Tutti gli articoli di Giancarlo Turra

Sono nato nell'anno in cui si sono sciolti i Beatles e vivo a Brescia. Da quando ero sedicenne, la musica è una ragione di vita e una passione sconfinata. Per alcuni anni ho scritto per le riviste "Il Mucchio" ed "Extra". Ho partecipato con altri tre amici e colleghi al volume "1000 dischi fondamentali" pubblicato da Giunti nel 2012 e al successivo "1000 dischi fondamentali più cento di culto", edito sempre da Giunti nel 2019. Nel 2016 ho contribuito allo speciale sui Cure per "Classic Rock". Benvenuti sul mio blog...

Scavando(si) nell’anima: Daniel Blumberg

Fatto numero uno: Daniel Blumberg – classe 1990 da Londra – è un iperattivo, e in quanto tale dà un senso al suo passaggio nel mondo impegnandosi in progetti di diversa natura. Fatto numero due: come molti prima di lui, non per caso è abilissimo sia con le note che con le immagini e i colori. Fatto numero tre: è un esempio unico di (post) songwriter che pubblica soltanto quando ha cose rilevanti da dire. A proposito di arti figurative, provate a immaginare le annotazioni di cui sopra come delle linee un po’ irregolari intersecate tra loro, poi ampliate la prospettiva per mappare un territorio nel quale è bellissimo perdersi. Nel frattempo, urge riassumere di quanto ha preceduto il nuovo album GUT: appena maggiorenne, il ragazzo si cimenta con l’indie pop nei Cajun Dance Party, dandosi un triennio più tardi allo shoegaze tramite gli Yuck e dopo un primo LP al pianoforte dietro lo pseudonimo Oupa; altro giro, altro paravento: facendosi chiamare Hebronix, Daniel imbraccia la chitarra inseguendo Neil Young con la supervisione di Neil Michael Hagerty.

L’ennesima svolta conduce al londinese Cafe Oto e alla improv indagata con il violinista Billy Steiger, Tom Wheatley al contrabbasso e Jim White dei Dirty Three dietro la batteria. Aggiungete un’affermata carriera nel disegno e la collaborazione con il sassofonista Seymour Wright ed eccoci. Il compendio è utile per comprendere in pieno la maturità di chi, accasatosi alla Mute, nel 2018 infine decide di metterci faccia e nome, offrendo con gli amici dell’Oto il capolavoro cantautorale dello scorso decennio. Tirando le fila delle esperienze precedenti, Minus appoggia melodie in transito dal sofferto all’avvolgente e ritorno su strutture che, imitandole, lavorano con una distensione meditativa, con il rumore organizzato e con le possibili sfumature intermedie. Pensate a un Mark Hollis con in tasca il santino di On The Beach, che tiene conto dello slowcore, della lezione di Will Oldham, Bill Callahan, Mark Linkous e degli stessi Dirty Three, però infilando nel discorso richiami a Cave e a Cohen, carole folk-pop, estasi mascherate da tormenti e viceversa.

Splendore replicato nel 2020 da On&On, dove l’assenza dell’effetto sorpresa è bilanciata da un fresco classicismo, da un po’ di luce che riesce a filtrare dalle finestre e da una scrittura sempre appassionata. Lì la chiave di volta dell’universo di Daniel: mettersi in discussione e in mostra con disarmante franchezza. Quella di chi ha costruito il debutto da solista sui frantumi di un cuore e una mente da ricomporre; di chi vuole fortissimamente arrivare alle nostre anime racchiudendo lo spirito del passato in forme contemporanee. Conferma della statura artistica del Nostro, GUT vede ancora l’autobiografia in primo piano fin da un titolo (“viscere”) legato alla malattia che di recente lo ha afflitto e, mi piace credere, anche al coraggio che occorre a ognuno per affrontare la quotidianità.

Si spiegano così atmosfere e suoni asciugati all’osso di un unicum cui funge da parziale correlativo un video di Brady Corbet dove il mettersi a nudo è, oltre che emotivo, significativamente e letteralmente materico. Tornando alla musica, nella perfetta solitudine Daniel consegna un Music For A New Society come l’avrebbe concepito Scott Walker, poco più di mezz’ora intrisa di umori introspettivi che accentua il minimalismo e approda al field recording dello scavo di un’anima. A un ostico ma calibrato gioco di chiaroscuri, spigoli e astrattismo che porge rintocchi di tasti e lame d’armonica, sferzanti sprazzi melodici e scheletri dolenti, ombre inquiete ma soprattutto inquietanti e ipotesi post-industriali di folk. Applausi sinceri, ché se Minus e On&On rimangono ineguagliati, nessuno oggi vanta l’audacia, la chiarezza di idee e la profondità di un inclassificabile trenta-e-qualcosa che, con estrema e invidiabile abilità, gira intorno alla favolosa cifra stilistica che ha scolpito. Complimento migliore non esiste per un maestro di ciò che una volta chiamavamo canzone d’autore.  

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Ritorno a Murder Park: Auteurs

A volte gli altri si fanno un’idea sbagliata di noi. Può dipendere da svariati motivi: una corazza che abbiamo costruito per proteggerci da ferite passate, la frattura tra pensiero ed espressione della quale cantava Lou Reed, una condizione così particolare che la maggior parte della gente fatica a cogliere. Ecco: se l’uomo e l’artista in parte coincidono, per quel geniaccio di Luke Haines credo valga l’ultima ipotesi. Se in questi anni, oltre che averne la massima stima, sono riuscito nei limiti del possibile a capirlo, è nella categoria dei sognatori cinici che va inserito, accanto a gente come John Cale e Matt Johnson.

Se proprio bisogna incasellarlo, intendiamoci. La critica più attenta e una cerchia di fedelissimi ai suoi piedi, a Luke è mancato solo il successo. In piena onda Britpop gli Auteurs non erano secondi a nessuno ma rimasero schiacciati tra Blur, Oasis e Pulp; medesima sorte nel decennio precedente per i Servants nonostante uno scintillante guitar-pop alla Smiths. Forse, che accada per vocazione o destino, qualcuno non esce da un determinato ruolo. In ogni caso, Haines è troppo intelligente per i luoghi comuni ed ecco spiegato un prosieguo di carriera dipanato tra progetti di ottimo livello come Blackbox Recorder, Baader Meinhof e la collaborazione con Peter Buck, per tacer dei dischi solisti, dei volumi di memorie e di ricette…

Non ci si annoia mai con quest’individuo mercuriale e imprendibile e gli eventuali neofiti possono rimediare alla svelta, andando dritti al punto. Ovvero agli Auteurs, omaggiati lo scorso febbraio da Cherry Red con il corposo cofanetto People Round Here Don’t Like To Talk About It. Scopriranno un universo parallelo dove il glam non è mero revival per copisti ma, approfittando del distacco cronologico, si riallaccia contemporaneamente agli anni ‘60 e al post-punk. Scopriranno un songwriter di elevato rango e una discografia immacolata, che raggiunge l’apice nel momento in cui si bussa alla porta di Steve Albini.

Per chi scrive, nel ’95 After Murder Park fu una randellata simile all’incontro con una/o lei/lui che ti travolge come un treno e la successiva frequentazione racconta una vita più bella e piena. Fu un fiasco commerciale, certo, tuttavia si è incastrato nel cuore grazie a un’emotività spigolosa – quale emotività, in fondo, non lo è? – e a un’introspezione che alterna graffi e carezze, oscurità e lampi di chiarore. Un perfetto specchio dell’artefice, insomma, e del resto si trattava del “difficile” (nonché decisivo) terzo album. Prova superata in pieno sullo slancio dei predecessori New Wave e Now I’m A Cowboy, che offrivano personalità e belle canzoni a prescindere dal Britpop mentre il capobanda sterzava facendosi remixare da μ-Ziq e dichiarando che techno e house erano più interessanti della concorrenza.

Anche per questo colse in contropiede la scelta di affidarsi ad Albini per incidere materiale scritto per lo più su una sedia a rotelle, dopo che Luke si era fratturato le caviglie saltando (mai chiarito fino a che punto involontariamente…) giù da un muro. Fatto sta che da Abbey Road esce un capolavoro di culto che fonde gli estremi che lo compongono in qualcosa di superiore: accorata e ispida, armonica e abrasiva, una scaletta impeccabile poggia su arrangiamenti tanto elaborati quanto minimali e sul taglio che Albini conferisce a chitarre e batteria. Solido lo scheletro, archi e fiati rifiniscono, sottolineano e contrappuntano un gusto melodico che nasconde l’alone decadente dentro un’orgogliosa concretezza.

Musica per/da scenari urbani in bianco e nero, nei quali aggirarsi dapprima curiosi e poi sempre più esaltati ma senza abbassare la guardia, tra ipotesi di Go-Betweens che barattano la malinconia con il vigore (Everything You Say Will Destroy You), trasfigurazioni del romanticismo allucinato di Hunky Dory (Child Brides, Unsolved Child Murder, Fear Of Flying) e inni scontrosi che mescolano impeto, strappi emotivi e lustrini (Land Lovers, Married To A Lazy Lover). Se Light Aircraft On Fire e Tombstone accompagnano Peter Perrett dentro l’epoca del grunge, New Brat In Town, Buddha e Dead Sea Navigators si collocano a metà strada tra In Utero e Before Hollywood, laddove il brano omonimo chiude i giochi con grazia mai scontata e dolcezza che flette i muscoli. Una faccenda coraggiosa, After Murder Park, ma soprattutto preziosa. Il genere di disco che si conserva nel tempo e che solo un sognatore cinico può permettersi. Il genere di disco da amare senza “se” e senza “ma”.

I sogni a occhi aperti di Lael Neale

Esistono casi in cui possiamo riconoscere il bagaglio estetico di un artista indagando i luoghi dai quali proviene. Questione di omaggio dichiarato e di ammiccamenti nascosti, di trasfigurazione e di intrecci da districare che, per ovvi motivi, si ingarbugliano con il vissuto. Prendete una come Lael Neale: arrivata a Los Angeles dalla Virginia rurale con il physique du rôle e una manciata di belle speranze, ha faticato a scrollarsi di dosso l’aria da “ragazza di campagna”. La moda del country versione indie-pop non le appartiene e nel 2015 l’esordio I’ll Be Your Man pagava lo scotto di sonorità in tutti i sensi discrete ma dalla scarsa personalità. Lezione imparata e messa a frutto, poiché due interi LP rimanevano nel cassetto essendo la Nostra non persuasa dagli arrangiamenti.

Così ci piacciono le cantautrici: risolute, piene di idee e pervase dal desiderio di mettere anima e vita nell’arte. Già più riuscito, di lì a sei anni Acquainted With Night ostentava il prestigioso marchio Sub Pop, la volontà di crescere con proprie regole e la svolta verso una chiave minimalista lo-fi, trafficando con un Omnichord Suzuki intorno a brani composti dopo il ritorno a casa. Da moderna Emily Dickinson, nella sua cameretta Lael osservava il mondo e se stessa in perfetta solitudine e consegnava un lavoro promettente, dove un’omogeneità che a tratti lambiva la monotonia era riscattata da un ossimoro realizzato di leggerezza profonda e meravigliata.

Quello il terreno di coltura anche del terzo e risolutivo album Star Eaters Delight, un “luogo” sonoro più rigoglioso dove comunque trovate molto altro. Tanto per cominciare, la messa a fuoco di un talento e non è poco coi tempi che corrono. Poi l’evidenza che, in alcune fasi della vita, dobbiamo guardare le cose da lontano per cercarne l’intimo significato e, magari, ricavarne epifanie, scelte felici, direzioni che porteranno altrove. Infine, un disco che con la regia/collaborazione di Guy Blakeslee studia la metropoli alla giusta distanza, insiste sulla comunicatività e sfrutta la sua apparente ritrosia per infilare un gioiello dietro l’altro. Tra efficaci arrangiamenti all’insegna del “meno è più” e un’espressività che conquista emergono canzoni che, scritte con passione e abbigliate con gusto ed equilibrio, vanno ascoltate in modo attento e si prendono il tempo per crescere.

Canzoni come una I Am The River a metà strada tra Suicide e Velvet Underground, come il folk albionico girato new wave Faster Than The Medicine, come una sensazionale In Verona da Spacemen 3 che danzano con Laurie Anderson citando Shakespeare per parlare di altro. Saggi di estro e bravura pescati da una scaletta che scintilla in toto, dalla Nico che si accasa alla Creation per darsi all’elettro-pop della deliziosa Must Be Tears al retrogusto Fifties di una No Holds Barred che vale le cose migliori di Paula Frazer, passando per l’iridescente carola If I Had No Wings, la meditativa Return To Me Now e l’atmosferico commiato Lead Me Blind. Ascolto, riascolto e accantono la cautela che nei confronti dei contemporanei impone giudizi moderati e verifiche sul lungo termine. Preso il cuore in mano, ad alta voce dico che nel cielo è apparsa una nuova stella. Possa brillare a lungo, ché lo merita eccome.

Kult Korner a Silent Radio

Ieri sera , con Tiberio Faedi, abbiamo trasferito alcuni “angoli di culto” di “Turrefazioni” nell’etere, grazie alle frequenze di Silent Radio.

Abbiamo ascoltato – ma soprattutto parlato – di J.K. & Co., Judy Henske e Jerry Yester, Shelagh McDonald, Nick Haeffner, Antena, Pram, .O.Rang, David J, Daniel Johnston, Phantom Band, Index for Working Musik.

Qui potete trovate il link al podcast. Buon ascolto.

The black watch: il culto al quadrato

La musica che amiamo è costellata da vicende e personaggi che definire “bizzarri” è riduttivo. A volte si tratta di un vero e proprio bestiario o, come è il caso di quanto sto per elogiare, di un’autentica Wunderkammer. Prendete John Andrew Frederick, l’arti-genio che dalla fine degli anni Ottanta pubblica con la sigla the black watch – lui vuole che si scriva così: in minuscolo – meraviglie di guitar-pop dalle tinte psichedeliche che, in virtù della solidissima aura di classico che le circonda, non appartengono ad alcuna epoca. Qualcosa che può ricordare allo stesso tempo Guided By Voices e R.E.M., Robyn Hitchcock e Yo La Tengo, Cure e Smiths, la Flying Nun e il post-punk albionico, ma alla fine suona come un a sé che seduce presto e non ti abbandona più.

Chi già è al corrente avrà estratto dagli scaffali lavori che non prendono polvere: quanto a tutti gli altri, spero si siano fiondati immediatamente ad ascoltare e acquistare. I più pigri partano dalle fenomenali raccolte The Vinyl Years: 1988-1993 e 31 Years of Obscurity: The Best of the black watch 1988-2019: il desiderio di saperne di più sarà immediato e consequenziale. Tipico culto con a monte una storia particolare, black watch, del tipo noto a pochi e coccolato dalla critica più attenta. Anzi: un culto al quadrato, siccome fu a un’esibizione dal vivo dei Lucy Show – alzi la mano chi li ricorda… – che Frederick decise di allestire la prima di infinite formazioni. Meno male: da uomo rinascimentale, il Nostro ha in curriculum romanzi e tomi di critica cinematografica, possiede un obliquo senso dell’umorismo – come non voler bene a chi cava dal cilindro trentatré giri intitolati Led Zeppelin Five e Magic Johnson? – e sensibilità e intelligenza rare.

Lettore accanito, John è cresciuto nel decennio favoloso per antonomasia a pane e Beatles imbracciando la chitarra a undici anni, per sconfiggere la noia di mesi trascorsi nel letto con una gamba rotta a causa di un grave incidente sportivo. Poi la vita è andata avanti, finché il laureato in letteratura inglese che insegnava alla University of California di Santa Barbara assisteva a quel concerto e decideva di cambiare vita. Sin dall’inizio, John ha optato per una line-up “fluida” (con la parziale eccezione della polistrumentista J’Anna Jacoby) e per pubblicare in autarchia. Fuori l’esordio sempre nel 1987, da allora – tra autoproduzioni e successive presenze su marchi indipendenti di vaglia – non ha più smesso di inviare missive all’angolo di mondo disposto ad ascoltarlo. Toccata lo scorso marzo quota ventuno (senza contare singoli ed EP), è ora che vi prepariate a fare spazio in casa e vedere il portafoglio sgonfiarsi. Se il (non) genere di riferimento è nelle vostre corde, vi si spalancheranno le porte di un universo magnifico e policromo.

Un mondo parallelo costruito con talento e dedizione, nel quale i Sixties sfociano nella neopsichedelia passando attraverso power pop e new wave. Un’istituzione, Mr. Frederick: eccelso songwriter, conosce il segreto per camminare disinvolto sulla corda tra un ampio spettro emotivo e una ricercata eleganza formale, porgendo canzoni ironiche e malinconiche dove il sole della California è filtrato da qualche nuvoletta. Per non citarne che alcuni, gioielli della caratura di Georgette, Georgette ed Emily, Are You Sleeping?, di To William, My Father, Who Brought Home Books On India e I Don’t Feel The Same, di Moonlight Thru Ivy, The Tennis Playing Poet Roethke Said e Blue Umbrella appartengono al nobile casato che conquista il cuore scansando banalità, cliché e luoghi comuni. Un patrimonio da scoprire, custodire e propagandare, la musica di John Andrew Frederick. Innamoratevene, ché ne vale davvero la pena.

Ipotesi di psichedelia mutante: Index For Working Musik

Potessi ricevere un biglietto da dieci per tutte le volte che l’ho scritto e detto, prenderei in seria considerazione la pensione anticipata: prima che un genere, la psichedelia è uno stato mentale. Un’attitudine applicata all’arte rock, se preferite, il che ne spiega il continuo ricorrere nella storia e, soprattutto, una condizione di mutaforma che si adatta allo scorrere del tempo restando indenne alle mode. Potete declinarla con le chitarre, con l’elettronica o con un misto di entrambe; potete smarrirvi felici e beati lungo spirali soniche oppure danzare fino oltre l’alba. La differenza è di natura formale, poiché lo spirito di totale liberazione dionisiaca scorre in voi e in ciò che state ascoltando.

Di conseguenza, mi accosto con curiosità a chi si cimenta intelligentemente con stili che puntano a espandere la mente, o magari a farla implodere come i britannici Index For Working Musik, allestiti nel 2019 da membri di Toy, DRIFT e Proper Ornaments. Ragioni sulle parole “Inghilterra” e “psichedelia” e subito pensi ad atmosfere da favola lisergica e/o da paese dei balocchi disturbato: scordatevi tutto questo, ché Max Oscarnold, Nathalia Bruno, Bobby Voltaire, E. Smith e J. Loftus preferiscono affidarsi a un torpore che ricorda i Pavement e Beck, immaginare versioni alternative di Swell Maps e Television Personalities e imbottire i Clinic e Marc Bolan di sedativi. Interessante, eh?

In realtà il progetto risulta difficile da catalogare con precisione per il modo sottile con il quale congiunge i suddetti riferimenti a certe pagine stralunate del guitar-pop “C86” e all’inevitabile eco dei Velvet Underground e del post-punk, pur senza fermarsi lì. Con la giusta dose di estro e personalità, la band getta nel calderone un’indolenza sospesa tra sogno e incubo, registrazioni sul campo ed elettronica appropriatamente caliginosa. Ne deriva una ricetta minimalista però curata all’insegna di una pigrizia allucinogena che avvolge dentro le sue spire tramite un cantato dal fascino ambiguo che ricorda non poco Paul Roland, corde ruvide e tintinnanti, schegge di violoncello e circolarità, stratificazioni e ronzii…

Volendo a ogni costo escogitare una definizione, post-psichedelia impressionista potrebbe quasi avere senso, benché l’alone di mistero che circonda la mezz’ora e spicci di Dragging The Needlework For The Kids At Uphole scompigli di continuo le carte. Basta poco per scoprirsi dipendenti da una torpida Wagner dove Syd Barrett si crede Lou Reed, dal blues alla codeina Railroad Bulls e da una Athletes Of Exile di romanticismo splendido e malaticcio. Faccende favolose al pari di Isis Beatles (la Beta Band in uno scantinato), di Palangana (gli Air che ospitano Bolan), della filastrocca Ambiguous Fauna, delle 1871 e Chains che avrebbero fatto un figurone in Wowee Zowee e dell’acid-folk Habanita, che scivola via dalle pieghe di Mellow Gold. Tralasciando un paio di bozzetti che fungono da raccordo, ho citato la scaletta per intero ed è sempre un buonissimo segno. Vedi alla voce: dischi dell’anno e dove trovarli.

Brividi e mal di pancia in pillole, 7

Meg Baird – Furling (Drag City)

Dicono che l’apparenza inganni. Proverbio che calza a pennello per Meg Baird, in carniere tre album solisti scanditi lungo un quindicennio e nondimeno iperattiva e istintuale sin dai tempi dei magici Espers. Da allora, eccola alle prese con uno splendido hard rock folkedelico negli Heron Oblivion e collaborare con Mary Lattimore, Will Oldham, Steve Gunn e altri nomi importanti. Di conseguenza, nel turbine professionale di tempo per sé Meg ne ha poco ma lo spende benissimo. Non fa eccezione Furling, composto lavorando attorno alle passioni musicali e a ciò che si portano dietro e dentro. Soprattutto memorie, sogni a occhi aperti, una percezione della realtà dove il mistero e l’inspiegabile generano visioni.

L’artista è un mezzo per veicolarle e non si pone limiti, ché a temprare l’eclettismo contribuiscono l’armonia di chi balla da sola (quasi: c’è anche il compagno di vita e scorribande sonore Charlie Saufley), la sicurezza di mezzi, un folk-rock acidulo dalle atmosfere sognati non prive di stridori. Tutto secondo copione, non fosse la scrittura brillante da segnare uno scarto sui precedenti dischi della Baird: lo certificano i Mazzy Star che guardano ai Pink Floyd dei primi ’70 di Ashes, Ashes, un’accorata però lieve The Saddest Verses, la pianistica Wreathing Days, l’ombrosa e dolente Ship Captains, l’epidermica Will You Follow Me Home?, il Fred Neil reincarnatosi Shelagh McDonald di Twelve Saints. Non da meno il resto della scaletta, tra le mani abbiamo una raccolta di malinconiche polaroid perfette per l’inverno.

Robert Forster – The Candle And The Flame (Tapete)

Che puoi fare quando scopri che la persona al tuo fianco da trentadue anni ha il cancro? Oltre a prendertene cura, se il tuo mestiere è il songwriter cerchi di esorcizzare la cosa attraverso le canzoni. E non fa nulla se in gran parte sono state scritte prima, perché il significato finisce per ricadere sul vissuto, che tu lo voglia o meno. Così è stato per Robert Forster, che apre il nuovo album celebrando chi ha lottato in una She’s A Fighter che, malinconica però pure speranzosa, riporta le lancette ai Go-Betweens di fine ‘80 sulle ali di una diversa maturità, artistica e umana. Ed è l’ultimo brano – questo sì, esplicito – composto per un disco che si spinge oltre la musica quanto a premesse, realizzazione ed esito.

Perché è stato registrato a Brisbane nei momenti in cui la moglie di Robert, Karin Bäumler, si trovava nelle condizioni di poter suonare e perché le session sono state un affare di famiglia e di amici. Questo spiega l’arredo minimalista e sottolinea i toni più che mai accorati e vibranti del pezzo di cui sopra, inciso da Forster, Karin e i figli seduti in cerchio, legati dal sangue. Lo stesso dicasi per l’intero lavoro, succinto quanto profondo saggio di scrittura elegante e intensa con ulteriori apici nei folk-rock modernisti Always e Tender Years, in una sublime The Roads, nella meditativa When I Was A Young Man, nella sfoglia elettroacustica There’s A Reason To Live. La fiamma, qui, non brucia nessuna candela, ma mantiene accesa la speranza e onora il valore inestimabile della vita.  

Nightshift – Made Of The Earth (Trouble In Mind)

Appena il tempo di annotare per l’ennesima volta che nel contemporaneo marasma di pubblicazioni ci stiamo di certo e comunque perdendo qualcosa di eccitante, che il podcast The Tuesday Tapes di Fabio De Luca mi svela l’esistenza dei Nightshift. Formatosi nel sottobosco indipendente di Glasgow durante l’estate 2019, il quartetto si definisce un “ensemble audio multidirezionale”, in bacheca ha altri due album e lo scorso novembre ha recapitato un ultimo dispaccio della sua prima incarnazione affiancando inediti e brani pescati qui e là in modo coeso. A tenerli insieme è loo spirito felicemente naif che affronta la materia post-punk schivando i cliché e le fotocopie, intrecciando suggestioni diverse e avvalendosi di una scrittura superiore alla media.

Alla fine, la mistura di new wave, indie rock, folk, funk e sperimentazione suggerisce svariati riferimenti pur sfociando sempre in qualcosa di – relativamente, dati i tempi – personale. Hologram e Horseshoe dipanano groove irresistibili tra organico e sintetico lungo panorami esotici, Flower declina folkedelia in chiave “C86”, Supermarket si sistema tra Slits e Au Pairs e la traccia omonima è un raga minimale. Mica finita, perché in Locked Out i Tunng credono di essere gli Young Marble Giants e le Raincoats li imitano con le ESG per Trousers, Souvenir catapulta Nico nel terzo millennio e The Painting You Live With immagina dei Sonic Youth malinconicamente folk. Un gioiellino, Made Of The Earth ha come unico difetto una disponibilità che prevede solo cassetta e formato liquido. O tempora

Yo La Tengo – This Stupid World (Matador)

Di tutte le leggende, quella legata alla fonte della giovinezza è tra le più solide. Il mito originale vuole che le sorgenti si trovino nel giardino dell’Eden, tuttavia, dopo che Colombo ha scoperto che oltre l’Atlantico c’era terra, a lungo si è creduto che fossero in Florida. A proposito di America e credenze pop(olari), quando pronunci “Yo La Tengo” nell’aria risuona una formula che evoca l’indie rock a stelle e strisce più prezioso. Quello che vanta infiniti tentativi di imitazione e nei decenni è assurto al rango di classico, com’è giusto per un artigianato all’insegna di passione e perfezione, di urgenza e autorità.

E, nel caso specifico del nuovo album This Stupid World – prodotto dal gruppo, le basi incise per lo più in presa diretta – di un riassunto di carriera all’insegna di atmosfere sperimentali, ritrovato vigore e melodie avvolte in gusci di chitarre elettriche che scintillano ruggine come polvere d’oro. Qualcosa che possiede la grazia decisa delle ballerine di danza classica: muscoli tesi, nervi che scattano, movenze leggiadre ma risolute che sanno gestire ogni sfumatura. Gioielli come una sferragliante Fallout, la sfoglia emotiva alla Velvet Underground Aselestine, la favolosa psichedelia rumorista a passo motorik di Sinatra Drive Breakdown, una sinuosa Until It Happens e il vaporoso, dilatato post-shoegaze Miles Away li vorresti sentire da giovanotti all’esordio, tuttavia a offrirteli è un trio di sessanta-e-qualcosa. E se la fonte dell’eterna giovinezza si nascondesse nel New Jersey?

Amerykah (Badu) oggi

Nell’odierno marasma discografico trovo che la parola “capolavoro” sia spesso usata in modo un po’ affrettato. Tranne alcuni casi – per forza di cose rari – che si raccontano subito eclatanti, in un panorama così assurdamente frammentato e spezzettato viene da pensare che il sostantivo forse vada ridefinito. Mentre ci riflettiamo, vi dico che per me significa qualcosa che tasta il polso al qui e ora restando fresco nei decenni e fungendo da riferimento per le generazioni a venire. Ma siccome a volte le eccezioni confermano la regola, può darsi che, malgrado la bellezza e la genialità, un classico ci metta parecchio a rivelarsi influente oppure non faccia proseliti.

Tutt’altro che disprezzabile, comunque, la condizione di fascinoso solitario senza colpa, considerando quanti mediocri saltano sul carro del vincitore, e nel caso vi servisse un esempio, eccoci al punto: nel 2008 la (in tutti i sensi…) conturbante Erykah Badu pubblicava New Amerykah, Pt. 1: 4th World War. Un disco che lasciava perplessi per la manciata di ascolti necessari a trovare chiavi di accesso e di lettura e che poi cresceva in un climax di intelligenza e comunicativa fino a centrare i piani alti nella classifica di “Billboard”. Da quei giorni, in ogni caso, sembra caduto nel vuoto: vuoi perché il seguito New Amerykah, Pt. 2: Return Of The Ankhera buono ma un filo troppo astratto, vuoi perché la ragazza – si fa per dire: cinquantadue primavere il prossimo 26 febbraio – ha mantenuto un abituale basso profilo.

Anche qui nulla di male, a fronte dei bulimici che sputano un dischetto al mese, ma del resto Erykah sa il fatto suo. Eventuali scettici considerino l’esordiente salutata da nuova Billie Holiday in ragione di un album con il necessario per invaghirsi a vita: groove, voce languida e melanconicamente seducente, un’autrice di vaglia. Le classifiche premiarono adeguatamente Baduizm, stiloso tetto sotto il quale trovi il contrabbassista jazz Ron Carter e i Roots, così che la fanciulla di Dallas ha potuto prendersi tempo e agio per gestire una carriera inappuntabile. Dopo Mama’s Gun e il chilometrico E.P. Worldwide Underground, convincenti e usciti tra 2000 e 2003, seguiva un lustro di silenzio.

Un periodo speso a meditare sullo Stato dell’Unione, su guerre in paesi che la gran parte dei suoi concittadini non trova sul mappamondo, sull’uragano Katrina, sulla dipartita di quel gran genio dell’amico J Dilla. Ne derivava New Amerykah, Pt. 1: 4th World War, pamphlet critico e umanista di profonda passione e parole scagliate come sassi che tornano indietro riportando pezzi del bersaglio che hanno colpito. Parole di una nazione che dice “No!” come in un What’s Going On moderno e consapevole dell’evoluzione dei linguaggi cui è affidato. La Nuova Amerykah tratta argomenti pesanti ricorrendo a un’estetica personale che attinge dalla musica nera d’avanguardia sistemando Shafiq Husayn, Madlib e un Thundercat non ancora sulla cresta dell’onda accanto al team che sin dall’inizio accompagna la Badu.

Lo senti forte e chiaro già in una copertina smaccatamente funkadelica che stavolta l’aria è diversa. Da bravi afrofuturisti, si viaggia attraverso il tempo e lo spazio costruendo ipotesi di attualità con cascami del passato e non è forse la tradizione ricontestualizzata uno dei pilastri dell’hip-hop? Tutto quadra, in primis le urgenze espressive accoppiate all’ampiezza della visione, alla conoscenza della Storia, alle speranze e ai sogni di un popolo. Anche per questo tessiture complesse si snodano disinvolte dall’incipit Amerykahn Promise, che sbuca da Mothership Connection tra fiati tellurici, vocine satiriche e atmosfera sci-fi, fino al (quasi) conclusivo, struggente e atmosferico soul cosmico in jazz di Telephone, cioè lo Stevie Wonder dei ’70 accompagnato dai Portishead.

Nel mezzo, di tutto e di più: battute dopate al gusto dub (The Healer/Hip Hop) o piovute da remoti angoli dell’universo (Twinkle, My People), florilegi fiatistici e fraseggi vocali messi a nuovo (Master Teacher, Me), aggiornamenti di rhythm’n’blues (Soldier), cyberfunk sbilenco però orecchiabile con finale a cappella (The Cell). Ti imbatti in saggi di hip-hop progressista, trame ricche ma bilanciate, intarsi produttivi e perspicacia dell’insieme e, a ribadire il senso di accurata progettualità, un hip-soul di classe come Honey viene sistemato in coda a mo’ di arcobaleno dopo la tempesta. Ora come allora, l’anima latita nel soul odierno se non è di valenti revivalisti e vecchi leoni che parliamo. Qui, invece, il gioco ha un altro nome: un nome che appartiene al classico capolavoro che cresce negli anni. Black is beautiful, oggi più che mai.

La musica del caso: Waeve

A un certo punto del proprio percorso può capitare di avvertire il bisogno di voltare pagina. Insegna David Bowie che i ch-ch-ch-changes sono il sale della vita, a maggior ragione se gran parte del pubblico – ma anche certa critica rigida, quando non dotata di paraocchi – ti ricorda per un fenomeno bruciatosi in un biennio. Importante, chi lo nega, ma di certo la tua identità artistica non finisce né inizia con le risibili rivalità con gli Oasis o con lo spirito celebrativo del Brit-pop. Da vero signore, Graham Coxon preferisce aggirare faccende del genere con sorridente benevolenza e anche per questo merita un applauso. Poi – prima, in realtà – ne ottiene un copioso scroscio per aver aiutato le cose ad accadere in maniera spontanea.

Questi a farla breve i presupposti del progetto The Waeve (da pronunciare wave) allestito nel dicembre 2020 con Rose Elinor Dougall. In un momentaccio nel quale stava affrontando gli strascichi della pandemia, un matrimonio in frantumi e il ritorno a Londra, Graham si imbatteva nell’ex componente delle Pipettes, da qualche tempo attiva in veste solista, una parola tirava l’altra e nasceva l’idea di scrivere insieme per vedere che effetto avrebbe fatto. Il dialogo iniziava dallo scambio reciproco di canzoni altrui e delle rispettive esistenze mentre i Nostri scoprivano di volersi parecchio bene. Una bella storia, insomma, e non è per caso che la creatività abbia preso a fluire rapida, sfociando in un album che rappresenta la cosa migliore offerta da Coxon fuori dai Blur. Da par suo, Rose – impegnata a microfono e tastiere – contribuisce eccome a qualcosa che, per i motivi sopra esposti, va oltre la somma dei singoli elementi.

In realtà, The Waeve coglie impreparati se dei Blur si considera soltanto l’aspetto pop, scordandosi l’anima sperimentale e la curiosità che stanno a monte di meraviglie come l’album omonimo e 13. Mai come in questo caso fermarsi lì significa sminuire la voglia di mettersi costantemente in discussione che ha reso grande il quartetto e che emerge cristallina anche in questo frangente. Non avendo nulla da perdere né da dimostrare, la coppia impasta un pop d’autore “trasversale” con il dopo punk e i suoi predecessori glam e progressisti, con il folk e l’elettronica e il post-rock, fino a ottenere un’ossatura di riferimenti sulla quale gioca di mescolanza e tensione, razionalità e istinto, passato e presente.

Se vi pare poco, passate pure oltre. Sappiate tuttavia che, così facendo, vi perderete gioielli della caratura di Over And Over e Alone And Free (un giovane Brian Eno tra i solchi del White Album?), Can I Call You (kraut-wave finemente cesellata che parte meditativa per accendersi all’improvviso), Drowning e Undine (grossomodo: Scott Walker che produce Laetitia Sadier). Se Someone Up There e Kill Me Again filtrano alla luce della maturità quel fantastico frullato di tre decenni abbondanti di inglesità – e non solo… – in musica, All Along scardina una ballata con stridori e indolenza, la vetrosa Sleepwalking maneggia melodie oblique e arguzia strutturale tra Roxy Music e Stereolab e You’re All I Want To Know srotola un soul bianco à la Lennon che non disdegna le ombre. Splendore che ci auguriamo non rimanga isolato, The Waeve prenota con autorevolezza un posto tra i dischi dell’anno. Di nuovo, applausi.

Judee Sill: caduta e ascesa di una fenice

Quando scrivi di musica nell’era di internet, cercare di raccontare le persone è ciò che conta. Essendo i fatti (calunnie e falsità incluse) a portata di click, porli in relazione costituisce un valore aggiunto e idem capire cosa sta dietro la biografia. Studiando le vite degli altri, rifletto su quanto di esse abiti nei dischi e a volte scopro cose spiacevoli che tratto con i guanti, poiché detesto la morbosità e le agiografie e preferisco interessarmi cosa spinge un essere umano verso determinate scelte. Pur sapendo che l’artista non appartiene a questo pianeta, è così che ci gettiamo nelle anime altrui per capire la nostra. A maggior ragione se una donna – intensa e naturale come un fiore che si apre al sole – trasforma insicurezze e massimi sistemi in emozione pura. Perché di amore e della sua assenza si scrive sulla pelle, perché la femminilità è uno stato che prescinde dal corpo, perché il destino si rivela giorno per giorno.

Incontrare per la prima volta Judee Sill significa abbandonarsi a un’onda che ti accompagna mentre nuoti a mezz’aria. Devi sentirla, dopo di che ascolterai con orecchie diverse una differenza tra piegarsi e spezzarsi così sottile da sparire e quel blues inteso come condizione dello spirito in cerca di rifugio. Alla fine affronti il dolore, il misticismo e la (ri)scoperta avvenuta grazie all’entusiasta Jim O’Rourke, a un articolo di Mojo e alle successive ristampe. Solo due gli LP ufficiali, ma abbagliano come cattedrali sotto una volta stellata e sottolineano l’ascendente su nomi eccellenti – Joanna Newsom e Julia Holter, Warren Zevon e Beth Orton, Bill Callahan e Bonnie “Prince” Billy – che ne hanno riletto le canzoni o hanno inseguito una musica delle sfere impossibile da replicare. Il segreto della perfezione, forse, sta in un talento che ha compensato il caos con l’elevazione umanistica mentre viveva come un acrobata senza rete. Può bastare. Avanza, persino.

Breve la vita di Judee Lynne Sill, benché abbia più senso parlare di tante esistenze bruciate per riempire una voragine affettiva. Nata nell’ottobre 1944, cresce a Oakland prendendo confidenza con piano e chitarra nel bar gestito dal babbo. Quando costui muore, mamma si risposa a Los Angeles con un disegnatore di cartoni animati alcolizzato e violento e la ragazzina diventa adulta anzitempo nel peggiore dei modi, poiché il patrigno la picchia e ne abusa. Poco da stupirsi se da teenager sembra uscire da un noir di Jim Thompson: cacciata dalla scuola pubblica, all’istituto privato Judee fuma erba; ottenuto il diploma, si sposa per dispetto, rapina benzinai e negozi di liquori; in riformatorio impara a suonare l’organo e divora libri. Di nuovo libera, si lega a un contrabbassista che la introduce all’LSD finché non entra in scena Bob Harris, pianista tossicodipendente che la porta a Las Vegas per un matrimonio che non durerà. Altro giro, altro inferno: un’eroinomane orfana anche di madre firma assegni a vuoto, ruba, si prostituisce. Tornata in galera, tocca il fondo quando ricontatta il fratello e lo scopre deceduto. Ormai sola, traccia una linea e decide da che parte stare.

La ventunenne (!) che ha vissuto il doppio si accosta ai Rosacroce, all’esoterismo e all’alchimia. In un impeto febbrile scrive e, amica di gente che milita in Leaves e Turtles, ottiene un impiego da autrice conto terzi. Le Tartarughe trasformano Lady-O in una hit, David Geffen prende nota e nel ’71 la chiama alla Asylum riservando il numero uno del catalogo per Judee Sill, capolavoro che cancella i confini tra pop, colonna sonora, gospel, classica, folk. Tutto armonizzato da una calligrafia di naturale complessità e avvolto in un’orchestrazione bilanciata, della quale si occupa soprattutto Don Bagley, già nel di poco antecedente Ladies Of The Canyon che presta anche il produttore Henry Lewy. In un autentico “a sé” piovono da dimensioni ultraterrene la melodia e il corno di Crayon Angels, una The Achetypal Man mediana tra Bach e country blues, l’arcadia folk screziata di barocco in The Phantom Cowboy e di Hollywood per Ridge Rider. Tra elaborati simbolismi, sensualità criptica, arcani flower power e citazioni del romanzo L’ultima tentazione di Cristo, la voce – spesso sovraincisa in strutture corali e fughe – conficca nel cuore gli estatici rapimenti My Man On Love e Lopin’ Along Through The Cosmos, la cantabilità sofisticata di Lady-O e The Lamb Ran Away With The Crown, il gospel laico del singolo Jesus Was A Cross Maker curato da Graham Nash, il peculiare r&b Enchanted Sky Machines, l’arazzo Abracadabra. Si trascende il sublime, ogni volta privi di parole. Incantati. Stupefatti.

Lo stato di grazia prosegue nei tour con Randy Newman e Van Morrison, benché il 33 giri sia un fiasco commerciale e il tentativo di lanciare in Inghilterra una cantautrice sui generis non porti a nulla. Sospettando che Geffen la promuova in modo inadeguato, la bad girl lo insulta pesantemente e poco dopo un enorme cartellone pubblicitario sul Sunset Boulevard è rimosso. Gli obblighi contrattuali ridotti al minimo, al sostegno economico provvede un fondo fiduciario, comunque scialacquato in costosi regali ai conoscenti più cari come il poeta David Bearden, amore tormentato protratto fino a metà decennio. Nel 1973 Heart Food conferma Lewy in regia, mentre Judee si occupa delle partiture e impugna egregiamente la bacchetta pur senza alcuna esperienza. Compatto e articolato, il disco offre sonorità più piene e cose memorabili nello struggimento da favola The Kiss, in una frizzante The Pearl, nella meditabonda The Phoenix. Apice assoluto The Donor, sinfonia tascabile dove il crescendo chiesastico si scioglie su pianoforte e voce e scaglia il coro del kyrie eleison in empirei dai quali si sta per precipitare.

Esigue le vendite, due incidenti automobilistici ledono la spina dorsale della Nostra, che con i suoi trascorsi non può acquistare antidolorifici e – amaro paradosso – deve per forza ricorrere alla droga. L’ultimo sussulto nel 1974, quando esce dall’ospedale e in un giorno incide Hi, I Love You Heartily Here, album “perduto” ripescato da O’Rourke sul CD Dreams Come True del 2005 con altri inediti per uno scavo di archivi proseguito da Live In London e Songs of Rapture And Redemption. Nel centro esatto dei Settanta inizia il dissolversi silenzioso di chi, non tollerando l’invalidità crescente, torna nei luoghi dove è nata. La mattina seguente il Ringraziamento 1979 la Sill viene trovata nel suo appartamento stroncata da un’overdose. Il medico legale archivia il caso come suicidio, ma gli amici ricordano un pranzo sereno pur se disseminato di segnali – sguardi, gesti, frasi – che cogli soltanto a posteriori. Dopo la cremazione, l’oceano Pacifico ricongiunge il corpo all’universo e cala il sipario. Restano in dote musiche che rasentano l’indicibile e la consolazione che, come la fenice che cantò, Judee è viva più che mai.