Ipotesi di psichedelia mutante: Index For Working Musik

Potessi ricevere un biglietto da dieci per tutte le volte che l’ho scritto e detto, prenderei in seria considerazione la pensione anticipata: prima che un genere, la psichedelia è uno stato mentale. Un’attitudine applicata all’arte rock, se preferite, il che ne spiega il continuo ricorrere nella storia e, soprattutto, una condizione di mutaforma che si adatta allo scorrere del tempo restando indenne alle mode. Potete declinarla con le chitarre, con l’elettronica o con un misto di entrambe; potete smarrirvi felici e beati lungo spirali soniche oppure danzare fino oltre l’alba. La differenza è di natura formale, poiché lo spirito di totale liberazione dionisiaca scorre in voi e in ciò che state ascoltando.

Di conseguenza, mi accosto con curiosità a chi si cimenta intelligentemente con stili che puntano a espandere la mente, o magari a farla implodere come i britannici Index For Working Musik, allestiti nel 2019 da membri di Toy, DRIFT e Proper Ornaments. Ragioni sulle parole “Inghilterra” e “psichedelia” e subito pensi ad atmosfere da favola lisergica e/o da paese dei balocchi disturbato: scordatevi tutto questo, ché Max Oscarnold, Nathalia Bruno, Bobby Voltaire, E. Smith e J. Loftus preferiscono affidarsi a un torpore che ricorda i Pavement e Beck, immaginare versioni alternative di Swell Maps e Television Personalities e imbottire i Clinic e Marc Bolan di sedativi. Interessante, eh?

In realtà il progetto risulta difficile da catalogare con precisione per il modo sottile con il quale congiunge i suddetti riferimenti a certe pagine stralunate del guitar-pop “C86” e all’inevitabile eco dei Velvet Underground e del post-punk, pur senza fermarsi lì. Con la giusta dose di estro e personalità, la band getta nel calderone un’indolenza sospesa tra sogno e incubo, registrazioni sul campo ed elettronica appropriatamente caliginosa. Ne deriva una ricetta minimalista però curata all’insegna di una pigrizia allucinogena che avvolge dentro le sue spire tramite un cantato dal fascino ambiguo che ricorda non poco Paul Roland, corde ruvide e tintinnanti, schegge di violoncello e circolarità, stratificazioni e ronzii…

Volendo a ogni costo escogitare una definizione, post-psichedelia impressionista potrebbe quasi avere senso, benché l’alone di mistero che circonda la mezz’ora e spicci di Dragging The Needlework For The Kids At Uphole scompigli di continuo le carte. Basta poco per scoprirsi dipendenti da una torpida Wagner dove Syd Barrett si crede Lou Reed, dal blues alla codeina Railroad Bulls e da una Athletes Of Exile di romanticismo splendido e malaticcio. Faccende favolose al pari di Isis Beatles (la Beta Band in uno scantinato), di Palangana (gli Air che ospitano Bolan), della filastrocca Ambiguous Fauna, delle 1871 e Chains che avrebbero fatto un figurone in Wowee Zowee e dell’acid-folk Habanita, che scivola via dalle pieghe di Mellow Gold. Tralasciando un paio di bozzetti che fungono da raccordo, ho citato la scaletta per intero ed è sempre un buonissimo segno. Vedi alla voce: dischi dell’anno e dove trovarli.

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Brividi e mal di pancia in pillole, 7

Meg Baird – Furling (Drag City)

Dicono che l’apparenza inganni. Proverbio che calza a pennello per Meg Baird, in carniere tre album solisti scanditi lungo un quindicennio e nondimeno iperattiva e istintuale sin dai tempi dei magici Espers. Da allora, eccola alle prese con uno splendido hard rock folkedelico negli Heron Oblivion e collaborare con Mary Lattimore, Will Oldham, Steve Gunn e altri nomi importanti. Di conseguenza, nel turbine professionale di tempo per sé Meg ne ha poco ma lo spende benissimo. Non fa eccezione Furling, composto lavorando attorno alle passioni musicali e a ciò che si portano dietro e dentro. Soprattutto memorie, sogni a occhi aperti, una percezione della realtà dove il mistero e l’inspiegabile generano visioni.

L’artista è un mezzo per veicolarle e non si pone limiti, ché a temprare l’eclettismo contribuiscono l’armonia di chi balla da sola (quasi: c’è anche il compagno di vita e scorribande sonore Charlie Saufley), la sicurezza di mezzi, un folk-rock acidulo dalle atmosfere sognati non prive di stridori. Tutto secondo copione, non fosse la scrittura brillante da segnare uno scarto sui precedenti dischi della Baird: lo certificano i Mazzy Star che guardano ai Pink Floyd dei primi ’70 di Ashes, Ashes, un’accorata però lieve The Saddest Verses, la pianistica Wreathing Days, l’ombrosa e dolente Ship Captains, l’epidermica Will You Follow Me Home?, il Fred Neil reincarnatosi Shelagh McDonald di Twelve Saints. Non da meno il resto della scaletta, tra le mani abbiamo una raccolta di malinconiche polaroid perfette per l’inverno.

Robert Forster – The Candle And The Flame (Tapete)

Che puoi fare quando scopri che la persona al tuo fianco da trentadue anni ha il cancro? Oltre a prendertene cura, se il tuo mestiere è il songwriter cerchi di esorcizzare la cosa attraverso le canzoni. E non fa nulla se in gran parte sono state scritte prima, perché il significato finisce per ricadere sul vissuto, che tu lo voglia o meno. Così è stato per Robert Forster, che apre il nuovo album celebrando chi ha lottato in una She’s A Fighter che, malinconica però pure speranzosa, riporta le lancette ai Go-Betweens di fine ‘80 sulle ali di una diversa maturità, artistica e umana. Ed è l’ultimo brano – questo sì, esplicito – composto per un disco che si spinge oltre la musica quanto a premesse, realizzazione ed esito.

Perché è stato registrato a Brisbane nei momenti in cui la moglie di Robert, Karin Bäumler, si trovava nelle condizioni di poter suonare e perché le session sono state un affare di famiglia e di amici. Questo spiega l’arredo minimalista e sottolinea i toni più che mai accorati e vibranti del pezzo di cui sopra, inciso da Forster, Karin e i figli seduti in cerchio, legati dal sangue. Lo stesso dicasi per l’intero lavoro, succinto quanto profondo saggio di scrittura elegante e intensa con ulteriori apici nei folk-rock modernisti Always e Tender Years, in una sublime The Roads, nella meditativa When I Was A Young Man, nella sfoglia elettroacustica There’s A Reason To Live. La fiamma, qui, non brucia nessuna candela, ma mantiene accesa la speranza e onora il valore inestimabile della vita.  

Nightshift – Made Of The Earth (Trouble In Mind)

Appena il tempo di annotare per l’ennesima volta che nel contemporaneo marasma di pubblicazioni ci stiamo di certo e comunque perdendo qualcosa di eccitante, che il podcast The Tuesday Tapes di Fabio De Luca mi svela l’esistenza dei Nightshift. Formatosi nel sottobosco indipendente di Glasgow durante l’estate 2019, il quartetto si definisce un “ensemble audio multidirezionale”, in bacheca ha altri due album e lo scorso novembre ha recapitato un ultimo dispaccio della sua prima incarnazione affiancando inediti e brani pescati qui e là in modo coeso. A tenerli insieme è loo spirito felicemente naif che affronta la materia post-punk schivando i cliché e le fotocopie, intrecciando suggestioni diverse e avvalendosi di una scrittura superiore alla media.

Alla fine, la mistura di new wave, indie rock, folk, funk e sperimentazione suggerisce svariati riferimenti pur sfociando sempre in qualcosa di – relativamente, dati i tempi – personale. Hologram e Horseshoe dipanano groove irresistibili tra organico e sintetico lungo panorami esotici, Flower declina folkedelia in chiave “C86”, Supermarket si sistema tra Slits e Au Pairs e la traccia omonima è un raga minimale. Mica finita, perché in Locked Out i Tunng credono di essere gli Young Marble Giants e le Raincoats li imitano con le ESG per Trousers, Souvenir catapulta Nico nel terzo millennio e The Painting You Live With immagina dei Sonic Youth malinconicamente folk. Un gioiellino, Made Of The Earth ha come unico difetto una disponibilità che prevede solo cassetta e formato liquido. O tempora

Yo La Tengo – This Stupid World (Matador)

Di tutte le leggende, quella legata alla fonte della giovinezza è tra le più solide. Il mito originale vuole che le sorgenti si trovino nel giardino dell’Eden, tuttavia, dopo che Colombo ha scoperto che oltre l’Atlantico c’era terra, a lungo si è creduto che fossero in Florida. A proposito di America e credenze pop(olari), quando pronunci “Yo La Tengo” nell’aria risuona una formula che evoca l’indie rock a stelle e strisce più prezioso. Quello che vanta infiniti tentativi di imitazione e nei decenni è assurto al rango di classico, com’è giusto per un artigianato all’insegna di passione e perfezione, di urgenza e autorità.

E, nel caso specifico del nuovo album This Stupid World – prodotto dal gruppo, le basi incise per lo più in presa diretta – di un riassunto di carriera all’insegna di atmosfere sperimentali, ritrovato vigore e melodie avvolte in gusci di chitarre elettriche che scintillano ruggine come polvere d’oro. Qualcosa che possiede la grazia decisa delle ballerine di danza classica: muscoli tesi, nervi che scattano, movenze leggiadre ma risolute che sanno gestire ogni sfumatura. Gioielli come una sferragliante Fallout, la sfoglia emotiva alla Velvet Underground Aselestine, la favolosa psichedelia rumorista a passo motorik di Sinatra Drive Breakdown, una sinuosa Until It Happens e il vaporoso, dilatato post-shoegaze Miles Away li vorresti sentire da giovanotti all’esordio, tuttavia a offrirteli è un trio di sessanta-e-qualcosa. E se la fonte dell’eterna giovinezza si nascondesse nel New Jersey?