A un certo punto del proprio percorso può capitare di avvertire il bisogno di voltare pagina. Insegna David Bowie che i ch-ch-ch-changes sono il sale della vita, a maggior ragione se gran parte del pubblico – ma anche certa critica rigida, quando non dotata di paraocchi – ti ricorda per un fenomeno bruciatosi in un biennio. Importante, chi lo nega, ma di certo la tua identità artistica non finisce né inizia con le risibili rivalità con gli Oasis o con lo spirito celebrativo del Brit-pop. Da vero signore, Graham Coxon preferisce aggirare faccende del genere con sorridente benevolenza e anche per questo merita un applauso. Poi – prima, in realtà – ne ottiene un copioso scroscio per aver aiutato le cose ad accadere in maniera spontanea.
Questi a farla breve i presupposti del progetto The Waeve (da pronunciare wave) allestito nel dicembre 2020 con Rose Elinor Dougall. In un momentaccio nel quale stava affrontando gli strascichi della pandemia, un matrimonio in frantumi e il ritorno a Londra, Graham si imbatteva nell’ex componente delle Pipettes, da qualche tempo attiva in veste solista, una parola tirava l’altra e nasceva l’idea di scrivere insieme per vedere che effetto avrebbe fatto. Il dialogo iniziava dallo scambio reciproco di canzoni altrui e delle rispettive esistenze mentre i Nostri scoprivano di volersi parecchio bene. Una bella storia, insomma, e non è per caso che la creatività abbia preso a fluire rapida, sfociando in un album che rappresenta la cosa migliore offerta da Coxon fuori dai Blur. Da par suo, Rose – impegnata a microfono e tastiere – contribuisce eccome a qualcosa che, per i motivi sopra esposti, va oltre la somma dei singoli elementi.

In realtà, The Waeve coglie impreparati se dei Blur si considera soltanto l’aspetto pop, scordandosi l’anima sperimentale e la curiosità che stanno a monte di meraviglie come l’album omonimo e 13. Mai come in questo caso fermarsi lì significa sminuire la voglia di mettersi costantemente in discussione che ha reso grande il quartetto e che emerge cristallina anche in questo frangente. Non avendo nulla da perdere né da dimostrare, la coppia impasta un pop d’autore “trasversale” con il dopo punk e i suoi predecessori glam e progressisti, con il folk e l’elettronica e il post-rock, fino a ottenere un’ossatura di riferimenti sulla quale gioca di mescolanza e tensione, razionalità e istinto, passato e presente.
Se vi pare poco, passate pure oltre. Sappiate tuttavia che, così facendo, vi perderete gioielli della caratura di Over And Over e Alone And Free (un giovane Brian Eno tra i solchi del White Album?), Can I Call You (kraut-wave finemente cesellata che parte meditativa per accendersi all’improvviso), Drowning e Undine (grossomodo: Scott Walker che produce Laetitia Sadier). Se Someone Up There e Kill Me Again filtrano alla luce della maturità quel fantastico frullato di tre decenni abbondanti di inglesità – e non solo… – in musica, All Along scardina una ballata con stridori e indolenza, la vetrosa Sleepwalking maneggia melodie oblique e arguzia strutturale tra Roxy Music e Stereolab e You’re All I Want To Know srotola un soul bianco à la Lennon che non disdegna le ombre. Splendore che ci auguriamo non rimanga isolato, The Waeve prenota con autorevolezza un posto tra i dischi dell’anno. Di nuovo, applausi.