giorno.
Incontrare per la prima volta Judee Sill significa abbandonarsi a un’onda che ti accompagna mentre nuoti a mezz’aria. Devi sentirla, dopo di che ascolterai con orecchie diverse una differenza tra piegarsi e spezzarsi così sottile da sparire e quel blues inteso come condizione dello spirito in cerca di rifugio. Alla fine affronti il dolore, il misticismo e la (ri)scoperta avvenuta grazie all’entusiasta Jim O’Rourke, a un articolo di Mojo e alle successive ristampe. Solo due gli LP ufficiali, ma abbagliano come cattedrali sotto una volta stellata e sottolineano l’ascendente su nomi eccellenti – Joanna Newsom e Julia Holter, Warren Zevon e Beth Orton, Bill Callahan e Bonnie “Prince” Billy – che ne hanno riletto le canzoni o hanno inseguito una musica delle sfere impossibile da replicare. Il segreto della perfezione, forse, sta in un talento che ha compensato il caos con l’elevazione umanistica mentre viveva come un acrobata senza rete. Può bastare. Avanza, persino.

Breve la vita di Judee Lynne Sill, benché abbia più senso parlare di tante esistenze bruciate per riempire una voragine affettiva. Nata nell’ottobre 1944, cresce a Oakland prendendo confidenza con piano e chitarra nel bar gestito dal babbo. Quando costui muore, mamma si risposa a Los Angeles con un disegnatore di cartoni animati alcolizzato e violento e la ragazzina diventa adulta anzitempo nel peggiore dei modi, poiché il patrigno la picchia e ne abusa. Poco da stupirsi se da teenager sembra uscire da un noir di Jim Thompson: cacciata dalla scuola pubblica, all’istituto privato Judee fuma erba; ottenuto il diploma, si sposa per dispetto, rapina benzinai e negozi di liquori; in riformatorio impara a suonare l’organo e divora libri. Di nuovo libera, si lega a un contrabbassista che la introduce all’LSD finché non entra in scena Bob Harris, pianista tossicodipendente che la porta a Las Vegas per un matrimonio che non durerà. Altro giro, altro inferno: un’eroinomane orfana anche di madre firma assegni a vuoto, ruba, si prostituisce. Tornata in galera, tocca il fondo quando ricontatta il fratello e lo scopre deceduto. Ormai sola, traccia una linea e decide da che parte stare.
La ventunenne (!) che ha vissuto il doppio si accosta ai Rosacroce, all’esoterismo e all’alchimia. In un impeto febbrile scrive e, amica di gente che milita in Leaves e Turtles, ottiene un impiego da autrice conto terzi. Le Tartarughe trasformano Lady-O in una hit, David Geffen prende nota e nel ’71 la chiama alla Asylum riservando il numero uno del catalogo per Judee Sill, capolavoro che cancella i confini tra pop, colonna sonora, gospel, classica, folk. Tutto armonizzato da una calligrafia di naturale complessità e avvolto in un’orchestrazione bilanciata, della quale si occupa soprattutto Don Bagley, già nel di poco antecedente Ladies Of The Canyon che presta anche il produttore Henry Lewy. In un autentico “a sé” piovono da dimensioni ultraterrene la melodia e il corno di Crayon Angels, una The Achetypal Man mediana tra Bach e country blues, l’arcadia folk screziata di barocco in The Phantom Cowboy e di Hollywood per Ridge Rider. Tra elaborati simbolismi, sensualità criptica, arcani flower power e citazioni del romanzo L’ultima tentazione di Cristo, la voce – spesso sovraincisa in strutture corali e fughe – conficca nel cuore gli estatici rapimenti My Man On Love e Lopin’ Along Through The Cosmos, la cantabilità sofisticata di Lady-O e The Lamb Ran Away With The Crown, il gospel laico del singolo Jesus Was A Cross Maker curato da Graham Nash, il peculiare r&b Enchanted Sky Machines, l’arazzo Abracadabra. Si trascende il sublime, ogni volta privi di parole. Incantati. Stupefatti.

Lo stato di grazia prosegue nei tour con Randy Newman e Van Morrison, benché il 33 giri sia un fiasco commerciale e il tentativo di lanciare in Inghilterra una cantautrice sui generis non porti a nulla. Sospettando che Geffen la promuova in modo inadeguato, la bad girl lo insulta pesantemente e poco dopo un enorme cartellone pubblicitario sul Sunset Boulevard è rimosso. Gli obblighi contrattuali ridotti al minimo, al sostegno economico provvede un fondo fiduciario, comunque scialacquato in costosi regali ai conoscenti più cari come il poeta David Bearden, amore tormentato protratto fino a metà decennio. Nel 1973 Heart Food conferma Lewy in regia, mentre Judee si occupa delle partiture e impugna egregiamente la bacchetta pur senza alcuna esperienza. Compatto e articolato, il disco offre sonorità più piene e cose memorabili nello struggimento da favola The Kiss, in una frizzante The Pearl, nella meditabonda The Phoenix. Apice assoluto The Donor, sinfonia tascabile dove il crescendo chiesastico si scioglie su pianoforte e voce e scaglia il coro del kyrie eleison in empirei dai quali si sta per precipitare.

Esigue le vendite, due incidenti automobilistici ledono la spina dorsale della Nostra, che con i suoi trascorsi non può acquistare antidolorifici e – amaro paradosso – deve per forza ricorrere alla droga. L’ultimo sussulto nel 1974, quando esce dall’ospedale e in un giorno incide Hi, I Love You Heartily Here, album “perduto” ripescato da O’Rourke sul CD Dreams Come True del 2005 con altri inediti per uno scavo di archivi proseguito da Live In London e Songs of Rapture And Redemption. Nel centro esatto dei Settanta inizia il dissolversi silenzioso di chi, non tollerando l’invalidità crescente, torna nei luoghi dove è nata. La mattina seguente il Ringraziamento 1979 la Sill viene trovata nel suo appartamento stroncata da un’overdose. Il medico legale archivia il caso come suicidio, ma gli amici ricordano un pranzo sereno pur se disseminato di segnali – sguardi, gesti, frasi – che cogli soltanto a posteriori. Dopo la cremazione, l’oceano Pacifico ricongiunge il corpo all’universo e cala il sipario. Restano in dote musiche che rasentano l’indicibile e la consolazione che, come la fenice che cantò, Judee è viva più che mai.