Amerykah (Badu) oggi

Nell’odierno marasma discografico trovo che la parola “capolavoro” sia spesso usata in modo un po’ affrettato. Tranne alcuni casi – per forza di cose rari – che si raccontano subito eclatanti, in un panorama così assurdamente frammentato e spezzettato viene da pensare che il sostantivo forse vada ridefinito. Mentre ci riflettiamo, vi dico che per me significa qualcosa che tasta il polso al qui e ora restando fresco nei decenni e fungendo da riferimento per le generazioni a venire. Ma siccome a volte le eccezioni confermano la regola, può darsi che, malgrado la bellezza e la genialità, un classico ci metta parecchio a rivelarsi influente oppure non faccia proseliti.

Tutt’altro che disprezzabile, comunque, la condizione di fascinoso solitario senza colpa, considerando quanti mediocri saltano sul carro del vincitore, e nel caso vi servisse un esempio, eccoci al punto: nel 2008 la (in tutti i sensi…) conturbante Erykah Badu pubblicava New Amerykah, Pt. 1: 4th World War. Un disco che lasciava perplessi per la manciata di ascolti necessari a trovare chiavi di accesso e di lettura e che poi cresceva in un climax di intelligenza e comunicativa fino a centrare i piani alti nella classifica di “Billboard”. Da quei giorni, in ogni caso, sembra caduto nel vuoto: vuoi perché il seguito New Amerykah, Pt. 2: Return Of The Ankhera buono ma un filo troppo astratto, vuoi perché la ragazza – si fa per dire: cinquantadue primavere il prossimo 26 febbraio – ha mantenuto un abituale basso profilo.

Anche qui nulla di male, a fronte dei bulimici che sputano un dischetto al mese, ma del resto Erykah sa il fatto suo. Eventuali scettici considerino l’esordiente salutata da nuova Billie Holiday in ragione di un album con il necessario per invaghirsi a vita: groove, voce languida e melanconicamente seducente, un’autrice di vaglia. Le classifiche premiarono adeguatamente Baduizm, stiloso tetto sotto il quale trovi il contrabbassista jazz Ron Carter e i Roots, così che la fanciulla di Dallas ha potuto prendersi tempo e agio per gestire una carriera inappuntabile. Dopo Mama’s Gun e il chilometrico E.P. Worldwide Underground, convincenti e usciti tra 2000 e 2003, seguiva un lustro di silenzio.

Un periodo speso a meditare sullo Stato dell’Unione, su guerre in paesi che la gran parte dei suoi concittadini non trova sul mappamondo, sull’uragano Katrina, sulla dipartita di quel gran genio dell’amico J Dilla. Ne derivava New Amerykah, Pt. 1: 4th World War, pamphlet critico e umanista di profonda passione e parole scagliate come sassi che tornano indietro riportando pezzi del bersaglio che hanno colpito. Parole di una nazione che dice “No!” come in un What’s Going On moderno e consapevole dell’evoluzione dei linguaggi cui è affidato. La Nuova Amerykah tratta argomenti pesanti ricorrendo a un’estetica personale che attinge dalla musica nera d’avanguardia sistemando Shafiq Husayn, Madlib e un Thundercat non ancora sulla cresta dell’onda accanto al team che sin dall’inizio accompagna la Badu.

Lo senti forte e chiaro già in una copertina smaccatamente funkadelica che stavolta l’aria è diversa. Da bravi afrofuturisti, si viaggia attraverso il tempo e lo spazio costruendo ipotesi di attualità con cascami del passato e non è forse la tradizione ricontestualizzata uno dei pilastri dell’hip-hop? Tutto quadra, in primis le urgenze espressive accoppiate all’ampiezza della visione, alla conoscenza della Storia, alle speranze e ai sogni di un popolo. Anche per questo tessiture complesse si snodano disinvolte dall’incipit Amerykahn Promise, che sbuca da Mothership Connection tra fiati tellurici, vocine satiriche e atmosfera sci-fi, fino al (quasi) conclusivo, struggente e atmosferico soul cosmico in jazz di Telephone, cioè lo Stevie Wonder dei ’70 accompagnato dai Portishead.

Nel mezzo, di tutto e di più: battute dopate al gusto dub (The Healer/Hip Hop) o piovute da remoti angoli dell’universo (Twinkle, My People), florilegi fiatistici e fraseggi vocali messi a nuovo (Master Teacher, Me), aggiornamenti di rhythm’n’blues (Soldier), cyberfunk sbilenco però orecchiabile con finale a cappella (The Cell). Ti imbatti in saggi di hip-hop progressista, trame ricche ma bilanciate, intarsi produttivi e perspicacia dell’insieme e, a ribadire il senso di accurata progettualità, un hip-soul di classe come Honey viene sistemato in coda a mo’ di arcobaleno dopo la tempesta. Ora come allora, l’anima latita nel soul odierno se non è di valenti revivalisti e vecchi leoni che parliamo. Qui, invece, il gioco ha un altro nome: un nome che appartiene al classico capolavoro che cresce negli anni. Black is beautiful, oggi più che mai.

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La musica del caso: Waeve

A un certo punto del proprio percorso può capitare di avvertire il bisogno di voltare pagina. Insegna David Bowie che i ch-ch-ch-changes sono il sale della vita, a maggior ragione se gran parte del pubblico – ma anche certa critica rigida, quando non dotata di paraocchi – ti ricorda per un fenomeno bruciatosi in un biennio. Importante, chi lo nega, ma di certo la tua identità artistica non finisce né inizia con le risibili rivalità con gli Oasis o con lo spirito celebrativo del Brit-pop. Da vero signore, Graham Coxon preferisce aggirare faccende del genere con sorridente benevolenza e anche per questo merita un applauso. Poi – prima, in realtà – ne ottiene un copioso scroscio per aver aiutato le cose ad accadere in maniera spontanea.

Questi a farla breve i presupposti del progetto The Waeve (da pronunciare wave) allestito nel dicembre 2020 con Rose Elinor Dougall. In un momentaccio nel quale stava affrontando gli strascichi della pandemia, un matrimonio in frantumi e il ritorno a Londra, Graham si imbatteva nell’ex componente delle Pipettes, da qualche tempo attiva in veste solista, una parola tirava l’altra e nasceva l’idea di scrivere insieme per vedere che effetto avrebbe fatto. Il dialogo iniziava dallo scambio reciproco di canzoni altrui e delle rispettive esistenze mentre i Nostri scoprivano di volersi parecchio bene. Una bella storia, insomma, e non è per caso che la creatività abbia preso a fluire rapida, sfociando in un album che rappresenta la cosa migliore offerta da Coxon fuori dai Blur. Da par suo, Rose – impegnata a microfono e tastiere – contribuisce eccome a qualcosa che, per i motivi sopra esposti, va oltre la somma dei singoli elementi.

In realtà, The Waeve coglie impreparati se dei Blur si considera soltanto l’aspetto pop, scordandosi l’anima sperimentale e la curiosità che stanno a monte di meraviglie come l’album omonimo e 13. Mai come in questo caso fermarsi lì significa sminuire la voglia di mettersi costantemente in discussione che ha reso grande il quartetto e che emerge cristallina anche in questo frangente. Non avendo nulla da perdere né da dimostrare, la coppia impasta un pop d’autore “trasversale” con il dopo punk e i suoi predecessori glam e progressisti, con il folk e l’elettronica e il post-rock, fino a ottenere un’ossatura di riferimenti sulla quale gioca di mescolanza e tensione, razionalità e istinto, passato e presente.

Se vi pare poco, passate pure oltre. Sappiate tuttavia che, così facendo, vi perderete gioielli della caratura di Over And Over e Alone And Free (un giovane Brian Eno tra i solchi del White Album?), Can I Call You (kraut-wave finemente cesellata che parte meditativa per accendersi all’improvviso), Drowning e Undine (grossomodo: Scott Walker che produce Laetitia Sadier). Se Someone Up There e Kill Me Again filtrano alla luce della maturità quel fantastico frullato di tre decenni abbondanti di inglesità – e non solo… – in musica, All Along scardina una ballata con stridori e indolenza, la vetrosa Sleepwalking maneggia melodie oblique e arguzia strutturale tra Roxy Music e Stereolab e You’re All I Want To Know srotola un soul bianco à la Lennon che non disdegna le ombre. Splendore che ci auguriamo non rimanga isolato, The Waeve prenota con autorevolezza un posto tra i dischi dell’anno. Di nuovo, applausi.